Repubblica 9.5.18
Aldo Moro. Cronache di un sequestro / 10
l’ultimo viaggio nel buio
Via
Caetani: una strada di Roma poco distante dalla sede del Pci e della
Dc, che proprio questa mattina ha riunito la direzione con l’ormai unico
ordine del giorno, la sorte del presidente del partito Il cui corpo è
qui, nel bagagliaio di una Renault 4 rossa parcheggiata tra il civico 32
e il 33 La scelta del luogo in cui si conclude la tragedia politica
italiana è l’ultimo messaggio simbolico Da quell’automobile si scatenano
i demoni di un terrorismo avviatosi verso l’autodistruzione, di una
classe dirigente stremata e di un Paese che si vede riflesso nel
cadavere di una vittima sacrificale
di Ezio Mauro
Un
uomo col cane è l’unico inconsapevole testimone che vede spuntare in
via Montalcini la “R4” rossa appena uscita dal “covo”, poco dopo le 7
del mattino. È targata Roma N56786, l’hanno rubata a marzo, hanno
cambiato la targa, pochi giorni fa l’hanno scelta per l’ultima missione.
La guida Mario Moretti, Germano Maccari è al suo fianco. Non sanno che
nel bagagliaio, sotto la coperta, Moro sta ancora agonizzando,
incosciente. Hanno pensato a tutto, dal calibro della pistola per non
bucare la carrozzeria dell’auto, ai fazzoletti di carta sulle ferite per
tamponare il sangue, alla cerata stesa sotto il corpo. Ma non hanno
controllato che il condannato fosse morto. Come se le due raffiche
riassumessero in sé tutta la vicenda drammatica di quei 55 giorni, la
esaurissero, e poi non restasse più nulla, nemmeno una verifica, neanche
per sicurezza: neppure per pietà. Nessuno dei dodici colpi ha centrato
il cuore. Moro muore dissanguato in quindici minuti, mentre l’auto
lascia villa Bonelli, prende via della Magliana, gira a sinistra, arriva
in piazzale della Radio, passa sotto il cavalcavia verso Porta Portese e
sbuca sul Lungotevere. Lentamente, in mezzo al traffico delle scuole e
degli uffici, la “R4” sta portando la tragedia italiana verso il suo
indirizzo finale.
È un martedì febbricitante, sonnambulo,
stremato. Alle 10 e mezza a piazza del Gesù si riunirà la direzione
della Dc, che dovrebbe convocare il Consiglio Nazionale per discutere la
linea da tenere sul caso Moro, come ha chiesto con insistenza dal
carcere nei giorni scorsi il prigioniero. A casa, prima di passare dal
Viminale, il ministro degli Interni Cossiga sta scrivendo la lettera di
dimissioni che si porterà in tasca alla riunione democristiana, pronto a
consegnarla se il partito decide di cambiare posizione e aprire alla
trattativa, come ha fatto capire alla moglie di Moro e al socialista
Signorile il presidente del Senato Fanfani: molti oggi attendono una sua
parola ufficiale.
Anna Laura Braghetti ha chiuso il box del
delitto, è uscita in strada a controllare che tutto fosse tranquillo ed è
tornata nel “covo”. Da solo, Prospero Gallinari sta portando fuori
dalla cella la branda, il comodino, il water da campo, i cuscini,
arrotola il tubo di 2 metri e mezzo che passando attraverso un buco
nella porta ha fatto arrivare per quasi due mesi l’aria dal grande
ventilatore esterno. Poi, col ritorno di Maccari, smantelleranno la
parete di cartongesso insonorizzata e in due giorni della prigione
resterà solo un foro sul pavimento, il buco del cardine su cui girava la
libreria che mascherava la porta. Nessun’altra traccia del sequestro.
La
falsa casa, comprata dai brigatisti per diventare prigione, entra nella
sua terza stagione, quella di covo numero 1 delle Br a Roma. Braghetti
guarda la prigione senza quel prigioniero con cui ha convissuto 55
giorni senza che lui la vedesse mai, mentre lei lo osservava dalla
spioncino nelle ore in cui dormiva, quando pregava, appoggiato a due
cuscini ogni volta che scriveva, negli ultimi giorni con la testa tra le
mani, seduto sul bordo del letto. Nel registratore Philips a pile c’è
ancora la cassetta con la messa di domenica scorsa, Santa Flavia, due
giorni prima dell’omicidio, vicino ai nastri con la musica che
ascoltavano i brigatisti, Guccini, Lucio Dalla, Aznavour. Oggi
pomeriggio Gallinari taglierà a strisce lo stendardo con la stella a
cinque punte che stava appeso al muro della cella dietro il prigioniero,
e lo brucerà pezzo per pezzo, senza pensare che nel grande incendio
politico che il sequestro Moro ha appiccato al Paese sta intanto andando
in cenere anche la vicenda delle Brigate Rosse.
Dall’altra parte
di Roma, nella casa di via del Forte Trionfale la famiglia di Moro si
sente precipitare nell’oscurità delle ultime ore. L’associazione di cui
fa parte Giovanni, “Febbraio ’74”, cerca di far scendere in campo la
Croce Rossa come possibile soggetto terzo per cercare il filo di un
dialogo ormai quasi impossibile tra i sequestratori e lo Stato, ma
Andreotti non appoggia l’iniziativa, che si arena. Eleonora Moro ha
aspettato per tre ore nella sede romana della Caritas, insieme con
Corrado Guerzoni, una misteriosa chiamata telefonica rispondendo alla
quale avrebbe potuto parlare col marito, ma era una falsa indicazione.
«Quell’uomo – dice a Nicola Rana – io a questo punto non so se lo
rivedremo ». Ha ricevuto le ultime lettere del prigioniero da don
Antonello Mennini, giovane viceparroco di Santa Lucia, amico e
confessore di Moro che lo ha scelto come intermediario finale per gli
addii. Le ha lette coi figli, le ha rilette coi collaboratori del
marito, nello strazio delle parole dell’abbandono: «Vorrei avere la fede
che avete tu e la nonna per immaginare i cori degli angeli che mi
conducano dalla terra al cielo. Ma io sono molto più rozzo». «Credo non
sarà facile imparare a parlare con Dio. Ma c’è speranza diversa da
questa?». «Ci rivedremo. Ci ritroveremo. Ci riameremo».
La moglie
ha telefonato alle 11 di sera a Fanfani, scongiurandolo di fare
qualcosa, ha chiamato al Quirinale il presidente Leone. Poco per volta
nella casa prendono forma e peso le disposizioni che Moro dissemina
nelle lettere per il dopo. Ha scritto i testamenti il 5 di aprile, li ha
riscritti il 10. Ma ha dei piccoli lasciti di cui vuole essere sicuro:
la biro nella vestaglia per Luca, il posacenere e il pennarello marrone
nel comò per Giovanni, per Anna un topolino di metallo che lei da
piccola gli aveva regalato per non far correre troppo gli aerei quando
era in viaggio. Poi i richiami ripetuti alla tomba di famiglia a Torrita
Tiberina: «Per la tomba c’è rischio di sicurezza. Forse converrebbe
allogarmi altrove», «non disturbarti per la tomba, fa’ come vuoi», «se
vedi che non potete venire a Torrita, tienimi piuttosto a Roma». Quindi
preoccupazioni minori («non mancare di fare la vaccinazione
antiinfluenzale», «non mi disperdere le cose da vestire», «prego
lasciare unite le mie cose», «credo ci sia una buonuscita
dall’Università», «sono state recuperate le borse in macchina?»). E
ancora vere e proprie indicazioni quasi perentorie: «Tutto sia calmo.
Le sole reazioni polemiche contro la Dc. Luca no al funerale ». «Non mi
so immaginare onorato da chi mi ha condannato». «Io non desidero intorno
a me gli uomini del potere, ma coloro che mi hanno amato davvero». «Mi è
stato promesso che restituiranno il corpo e alcuni ricordi. Spero che
si possa».
Quel corpo adesso viaggia nel bagagliaio della Renault,
rannicchiato su se stesso, coperto, con qualche traccia di catrame
quasi fresco e misterioso sulla suola delle scarpe, lo stesso che
macchia i parafanghi e le gomme della macchina. Terriccio sulle calze.
Nella tasca sinistra del cappotto qualche spighetta, nell’altra un paio
di guanti di pelle scura. Sulla cerata stesa sopra il pianale, sabbia,
un piccolo cardo con gli aculei. Sopra il cappotto scuro, la custodia di
un misuratore di pressione, presa da una borsa dell’ostaggio, contiene
gli oggetti che Moro aveva con sé al momento del sequestro: ci sono la
fiaschetta di whisky, un rosario di legno dentro una custodia di lana,
un paio di occhiali da sole e tre da vista, due orologi, un accendino,
un pettine, una medaglia della Madonna, un foglio bianco con scritto
“Per papà”, tre mazzi di chiavi, la fede matrimoniale, tre assegni,
seicentodieci lire in monete. Manca quella mezza pagina del
l’ultimo
saluto d’affetto per il prigioniero e che lui aveva tenuto da parte
«perché volevo portarla sul petto, così per farmi compagnia, all’atto di
morire». Ma è andata perduta durante le pulizie della cella da parte di
Gallinari, per distrazione.
L’auto entra nelle strade del ghetto,
dove c’è l’appuntamento con la macchina-staffetta, una “Simca” verde
guidata da Bruno Seghetti, con a fianco Valerio Morucci. La sera prima
dell’esecuzione, nell’ultima riunione nell’“ufficio” di via Chiabrera,
dopo che Adriana Faranda si era ancora una volta schierata contro
l’assassinio di Moro, Mario Moretti aveva deciso che proprio lei avrebbe
dovuto guidare il piccolo corteo per portare il corpo del condannato
all’ultima sua destinazione. È la logica dei gruppi terroristici, che
punta a coinvolgere in un’azione i più contrari, per impegnarli fino a
comprometterli: «Lo faccio, ma solo per disciplina», aveva detto
Faranda, andandosene dalla stanza. Morucci si offre al suo posto,
convincendo gli altri che la sua compagna non è nelle condizioni di
garantire la sicurezza che richiede l’ultimo atto di un’operazione
terroristica nelle strade presidiate del centro.
È lui che vede
arrivare la “R4” rossa a piazza Monte Savello, punto stabilito per il
contatto. Adesso le due auto devono compiere un percorso breve, ma
pericoloso, perché pieno di luoghi presidiati dalla polizia. Ecco la
Sinagoga, poi il ministero di Grazia e Giustizia in via Arenula, quindi
il portone e il balcone della sede comunista in via delle Botteghe
Oscure, proprio dietro la sede della Dc dove stanno per arrivare tutti i
leader del partito. Ma la “Simca” mette la freccia seguita dalla
“Renault”, svolta a destra, poi prosegue, finché la targa d’angolo sul
muro indica: via Michelangelo Caetani.
Qui l’organizzazione
terroristica, ossessionata dai simboli, si è preoccupata di riservarsi
il posto più emblematico dalla sera prima. Qualcuno ha posteggiato
un’auto delle Br nel luogo giusto, in una via poco frequentata ma in
pieno centro, dunque nel recinto del potere e della sorveglianza
poliziesca, anzi a pochi passi da due santuari politici, la sede della
Dc e del Pci. Lo aveva detto Gallinari, al momento di scegliere il posto
per l’ultimo atto: «L’elemento simbolico diventa un modo politico di
concludere l’operazione, perché ribadisce la natura dell’attacco ed è
una prova di forza. Riconsegniamo il cadavere ai piedi del Palazzo ».
Per
il momento si vede solo l’auto, quella “R4” che diventerà per sempre
un’icona italiana del terrore. È a metà della strada nella tranquillità
delle otto di mattina, tra il civico 32 e il 33, sul lato sinistro
venendo da via delle Botteghe Oscure. Sul pianale davanti ci sono due
bossoli di pistola, con la capsula esplosa, una foglia verde.
Bisognerebbe avvicinarsi al lunotto posteriore, guardare dentro, per
notare quel plaid rossastro nel bagagliaio, che sembra coprire qualcosa.
Ma a quest’ora non c’è quasi nessuno. I brigatisti chiudono il
finestrino, controllano di non aver lasciato nulla a bordo, scendono, se
ne vanno a piedi, con la “Simca” e con l’auto-civetta che Morucci ha
spostato dal parcheggio, portando con sé la borsa con il mitra. Ognuno
va alla sua destinazione, l’“operazione Fritz” è quasi conclusa, manca
ancora un capitolo, ma l’operatività è finita. Domani al processo di
Torino Curcio potrà rivendicare l’esecuzione, citando Lenin: «La morte
di un nemico di classe è il più alto atto di umanità possibile in una
società divisa in classi ». Ma adesso bisogna disperdersi.
Riattraversano il centro, dopo aver lasciato nel cuore della città il
corpo dell’uomo che tutta l’Italia cerca da due mesi, con 6.296 posti di
blocco nella sola capitale, 6.933 perquisizioni domiciliari, con più di
167mila persone controllate: tutto a vuoto, tutto inutile.
Il
posto scelto per l’appuntamento tra Morucci e Faranda è la Piramide. Lui
arriva in autobus, vede lei che lo sta già aspettando. I due “postini”
delle Br devono trasmettere l’ultimo messaggio, quello della morte del
condannato. Devono annunciare l’esecuzione e rivendicarla, avvertendo
dov’è il corpo, per guidare il ritrovamento. Moro ha chiesto soltanto
un’ultima cosa a Moretti: dopo che tutto è compiuto, venga avvertita per
prima la famiglia. Devono farlo in fretta, prima che qualcuno scopra
per caso il contenuto di quell’auto in via Caetani. Ma devono stare
attenti di non essere individuati mentre telefonano. Vanno ancora una
volta – l’ultima – alla stazione Termini, contando sulla confusione,
sulla folla, sul numero di cabine. Individuano quella con la posizione
più defilata, con la visuale più ampia per il controllo di copertura,
che tocca a Faranda.
Moretti ha preso due numeri dall’agenda di
Moro, nella prigione, li ha passati ai “postini”. Sono due assistenti
universitari, forse i loro telefoni non sono intercettati, soprattutto
il primo, quello del professor Fortuna. Ma il numero non risponde, non
c’è nessuno in casa. Morucci esce dalla cabina, camminano un po’,
tornano indietro, lui riprova: niente. Dopo mezz’ora un ultimo
tentativo, a vuoto. Sta passando troppo tempo, si deve affrettare il
ritrovamento, bisogna passare al secondo numero in agenda. «È lei il
professor Franco Tritto?». «Chi parla?». «Il dottor Niccolai». «Chi?
Voglio sapere chi parla». «Brigate Rosse»: silenzio. «Dovrebbe dire
questa cosa alla famiglia, dovrebbe andare personalmente e dire questo:
adempiamo alle ultime volontà del presidente comunicando alla famiglia
dove potrà ritrovare il corpo dell’onorevole Aldo Moro». «No, se può
ripetere, per cortesia…». «Non posso ripetere, guardi. Allora, lei deve
comunicare alla famiglia che troveranno il corpo dell’onorevole Aldo
Moro in via Caetani, che è la seconda traversa a destra di via delle
Botteghe Oscure. Lì c’è una “Renault” rossa, i primi numeri di targa
sono N5».
Tritto piange, si sente la voce che si spezza al
telefono, passa la cornetta a suo padre. Morucci ripete il messaggio, si
assicura che sia stato inteso bene, che l’assistente porti la
comunicazione a casa Moro, poi saluta: «Arrivederci». Tritto va in via
del Forte Trionfale, dove Moro era uscito per l’ultima volta di casa il
16 marzo, e dove adesso arriva la notizia della morte, 55 giorni dopo.
Ma il numero del professore era sotto controllo, la telefonata è
registrata, appena finito l’ascolto parte l’allarme alla polizia e ai
carabinieri. Le pattuglie svoltano in via Cateani, una dietro l’altra, i
curiosi guardano dentro quella strada anonima del centro, attraversata
dai lampeggianti. Gli agenti vedono la macchina rossa, controllano la
sigla della targa: è quella.
Poco lontano, sta incominciando la
riunione della direzione Dc, con l’intervento del segretario Zaccagnini,
poi la sfilata dei leader al microfono nella grande stanza dove tra
poco arriverà la notizia che fulminerà il partito e il Paese, sussurrata
dal capo ufficio stampa Cavina all’orecchio del segretario. Ma non è
ancora il momento, tutti ascoltano le parole di Fanfani, ma nel lessico
democristiano del presidente del Senato non arriva nessuna apertura.
Nella prigione smontata di via Montalcini la televisione non è accesa,
non c’è più niente da capire. Precauzioni, cancellazioni, sostituzioni
mascherano via via le tracce di due mesi di sequestro. Braghetti regala a
sua zia Gabriella la grande cesta di vimini che ha trasportato Moro dal
“covo” al garage. Le armi sono in una sacca da tennis e il manico
svuotato di una racchetta avvolge e nasconde la canna di un fucile. Un
caricatore è mimetizzato dentro un pacchetto regalo. Solo il ciclostile
resiste, nascosto dietro la porta sempre chiusa del bagno di servizio.
Adesso l’ultimo gesto: Prospero Gallinari brucia in casa l’agenda
telefonica di Moro, utilizzata dai “postini” per chiamare i destinatari
delle lettere, foglio per foglio. Deve sparire.
In via Caetani
arriva Antonio Cornacchia, che comanda il nucleo investigativo dei
carabinieri, e ha ricevuto l’allarme dalla radio dell’auto. Scende, si
avvicina, controlla: è davanti alla “Renault”. Avverte il comando via
radio, gli dicono di aspettare l’arrivo degli artificieri. Ma Cornacchia
gira intorno alla macchina, guarda dentro, vede quel plaid dietro, gli
sembra che copra qualcosa. Aspetta, guarda ancora, poi decide. Prende
dalla sua auto un piede di porco, e fa saltare la chiusura. Alza il
portellone posteriore, con una mano muove la coperta. Appena spostata lo
vede: Moro è lì dentro, nel bagagliaio, con gli stessi vestiti di quel
mattino di marzo. Le gambe piegate indietro, la mano destra sul petto,
la testa appoggiata alla ruota di scorta. La barba è cresciuta: come se
il corpo del condannato volesse continuare a vivere.
10. Fine. Le altre puntate sono uscite il 9, il 16, il 23 e il 30 marzo; il 6, il 13, il 20 e 27 aprile e il 4 maggio