Corriere 14.6.18
Il dono del Tikkun che salverà Gaza
L’arte di riparare il mondo
di Yaniv Iczkovits
Mio
nonno, Moshe Iczkovits, non era registrato nelle liste dei tedeschi,
eppure salì su un trasporto diretto ad Auschwitz. Salì sul treno della
morte per seguire la sua amata, senza poter immaginare quale sorte li
aspettava. All’arrivo mio nonno era destinato a morire, ma un medico del
campo di Auschwitz ebbe pietà di lui e modificò il numero che aveva sul
braccio. Fu così che mio nonno si salvò e fu spedito in un campo di
lavoro. Dopo la guerra, quando tornò alla cittadina dov’era cresciuto,
si rese conto di non poter restare oltre nella terra dove era nato.
Il
suo Paese l’aveva tradito. Israele rappresentò il suo tikkun, la sua
riparazione. Quando nacqui all’ospedale Soroka di Beersheva, negli anni
Settanta, insieme a me erano nati altri bambini, arabi, figli di persone
del posto, a cui il nonno raccontò una storia del tutto diversa.
Vivevano in paesi e città della Palestina, finché un giorno scoppiò la
guerra e furono costretti ad abbandonare le loro case. Alcuni raccontano
di essere scappati per paura, altri che gli ebrei li cacciarono dalle
loro abitazioni. Comunque sia andata, il giusto tikkun ottenuto dagli
ebrei con la fondazione dello Stato di Israele significò la catastrofe
per molti figli di questa terra. Il tikkun di un uomo è la catastrofe di
un altro e ancora oggi non si è trovata la riparazione per questa parte
del mondo. Noi israeliani abbiamo imparato a convivere con il conflitto
come si convive con un tumore. Periodicamente ricominciamo l’ennesimo
aggressivo ciclo di sedute di chemioterapia, da terra o dall’aria, ma
ogni volta il tumore colpisce un’altra parte del corpo. Un tempo c’erano
infiltrazioni dalla Striscia di Gaza, e abbiamo costruito le
recinzioni. Poi è stata la volta dei missili Qassam, e ci siamo riparati
sotto una Cupola di Ferro. Dopodiché hanno scavato i tunnel e noi
abbiamo levato una barriera. Adesso è la volta degli aquiloni che
incendiano i nostri campi. Forse inventeremo il frumento che non brucia.
Chi lo sa come andrà a finire. Per quanto noi possiamo inventare e
perfezionare, nessun tikkun arriverà. Le due parti sono troppo occupate a
fare paragoni e discutere di chi ha sofferto di più e a quali privilegi
questo gli dà diritto.
Nel corso degli anni, i politici hanno
tentato di disegnare mappe, definire linee di confine e firmare accordi
parziali. Nessuno si occupa più di ciò che costituisce il cuore del
conflitto: il dolore dei due popoli. Si tratta di un ottimo esempio di
completo fraintendimento del concetto di tikkun: questa terra non
richiede mappe, bensì una consapevolezza condivisa. Non un
coinvolgimento internazionale, ma fiducia. Non unilateralità,
collaborazione. L’ultimo romanzo che ho scritto («Tikkun o la vendetta
di Mende Speismann per mano della sorella Fanny») viene a rammentarci
che il tikkun nell’anima di un uomo, o nello spirito di un popolo, non
può avvenire se non si rovista nelle ferite. Il tikkun richiede di
superare i confini, di uscire dalla zona di comfort. Ci costringe a fare
qualcosa che non abbiamo mai fatto. Ci obbliga a riconoscere quello che
abbiamo sempre cercato di dimenticare. Ci invita a raccontarci una
storia diversa da quella a cui siamo abituati.
È questa la grande
forza della letteratura. Mentre la realtà produce giustificazioni e
spiegazioni su quanto avvenuto, su cosa bisogna fare e come bisogna
reagire, la letteratura esige attenzione. La realtà ci incanala subito
verso la nostra visione, la letteratura impone di cancellare i confini.
Mi ricordo un giorno, ero impegnato come riservista nella Striscia di
Gaza e mi trovavo a un posto di blocco a osservare «i miei nemici»
attraverso un binocolo. D’un tratto nel cortile di una delle case ho
visto un papà di Gaza giocare a calcio con i figli e le figlie.
Ricordo
di essere rimasto stupefatto di fronte a quel quadretto così banale. I
miei occhi non erano avvezzi a scene simili. Le mie orecchie non erano
abituate a udire scoppi di risa dall’altra parte. Sono rimasto a fissare
per ore quella famiglia che nemmeno sapeva di essere osservata, come se
si trattasse di un miracolo. È questo che succede quando le persone
sono rinchiuse nei loro confini. La comprensione basilare, naturale,
dell’umanità dell’altra parte, diventa quasi impossibile. Ecco, oggi sia
da parte degli israeliani sia da parte dei palestinesi non avvengono
molti miracoli, e le barriere si fanno sempre più alte. Eppure alla base
di tutto, volendo essere ottimisti per un momento, sia nella storia
israeliana sia nella storia palestinese ci sono dolore e giustizia. Le
storie sono lì, aspettano qualcuno che faccia il primo passo e
attraversi il confine. Per quanto la soluzione del conflitto sembri
impossibile da un punto di vista diplomatico e storico, per quanto la
sicurezza paia irraggiungibile. Alla fine due persone, un palestinese e
un israeliano, si troveranno una di fronte all’altra, alzeranno gli
occhi dalle mappe, si guarderanno negli occhi e diranno: noi vogliamo la
riparazione, vogliamo il tikkun.
(Traduzione di Raffaella Scardi)