Repubblica 9.5.18
L’arte del buon governo
Sapere e Potere nemici fraterni
di Massimo Cacciari
Per
quanto in molti idiomi i termini che indicano il potere e il sapere
sembrino indicare una comune radice, nessuna relazione si presenta in
realtà meno facilmente districabile, più complessa. Ma come? Non accade
proprio nell’età contemporanea che il sapere, in quanto scienza,
raggiunge il massimo del proprio potere, determinando non solo la forma
dei rapporti di produzione, ma quella della vita stessa? Una universale
Intelligenza, un Intelletto Agente dispiegato sull’intero pianeta, va
producendo da qualche secolo un’ininterrotta rivoluzione, che informa di
sé ogni aspetto della nostra esistenza. E tuttavia questa formidabile
Scienza è co- sciente, e proprio nei suoi esponenti più rappresentativi,
che ciò che essa produce continua a non essere in suo potere, continua a
trasformarsi in proprietà altrui. Quella libertà, senza di cui la
Scienza mai avrebbe potuto o saputo conseguire i suoi formidabili
successi, non sa di per sé diventare energia liberante per tutto il
nostro genere. I suoi prodotti, di cui non dispone, tendono all’opposto a
trasformarsi in fattori di asservimento e omologazione.
Il
problema diviene allora quello del rapporto tra il sapere e il potere
politico. E ne nascono le seguenti domande: sta nell’essenza del sapere
rivolgersi al potere politico per informarlo di sé? Se la risposta è
affermativa, il sapere avrebbe allora il dovere di impegnarsi
politicamente, e cioè di provare a detenere un potere effettuale. Ma
quale sapere? Quello propriamente scientifico? O un altro genere di
sapere? Il paradigma di un sapere che si pretende epistemicamente
fondato e che su tale fondamento intende edificare la Città, rimane
quello platonico. Se la Città vuole stare, non ridursi a una navicella
su cui sono imbarcate pecore senza pastore, o peggio mascherate tutte da
nocchieri, è necessario che essa sia imitazione dell’anima bene
educata, e cioè governata dalla sua parte razionale. La Scienza soltanto
può unificare il molteplice, conferire ad ogni parte il suo significato
e la sua missione, imporre la superiorità del Tutto sulle parti stesse.
Nulla è più irragionevole di voler razionalizzare le umane
vicissitudini – obbietterà Leopardi.
E in fondo già Aristotele
l’aveva sostenuto: mai la Città sarà riducibile ad Uno; la sua forma è
un divenire da governo a governo e all’interno di ciascuno la pace non
può che essere armistizio. La politica è sì chiamata alla costituzione
di un ordine, corrispondente alla stessa natura politica dell’animale
uomo, ma quest’ordine non sarà mai quello dei principi e delle leggi che
le proposizioni della Scienza sanno esprimere. Quello del Politico è il
regno insicuro del per lo più, impotente ad accordare il governo ai
principi universali e necessari del sapere. E quest’ultimo, a sua volta,
impotente a edificare la Città a vera immagine della coerenza e
consistenza del proprio discorso.
Così la virtù politica non andrà
confusa con la bontà del vero sapiente. Un’arte della temperanza e
della mediazione è richiesta al politico, un’arte che rimarrà sempre
estranea alle forme e ai fini della scienza. La riflessione
dell’Occidente sul Politico si orienterà sul realismo aristotelico,
tuttavia senza mai dimenticare la “nostalgia” platonica per la
Kallipolis, per la città bella- e- buona, perfettamente “in forma”.
Tale
“nostalgia” si esprime in tutte le varianti della concezione dello
Stato come suprema realizzazione della libertà individuale, della
sovranità come accordo o sintesi degli interessi in conflitto, della
società politica come immagine della civitas in interiore. Qui il sapere
filosofico-scientifico vorrebbe ancora esprimere i principi che fondano
la sicurezza dello Stato. È questo sapere soltanto che può trasformare
l’ostinata ricerca del proprio privato interesse in quella del Bene
comune.
Il sapere del Politico si è specializzato come ogni altro.
Esso riguarda come acquisire il governo e come durare in esso. Quale
sapere presuppone quest’arte? Analisi delle cose come sono e non come
crediamo dovrebbero essere; conoscere perciò la insocievole socievolezza
della natura umana, che rende necessario lo Stato in quanto misura
coercitiva; in base alle regolarità che emergono dallo studio dei cicli
politici, saper prevenire i pericoli che corre l’esercizio del potere e
prevederne gli sviluppi. Si tratta di un sapere probabilistico e
congetturale.
Gli ordini che riesce a costruire saranno sempre più
deboli della Fortuna. Questo il solo sapere necessario al governante! E
a questo sapere vorrebbe educarlo colui che sa! Ma ecco che il potente
lo respinge, lo esilia. Eppure si tratta di un sapere affatto
ragionevole nei suoi limiti, del tutto disincantato.
Non induce ad
alcuna Magia (magia significa Potenza); è ben cosciente che il Prospero
della Tempesta è tanto imbelle al governo, quanto a redimere la
cattiveria dei suoi simili. Perché allora il potente non lo ascolta?
Forse perché nessun sapere riesce a intendere la natura
irrimediabilmente doppia del potere. Non è l’analisi del vero effettuale
a costituirne l’essenza, bensì la decisione. La decisione rivolta a
qualcosa di soltanto possibile, indistricabilmente connesso al
dover-essere.
Ma per “convertire” al dover-essere è necessario
qualcosa di tutt’altro genere rispetto al sapere. È necessaria fede nei
propri fini; è necessario convincere ad essa chi ascolta. Anche per
edificare l’ordine contingente del governo politico risulta dunque
necessario il rimando a un ordine di idee che ne trascende il limite. Il
sapere sembra arrestarsi di fronte all’intima tragicità dell’agire
politico. La pallida ombra del pensiero, la cui dimensione è quella del
metodico dubbio, che solo l’evidenza razionale risolve, arresterebbe o
ritarderebbe la decisione politica. Il tempo del Politico non è quello
del sapere – e però neppure possono astrattamente separarsi, poiché
entrambe le professioni, quella del politico e quella dello scienziato,
intendono scoprire o scovare ordini possibili nel mescolarsi e
rimescolarsi incessante dei casi della vita. Al di là di ogni salvifica
magia, così come di ogni sterile amletismo, ci sia cara la loro fraterna
inimicizia.