il manifesto 14.6.18
Emily Dickinson, il mistero della poesia
Al
cinema. «A Quiet Passion»,il nuovo film di Terence Davies, ripercorre
la vita e le scelte della poetessa tra emancipazione e moralismo.
Cynthia Nixon dà il volto a una figura femminile chiusa nella solitudine
e nell’insuccesso dei suoi versi
di Beatrice Fiorentino
Il
titolo è A Quiet Passion, ma avrebbe potuto anche essere «A Quiet
Rebellion». La ribellione quieta di Emily Dickinson, protagonista del
biopic di Terence Davies che torna, a sedici anni da La casa della gioia
a immedesimarsi nello sguardo di un personaggio femminile. Ancora
memoria, ancora famiglia e tormenti esistenziali indagati con coerenza
di pensiero e di forma dal regista settantaduenne, in una sorta di
transfert con una donna solitaria, come si evince fin dalla prima
emblematica sequenza, che racchiude il senso di un’intera «vita minore»
segnata dall’intransigenza, dal rigore morale, ma anche da una spinta
verso l’emancipazione decisamente fuori dagli schemi per l’epoca.
Il
racconto comincia in collegio. Un collegio religioso dell’America
puritana dell’Ottocento. Ambiente disadorno, luce claustrale, sopra alla
figura della rigida istitutrice si staglia un crocifisso. Campo e
controcampo. Da una parte l’istituzione, dall’altra un gruppo di giovani
donne chiamate a una scelta: a destra le timorate, che scelgono di
abbracciare la salvezza nella parola di Dio; a sinistra quelle che
sperano un giorno di trovarla. E al centro Emily. Sola.
Inclassificabile. Inesorabilmente destinata a una vita da outsider.
C’è
qualcosa di contraddittorio nella figura di Emily Dickinson e nella sua
visione a tratti dicotomica dell’esistenza, che si traduce proprio in
quella condizione di isolamento che il regista esemplarmente sottolinea
nelle prime inquadrature. Una condizione autoinflitta in contrasto con
l’immagine «rivoluzionaria» di una giovane donna che in tempi di
evangelizzazione e di pensiero cristiano (le parole ricorrenti sono Dio,
preghiera, anima, peccato, inferno), quando la possibilità di scelta
spaziava al massimo tra il matrimonio e la depressione (non sempre in
antitesi), non si mostra remissiva, non si piega a una fede religiosa
che anzi rivendica di non possedere, né cede al comportamento pio che si
converrebbe a una signora del suo rango. Dickinson (che ha il volto di
Cynthia Nixon, prossimamente candidata alle primarie dem per la corsa al
posto di governatore di New York) è, a tutti gli effetti, una borghese
progressista. Si dimostra femminista ante-litteram, aspira a un amore in
cui uomo e donna si rapportino alla pari, vagheggia un’uguaglianza tra i
sessi allora impensabile.
Eppure, alla morte del padre, sceglie
la via della clausura, si chiude in camera di bianco vestita, nella casa
di famiglia, lasciando ostinatamente la vita e il caos del mondo al di
là di una candida tenda di pizzo fino al sopraggiungere della morte, che
la coglie nel suo letto per una nefrite a soli 55 anni. Perché una
donna che legge Cime Tempestose e rifiuta l’ipocrisia della società
opponendosi alla «disubbidienza in segreto» decide di chiudersi in una
gabbia? Perché il suo rigore morale si inacerba al punto da prendere la
deriva del moralismo bigotto? Forse perché anziché omologarsi, Dickinson
intraprende appunto la via di una «quieta ribellione», che si
radicalizza in un contro-pensiero che passa attraverso la parola (la
poesia) e il corpo (negato), rassegnata all’idea di un’esistenza
solitaria e all’insuccesso dei suoi versi. Il suo è sì un pensiero laico
e terreno, ma è tuttavia privato (non privo) di ogni sensualità. Davies
ne asseconda l’austerità. La forma rigorosa, la scrittura in tre atti, i
chiaro-scuri, la macchina da presa inchiodata a terra, sono espressione
di uno stato d’animo comunque avvolto da un mistero insondabile. I
titoli di coda che scorrono sulle note dissonanti di The Unanswered
Question (del compositore Charles Ives, i cui brani musicali, come i
versi di Emily Dickinson, rimasero ignorati finché fu in vita) sono
forse l’unica risposta possibile.