mercoledì 9 maggio 2018

Corriere 9.5.18
L’intervista Giuliano Amato
«Per tentare di salvare Moro si poteva trattare con le Br»
L’ex premier: la linea delle fermezza fu scelta per la debolezza dello Stato
di Giovanni Bianconi


La notizia l’apprese dalla televisione: «Mi trovavo a casa, e un giovane Bruno Vespa annunciò che l’uomo trovato morto nella Renault 4 rossa era Aldo Moro. Una conclusione terribile, che cinquantacinque giorni prima non avemmo la lucidità nemmeno di immaginare». Era il 9 maggio 1978. Cinquantacinque giorni prima, il 16 marzo, Giuliano Amato — oggi giudice costituzionale dopo essere stato più volte ministro e presidente del Consiglio, all’epoca direttore del Dipartimento di studi giuridici della facoltà di Scienze politiche, alla Sapienza — era andato all’università dov’erano in programma gli esami di laurea; di alcune tesi era relatore Aldo Moro, professore di Diritto penale: «Appena arrivarono le prime informazioni, prima di un incidente e poi del rapimento, dicemmo ai suoi studenti che le loro discussioni erano rinviate a quando Moro fosse tornato. Ma non lo vedemmo mai più».
Lei all’epoca militava nel Psi guidato da Bettino Craxi, che da un certo momento tentò la strada della trattativa con i brigatisti, per provare a far tornare Moro a casa. Cosa ricorda di quei giorni?
«Fui interpellato una sola volta da Craxi, insieme a Gino Giugno e Giuliano Vassalli. Ci chiese indicazioni sulla legittimità del negoziato, e io sostenni che per salvare la vita di un proprio cittadino lo Stato può negoziare con chicchessia. Ma lì c’era un ostacolo in più, e cioè la questione del riconoscimento politico che si sarebbe garantito ai terroristi, dando loro una patente di autorità e politicità quasi pari a quella dello Stato. Ricordo quell’incontro a quattro, noi tre e Craxi, ma poi il segretario non ci convocò più, e i tentativi proseguirono con il solo Vassalli».
Lei dunque era favorevole a una trattativa con i brigatisti?
«Allora, da estraneo qual ero alla vicenda, la vivevo pieno di dubbi. Ma ciò che più mi colpì fu il motivo per cui le istituzioni del tempo, rappresentate in particolare dalla Dc e dal Pci, decisero per la fermezza. A me sembrava che a richiederla fosse non la “statualità”, ma la debolezza che essi stessi sentivano nel nostro Stato. Uno Stato forte avrebbe reagito diversamente, trattando anche con il diavolo, salvo andare ad arrestarlo un attimo dopo. Basti guardare quello che ha sempre fatto e continua a fare Israele, anche con una controparte come Hamas, che considera terrorista; non si sente intaccato da uno scambio di prigionieri, se serve a salvare la vita di propri cittadini».
Era quello che cercava di spiegare Moro nelle lettere dalla «prigione del popolo».
«Certo, e non fu ascoltato. Allora c’è da chiedersi perché lo Stato si sentiva così debole. In quei giorni si avvertiva una sensazione di grande inadeguatezza, una situazione nella quale ciascuno si muoveva per conto proprio, con il presidente della Repubblica pronto a concedere la grazia a una brigatista che non si era macchiata di reati di sangue e altri che fecero di tutto per dissuaderlo. Non c’era unità d’intenti».
Tranne che nel ritenere inattendibile e troppo condizionato dai suoi carcerieri il Moro che lanciava appelli dalla prigionia. Lei che cosa pensò di quegli scritti?
«Non ho mai ritenuto che non fossero autentici, e capisco il risentimento della famiglia nei confronti di chi invece sostenne di non poter riconoscere Moro in quelle lettere. Probabilmente era una posizione necessaria a mantenere la linea della fermezza, che per il Pci poteva avere una ragione: forse quei “compagni che sbagliavano” avevano assonanze anche in casa sua, e qualunque interlocuzione con loro poteva ridurre le barriere immunitarie. Ma la Dc non aveva lo stesso problema, e dunque è meno comprensibile. Ripeto: non trattare può essere un’eccezione, non la regola. Del resto abbiamo esempi di trattative condotte per conto dello Stato italiano sia prima che dopo Moro: da Sossi a Cirillo, e con gli stessi terroristi palestinesi».
Quando conobbe Moro?
«Lo conobbi prima da politico che da professore, quando fu presidente del Consiglio nei governi di centrosinistra, dal 1963 al 1968. Io collaboravo col ministro del Bilancio socialista, e c’erano contrasti sulla ripartizione di poteri e competenze con il Tesoro tenuto dai democristiani; ricordo riunioni interminabili nelle quali Moro non imponeva soluzioni ma portava gli altri a discutere e confrontarsi fino a convergere su quella che lui riteneva più congrua. Non era mai una sua decisione, lui si limitava a prendere atto del punto d’incontro e solo allora diceva: “Vedo che abbiamo concluso”. Era come se costringesse gli altri al dialogo per ottenere il risultato voluto».
Fu la sua caratteristica principale?
«Questa lo era senz’altro, ma io penso che Moro debba essere ricordato nei libri di storia sull’Italia unitaria non tanto per i suoi metodi o perché l’hanno ucciso, bensì come uno dei pochi statisti che hanno colto e affrontato il mal sottile dell’Italia unita: la parzialità del consenso sociale che costituisce la base delle nostre istituzioni. Lui capì che era troppo esigua, e che bisognava allargarla per rendere meno fragile lo Stato. Un primo passo era stato compiuto con l’integrazione dei cattolici nelle istituzioni, di cui lui era parte, poi proseguì con l’apertura prima al Psi e poi al Pci, con la cosiddetta terza fase. Non per qualche alchimia politica o per imporre matrimoni innaturali, ma per la sostanziale necessità di integrare i ceti sociali rappresentati da quei partiti. Era un modo, anzi il modo per rafforzare lo Stato debole».
Quello che non ebbe la forza di trattare con i brigatisti?
«Esattamente: lo Stato debole che non è riuscito a salvare Aldo Moro».