Corriere 14.6.18
L’emergenza sbarchi
I due cadaveri trovati abbracciati «Sono morti di stenti sul gommone»
Catania, a terra i naufraghi salvati dalla nave Diciotti. «Ci servono medicine»
di Giusi Fasano
Catania
I colori dell’alba stanno sfumando quando la sagoma della nave Diciotti
compare in lontananza. Alle sette e mezzo l’attracco è finito, si
comincia. «Oddio, quanti sono...» sembra realizzare soltanto ora un
ragazzo della Croce Rossa. Sono 932. Uomini, donne e bambini partiti da
chissà quale posto in fondo al mondo, passati dalla Libia e imbarcati su
qualche bagnarola galleggiante, senza nessuna certezza di arrivare fino
a qui.
Hanno facce stravolte dalla stanchezza e voglia di
scendere ma i tempi per le visite mediche e per l’identificazione non
sono brevi. A fine giornata avranno toccato terra in 701, gli altri lo
faranno stamattina.
Il medico legale sale a bordo per primo, deve
fare accertamenti sui due morti che la Guardia Costiera ha recuperato
durante una delle operazioni di salvataggio, fra sabato e lunedì. Quando
ha finito, il dottore si avvicina ai colleghi della Sanità Marittima e
dice che no, quei due non sono morti annegati. Erano un ragazzo e una
ragazza, giovani, molto deperiti. L’autopsia spiegherà di più ma nei
ricordi di chi li ha trovati il solo dettaglio che resterà di quei due
poveri corpi è che erano abbracciati, stretti l’uno all’altro su un
gommone alla deriva, forse morti di stenti, prima lei di lui. Si saprà
poi che non erano parenti o coppia: si erano conosciuti da prigionieri,
tutti e due somali, in uno dei campi dell’orrore in Libia.
La loro
storia passa di bocca in bocca e sulla banchina che accoglie i migranti
c’è un silenzio surreale mentre i due corpi lasciano il porto sui carri
funebri. Un attimo dopo è di nuovo fermento, riprende a scorrere il
fiume incessante di gente che scende dalla passerella, si ripara dal
sole sotto una tenda bianca, si lascia misurare la febbre, mostra le
ferite della scabbia. Il primo bimbo che scende in braccio a sua madre
(eritrea) ha meno di tre mesi, un cappello nero in testa e nessuna
voglia di farsi fotografare. Gli operatori lo accolgono con un sorriso,
provano a giocare, lo coccolano. L’attenzione è tutta per lui in una
sorta di picchetto d’onore, chiamiamolo così: tutti attorno a quel
bimbo, quasi sugli attenti per quella giovanissima vita che passa e si
infila nella tenda della Croce Rossa.
I bambini piccoli sono molti
e sommati ai minori non accompagnati (in genere quelli oltre i 14 anni)
sono oltre duecento. Si guardano attorno smarriti, ascoltano gli slogan
urlati da un gruppo di manifestanti che osserva da lontano lo sbarco e
mostrano fieri il braccialetto colorato che è stato loro assegnato sulla
nave. Ogni colore uno stato di salute preciso.
Fra i piccoli ci
sono anche due bimbi siriani arrivati con i familiari. Sono in otto.
L’uomo che sembra più adulto dice ai medici che «lui ha bisogno di
psicofarmaci, per favore». «Lui» è un ragazzo che se ne sta lì muto,
assente. Qualcuno spiega ai medici che «un giorno hanno bombardato la
sua casa, hanno ucciso sua madre e da allora non ha più capito niente,
non ha più parlato». Al mediatore che parla la sua lingua raccontano poi
che il padre del ragazzo aveva due soldi da parte e li ha investiti
tutti nella speranza che il figlio arrivasse in Europa. Lo ha affidato a
una famiglia in partenza e l’ha abbracciato per l’ultima volta davanti
alle macerie della loro casa.
C’è una giovane donna, anche lei
siriana, che scuote la testa e si arrabbia perché suo marito le dice di
fare quel che chiedono i poliziotti: togliersi il velo nero che le
avvolge i capelli per lo scatto della foto segnaletica. «No» ripete lei
infuriata. Finisce che quello scatto si fa in una tenda, lontano da
sguardi di sconosciuti. Nell’Italia tanto sognata sono arrivati quasi
tutti scalzi, senza nient’altro che i vestiti. Raccontano mesi, a volte
anni di non-vita e violenza passati quasi sempre in Libia a sperare che
ogni giorno fosse quello buono per partire. Vista da qui, dalla
salvezza, quella sembra una vita fa.