Repubblica 9.5.18
Amore sacro e amor profano
“Carne e salvezza” E l’Uomo creò la Dea Madre
di Silvia Ronchey
A
maggio si celebrano Maria e tutte le mamme Una festa che deriva dal
culto più ancestrale: quello che, da Iside a Venere fino alla madre di
Gesù, spinge il mondo (maschile) a invocare divinità femminili
Uomini turbati dalla musica quando sentono una calda voce femminile nera cantare un blues.
Uomini
rapiti dalla scrittura che non sanno dare altro nome al simulacro di
donna che li ispira se non quello di “musa”. Poeti, come Keats e
Leopardi, che dialogano con il volto triforme della luna. Uomini che
attraversano ogni giorno una folla muta di madri divine dal capo velato
che li guardano nei musei, ai trivi delle strade, rinserrate nelle
edicole sacre, calamitate sui cruscotti delle auto. Uomini che dialogano
con altri uomini in una seduta psicoanalitica mentre aleggia su di loro
la presenza costante di un complesso di natura femminile. Chi sono
questi fantasmi di donne che popolano la vita dei maschi? Sono tanti e
diversi? Oppure è uno solo, quello della Madre Eterna?
Considerata
l’esperienza degli esseri viventi di questa terra, dov’è nell’animale
femmina che fisicamente si forma la vita, credere in un principio
creatore non maschile, com’è il dio del cristianesimo e già dei
giudaismo e poi dell’islam, ma femminile, è stato in origine più
immediato, più intuitivo. Anziché a un Dio Padre, l’umanità è stata a
lungo devota a una Dea Madre.
Nei miti delle culture da cui nasce
la nostra — mesopotamica, egizia, greca, italica, romana — il volto
mutevole di questa dea emerge in diverse personificazioni e prende molti
nomi: Ishtar-Astarte-Afrodite–Venere; Ecate triforme, come tre sono le
fasi della vita e tre quelle della luna; Demetra-Cerere e
Persefone-Proserpina; Cibele, Artemide-Diana. «Progenitrice della
natura, signora degli elementi, / germoglio dell’inizio di tutti i
tempi, somma potenza, / regina dei Mani, prima tra i celesti, / unico
volto di tutti gli dèi e di tutte le dee, / che col cenno del suo capo
comanda / alle luminose sommità dei cieli, / ai freschi venti del mare /
e al fecondo silenzio sotterraneo: / la sua unica volontà venera in
molti modi, / secondo differenti usanze e molti nomi, / tutta la terra».
Non
è una preghiera rivolta a una delle divinità femminili pagane elencate
sopra, ma un brano tratto da una liturgia mariana medievale.
Perché
se il cristianesimo impernia il suo credo su un unico Dio Padre, è
anche l’unica tra le religioni del libro a lasciare sopravvivere, nella
sua versione ortodossa e cattolica, la grande e ancestrale tradizione
della divinità femminile. Nella figura della Madre di Dio — la Theotokos
bizantina, su cui i primi concili ecumenici hanno tanto dibattuto —
convergono molti tratti della Grande Madre e delle varie divinità
femminili in cui si è espresso il suo culto. È un culto principalmente
lunare. Perché nel grande ricamo astrale in cui tutte le antiche
religioni dispiegano i loro miti e i loro dèi la divinità femminile in
cui convergono tutte le altre è la Luna: La Dea Bianca di Robert Graves,
la Casta Diva «che inargenta queste sacre antiche piante» della Norma
di Bellini. Poiché il ciclo naturale delle messi implica la morte e la
rinascita del seme, la Grande Dea è sempre connessa a culti legati al
ciclo morte-rinascita, e questo ciclo è simboleggiato dalla Luna fin da
tempi antichissimi. In seguito con la divinità lunare si
identificheranno principalmente Diana, la dea che reca la falce di luna
in fronte nell’iconografia classica come ancora nei quadri
rinascimentali e barocchi, e una divinità di origine egizia, Iside, che
diventerà la Madre Nostra per eccellenza della grande e unificata
cultura mistico-religiosa, ma anche filosofica, poetica e letteraria,
dell’impero romano. A lei Lucio Apuleio, al termine de Le metamorfosi,
dedicherà la sua preghiera: «Regina del cielo — che tu sia Cerere la
ristoratrice madre delle messi, o che tu sia invece Venere celeste, che
ai primi esordi delle cose ha composto la discrepanza dei sessi creando
Amore; o che tu sia Artemide, la sorella di Febo Apollo; o che tu sia la
tremenda per notturne grida Proserpina, che con il triforme aspetto
reprime le sortite degli spettri e tiene serrati i battenti degli inferi
— Tu che con la tua luce femminile illumini tutte le mura e con i tuoi
raggi umidi nutri i lieti semi e in rivoluzioni solitarie dispensi la
tua fioca luce, con qualunque nome, con qualunque rito, sotto qualunque
aspetto sia lecito invocarti, assistimi nelle mie sventure».
Erano
già propri di Iside gli epiteti che lungo i secoli sono stati
attribuiti alla Madonna: “Santa Vergine”, “Regina del Cielo”,
“Dispensatrice di Grazie”, “Regina del Mare”, “Stella Mattutina”,
“Salvatrice”, “Madre Misericordiosa che ascolta le preghiere”. E ricorda
da vicino l’iconografia della Madonna la descrizione visiva che Apuleio
dà dell’epifania di Iside, con i lunghi capelli e il manto fluente
disseminato di stelle. Gli studiosi di icone bizantine hanno ricollegato
la rappresentazione di Iside lactans, ossia di Iside che allatta Horus,
a una tra le più diffuse tipologie delle icone mariane, quella della
Vergine Galaktotrophousa, che allatta al seno il Bambino Divino.
Ad
accomunare il culto della Madonna a quello delle figure che nella
religione classica ha assunto la Grande Dea è quindi l’adorazione di una
coppia sacra madre-figlio, come nel caso di Iside, o anche
madre-figlia, come nel caso di Demetra e Proserpina. È lo status di
Mater Dolorosa, che accomuna sia Demetra in lutto per la figlia rapita
nell’Ade - che periodicamente risorge insieme alle messi nella stagione
primaverile (un mistero al cuore dei misteri eleusini) - sia Iside (il
cui mito stringe in un unico nodo simbolico la coppia sposa/sposo e
quella madre/figlio). A strutturare la figura della divinità femminile è
questo ulteriore e saliente attributo: il compianto per il figlio
perduto, il mistero della sua resurrezione.
Il fatto che il
cristianesimo faccia sopravvivere nella figura della Madre di Dio la
grande tradizione della divinità femminile, e il fatto che nella Madonna
convergano i tratti della Grande Madre e delle varie divinità in cui si
è espresso il suo culto, non fa che dare spessore e profondità di
significati alla figura della Vergine, ai suoi attributi, alla sua
iconografia, alla sua storia devozionale: ci aiuta a decrittarla.
Ma
certo non implica che la Madre di Dio cristiana sia semplicemente una
delle ipòstasi della Grande Madre. Qualcosa di molto singolare si è
aggiunto, e molti hanno cercato di descrivere cosa sia, in termini
teologici, filosofici, letterari, poetici. In un testo che risale al VII
secolo bizantino, l’Akathistos, quello che i teologi considerano il più
bell’inno mariano dell’antichità, la Grande Madre è invocata come
«Madre dell’Astro che non tramonta, colonna di fuoco che guida chi è
nella tenebra, roccia che disseta chi ha sete di vita, albero dai lunghi
rami che dà ombra a migliaia, amore soverchiante ogni desiderio,
iniziatrice di nuova forma razionale, raggio del sole intellettuale,
freccia di luce inoffuscabile, tesoro di vita indissipabile, terapia
della carne, salvezza dell’anima», ma soprattutto, ricorrentemente, come
«sposa non sposa».
Nel mondo ortodosso l’Akathistos si canta
spesso, ma è particolarmente commovente ascoltarlo in un qualsiasi
monastero maschile greco la notte tra il 14 e il 15 agosto, in occasione
della festa dell’assunzione in cielo della Vergine — un vero
asterismos, simile a quelli della tradizione classica — quando scure e
melodiose voci di uomini soli invocano la Theotokos affiancando
quell’accento di pura metafisica che contraddistingue la teologia
bizantina all’invocazione struggente di una Madre lontana.
La
perturbazione ancestrale prodotta nella psiche maschile dalla Grande
Madre è insopprimibile proprio perché sotterranea, universale perché
collettiva e popolare.
La preminenza femminile, la potenza della
donna, nella tutto sommato non lunga storia del mondo patriarcale
possono essere state rimosse in termini sociali, economici, politici,
perfino programmaticamente negate in termini culturali, ma la struttura
psicologica, che si riflette in quella religiosa, permane anche e
soprattutto nel maschio.
Donna, domna, domina: signora.
Il
nome che si dà oggi all’individuo umano femmina, ancora per molti
aspetti subalterno, è già etimologicamente, nel suo affiorare alla
lingua, un appellativo sacrale.