giovedì 10 maggio 2018

Corriere 10.5.18
La crisi al buio di oggi è cominciata 40 anni fa
di Paolo Franchi


Non è certo la prima volta. Di «crisi al buio», come le chiamavamo una volta, e di gestazioni lunghe e complicate di maggioranze e governi all’indomani delle elezioni, se ne sono viste tante. Ma alla fine una creaturina è sempre venuta alla luce, magari facendo ricorso, per definirla, all’inesauribile fantasia della nostra barocca cultura politica, istituzionale e persino giornalistica. Varie legislature hanno vissuto vite brevi e grame, nessuna è nata morta. È giusto preoccuparsi, e anche molto, dunque. Ma facendo conto sul fatto che alla fine prevarrà il senso di responsabilità, o qualcosa di simile. Così hanno ragionato e ragionano molti di quelli che con la storia repubblicana hanno maggiore dimestichezza. Anche se le cose andassero effettivamente così, però, la sgradevole sensazione che rifarsi ai precedenti storici e alla tavola delle leggi scritte e non scritte serva a poco resterebbe intatta. Perché non stiamo attraversando solo una difficile crisi politica, ma qualcosa di molto vicino a una crisi istituzionale e di sistema. Che è iniziata molto tempo fa, e della quale si è scritto e dibattuto per decenni, dividendosi tra riformatori più o meno avveduti e conservatori più o meno nobili, senza alcun costrutto.
Nessuno può dire di non averla vista crescere. Nessuno può dire di aver fatto tutta la propria parte per affrontarla.
Sulla sua data di origine, le opinioni divergono. Chi scrive tende, per il poco che vale, a collocarla esattamente quarant’anni fa, nei cinquantacinque giorni del rapimento, della prigionia e infine dell’assassinio di Aldo Moro. E certo non perché l’associazione dei comunisti al governo, o peggio il compromesso storico (in cui Moro non si riconobbe mai) avrebbero rappresentato la panacea dei guasti profondi che già affliggevano la Repubblica. Arriva in questi giorni in libreria un interessante saggio di Giuseppe Vacca, L’Italia contesa, comunisti e democristiani nel lungo dopoguerra, 1943-1978, edito da Marsilio, nelle cui pagine conclusive si sostiene tra l’altro che, se il disegno politico di Moro e di Enrico Berlinguer consisteva in una collaborazione di governo transitoria tra Dc e Pci «alla fine della quale, realizzate le condizioni dell’alternanza, entrambi i partiti avrebbero mantenuto le rispettive identità», allora «non era plausibile». Se al sistema fosse stata impressa una torsione bipolare, con ogni probabilità «Dc e Pci non sarebbero più stati se stessi». Perché il sistema politico italiano non si fondava sulla polarità destra-sinistra, ma «sull’antifascismo, che definiva l’area della legittimazione democratica, e sull’anticomunismo, che definiva invece l’area della legittimazione a governare»: e dunque inevitabilmente sarebbe emersa sulla destra «una figura politica inconfrontabile con l’identità e la storia della Dc, mentre il Pci sarebbe verosimilmente imploso».
Forse Vacca non sarebbe d’accordo, ma potremmo tradurre così. Può essere che le Brigate Rosse lo abbiano assassinato perché lo consideravano il potenziale demiurgo di una crisi che loro, tutto al contrario, intendevano esasperare e rendere esplosiva. Ma Moro è caduto da protagonista di un tentativo di mutamento dall’interno dei paradigmi del sistema probabilmente votato alla sconfitta, perché la prospettiva dell’alternanza era estranea alla costituzione materiale della Prima Repubblica o quanto meno alle sue culture politiche ancora (per poco) dominanti. Che, alla morte del presidente della Dc, entrarono a loro volta in una lenta agonia, destinata a protrarsi oltre la caduta del Muro, fino al combinato disposto tra iniziativa giudiziaria e referendum elettorali che definitivamente la liquidò.
Manca ancora una storia sufficientemente attenta e documentata del quarto di secolo della cosiddetta Seconda Repubblica. A proposito della quale è assai impreciso parlare di morte, come spesso si fa di questi tempi. Per il semplice motivo che non è mai nata, se non nelle forme di un bipolarismo selvatico e rissoso (una specie di parodia della guerra civile), e, fatta salva qualche rara eccezione, dell’autopromozione sul campo, attorno o contro l’homo novus Silvio Berlusconi, delle seconde e delle terze file delle stagioni politiche precedenti. Ricostruire e analizzare questa storia non basta certo a fornire risposte convincenti alla crisi attuale. Ma senza ricostruirla è impossibile comprendere come ci si sia arrivati. «Non so per quale ragione una maledizione divina ci ha colpiti», scrisse lo storico egizio Manetone a proposito dell’invasione degli Hyksos, utilizzata come metafora da Benedetto Croce per raffigurare il fascismo. Sbagliava, don Benedetto. Sbaglieremmo ben più clamorosamente a pensare che sia stata una qualche divinità ostile a tramutare il Parlamento in una sorta di ente inutile, a rendere i partiti, nel migliore dei casi, dei vuoti simulacri, a desertificare i corpi intermedi, e via elencando. Non sono arrivati degli oscuri barbari da contrade ignote, hanno fallito le (presunte) classi dirigenti, e non solo quelle politiche. Per rimettersi in cammino bisognerebbe partire da qui. Il guaio è che di nuove e diverse non se ne intravedono all’orizzonte.


Il Sole 10.5.18
E se fosse finita l’idea stessa di Occidente?
di Adriana Cerretelli


Le date a volte giocano brutti tiri. Quasi certamente per caso, l’America di Trump ha scelto proprio la vigilia del 9 maggio, giorno della Festa dell’Europa e 68mo anniversario della Dichiarazione di Schuman che le diede i natali, per decidere il ritiro degli Stati Uniti dall’accordo nucleare con l’Iran.
E così ha dato, in un colpo solo, uno schiaffo all’Europa che per difendere bontà e valore strategico di quell’accordo ha fatto le barricate e addirittura inviato a Washington i suoi due pesi massimi, il francese Emmanuel Macron e la tedesca Angela Merkel nel vano tentativo di una mediazione in extremis. Ne ha esposto nei fatti e di fronte al mondo intero l’irrilevanza politica insieme all’insostenibile leggerezza della sua esistenza. Ha messo a nudo, infine, la crisi dei rapporti euro-americani, il crollo delle affinità elettive e della coesione transatlantica, in breve la fine dell’Occidente almeno nel formato e nei modi del dopoguerra. Certo anche 15 anni fa, ai tempi della guerra in Iraq, lo strappo tra i due alleati era stato drammatico e gravido di conseguenze.
Questa volta però è diverso, la lacerazione più profonda perché gli equilibri di potenza nel mondo nel frattempo sono cambiati e stanno cambiando: gli Stati Uniti con la dottrina dell’America First ne hanno tratto una possibile lezione, come la Cina di Xi con la sua ambizione di supremazia planetaria.
L’Europa no, apparentemente incapace di agire e reagire, ibernata nel sacrario della sua storia malgrado la sua realtà di oggi provveda quasi quotidianamente a rinnegarlo senza rimpianti.
Ed è questa discrasia crescente tra essere, non essere e comunque voler essere sempre meno a ridurla all’impotenza oggi condannandola al vassallaggio domani.
A 16 mesi dal suo ingresso alla Casa Bianca di tutto si può accusare Donald Trump fuorchè di non aver detto subito e con chiarezza quali fossero le sue intenzioni e programmi. I suoi obiettivi di riequilibrio dell’ordine mondiale eroso anche da un multilateralismo caotico e sgovernato costato agli Stati Uniti un prezzo troppo alto. Insostenibile in termini economici, commerciali, militari e strategici. Di qui l’America First e gli espliciti altolà a Cina e alleati europei, parassitari dentro la Nato ma grandi concorrenti economici fuori.
Forse perché espressione di una società vecchia e abitudinaria, seduta sui propri comodi e rendite di posizione, forse perché priva di leader solidi e lungimiranti, l’Europa non è riuscita a guardare oltre folklore e tweet anche sgangherati della sua nuova presidenza Usa, per cogliere il nuovo spirito dei tempi americani. Ha continuato a considerarla con sufficienza, un fenomeno da baraccone da tenere a bada fidando nel provvidenziale supporto delle istituzioni Usa.
Non ha imparato niente nemmeno dalla Cina di Xi che, nell’occhio di un ciclone ben più violento, bersaglio di una guerra commerciale e strategica ancora più pesante e a più largo raggio, di veri e propri diktat economici, ha reagito e reagisce con il pragmatismo dei forti: minaccia ritorsioni come l’Europa ma intanto media con la Corea del Nord per regalare a Trump un successo diplomatico che poi sarà certamente passato all’incasso su altri tavoli negoziali.
Con la scarsa flessibilità e le divisioni che la contraddistinguono, l’Europa si limita invece a difendere l’intesa con l’Iran, con l’eccezione della Francia di Macron non tenta di mediare per migliorarla. Si gioca Teheran contro Washington ma così rompe i ponti invece di costruirli, in fondo perché è troppo debole politicamente per provarci. Ma la scelta dell’aperto antagonismo con gli Stati Uniti, quando contemporaneamente tenta di scongiurare i dazi Usa su acciaio e alluminio e si guarda bene dall’aumentare al 2% del Pil le spese militari in sede Nato, potrebbe costarle caro.
Trump è un gambler. La sua partita coreana sembra avviata a chiudersi in bellezza. Quella iraniana resta gravida di rischi. Se dovesse sfuggire di mano e finisse per incendiare il Medio Oriente, la prima a pagarne le conseguenze sarebbe l’Europa, già circondata da troppe aree di instabilità ai suoi confini.
Più passa il tempo, più vecchi e nuovi colossi mondiali crescono e più l’Europa a metà si dimostra inadeguata e anche patetica nelle sue velleità di potenza globale. Fino a che sarà popolata da paesi e società arroccati sul mito della nazione-first non riuscirà a fermare il suo lento declino. Ci vorrebbe il coraggio di abbattere davvero quegli steccati, di ricostruire l’Unione sotto le bandiere dell’”Europa first”. Solo così diventerebbe un interlocutore credibile e ascoltato da Trump e dal mondo interno. Purtroppo oggi non è questa l’aria che tira.

Corriere 10.5.18
Memoria
Einaudi pubblica il «Carteggio» del 1923, anno cruciale per l’intellettuale antifascista
Appunti di un giovane editore Piero Gobetti, militante delle idee
di Ernesto Galli della Loggia


Non è necessario sottoscrivere le sue interpretazioni storiche, perlopiù sommarie e spesso paradossali, né condividere le sue proposte e le sue idee politiche ispirate a una visione delle cose quasi sempre lontana dalla realtà: nulla di tutto ciò è necessario per restare stupefatti dalla vita di Piero Gobetti e abbagliati dalla sua personalità. Uno stupore e un fascino che si rinnovano leggendo questo nuovo volume del suo carteggio (Carteggio 1923, Einaudi) anche questo, come il precedente, curato con attenzione e competenza da Ersilia Alessandrone Perona, che da tempo è la massima conoscitrice di cose gobettiane.
Il 1923 fu un anno di svolta nella vita di Gobetti: quello in cui dopo neppure un anno dalla fondazione di «Rivoluzione Liberale», mentre cercava di allargare sempre di più il pubblico della rivista, egli si gettò pure nell’impresa non facile di dare vita a una casa editrice di portata nazionale, la Piero Gobetti editore, il cui motto di copertina — «Che ho io a che fare con gli schiavi?» — fu trovato da Augusto Monti. Casa editrice il cui effettivo decollo fu reso possibile da un prestito di 25 mila lire (restituito) concesso al ventiduenne (ventiduenne!) editore dall’intelligente mecenatismo di Riccardo Gualino.
Il carteggio rispecchia vividamente, giorno per giorno, lo sforzo frenetico di Gobetti per tener dietro a tutti gli aspetti economici e tecnico-amministrativi della nuova impresa, che si cimenterà perfino nel tentativo, destinato a breve durata, di far uscire una rivista teatrale, «Scene e Retroscene»: cercando di stabilire un circuito virtuoso tra la rivista e la casa editrice, sollecitando giornali e giornaletti della Penisola a pubblicare annunci pubblicitari dei suoi libri, a ospitare finte recensioni dei medesimi scritte in realtà da lui stesso. Ma naturalmente il massimo degli sforzi appare volto a trovare autori e collaboratori.
Rifulgono qui, insieme al fiuto culturale e all’intuito imprenditoriale, la stoffa, la curiosità e direi anche la spregiudicatezza intellettuale del giovane editore. Gobetti, così come si rivolge ad Amendola e a Sturzo per ospitarli nel suo catalogo fa lo stesso con Curzio Malaparte, ma soprattutto non tralascia di allacciare rapporti anche con tutta una serie di sconosciuti o semisconosciuti intellettuali e studiosi della sterminata provincia italiana — accogliendone o proponendone la collaborazione. Non di rado — come nel caso di Tommaso Fiore o di Guido Dorso — scoprendo e contribuendo così a lanciare quelle che sarebbero diventate figure di rilievo della vicenda italiana. Le lettere raccolte in questo volume testimoniano per l’appunto in modo speciale di questo instancabile lavoro di organizzazione culturale attenta a tutto e curiosa di tutti, che resta una delle gemme della biografia gobettiana. Di poco meno lucente di quella rappresentata dalla sua tenacia di combattente politico che anche in queste pagine lascia tracce numerose e significative.
A questo proposito ha fatto bene la curatrice a ripubblicare i truci telegrammi con cui in questo 1923 Mussolini presidente del Consiglio ordina al prefetto di Torino di iniziare la persecuzione di Gobetti, disponendone ben due volte il fermo con relative perquisizioni e sequestri. Sono un esempio della vigliaccheria del potere fascista e del duce, personalmente incapace di reggere (innanzitutto psicologicamente prima che politicamente, mi avventuro a dire), la battaglia delle idee e dei valori scatenatagli contro dal giovane torinese forte solo delle proprie convinzioni e del proprio valore di polemista efficace quanto feroce. Ma siamo ancora nei primi mesi del governo mussoliniano e la stima di cui gode Gobetti è tale che le misure contro di lui sollevano un coro di proteste, a cui non manca di unirsi perfino Giovanni Gentile. Avendone in risposta un rispettoso e vagamente ironico ringraziamento in cui Piero lo prega di credere al suo «affetto» pur se dimostrato, aggiunge, «in forme… strane e difficili».
Spiace segnalare, infine, in un’opera così curata, solo una piccola menda: non è vero, contrariamente a quanto scritto a pagina 252, che nel 1931 Arturo Carlo Jemolo facesse parte dei professori che si rifiutarono di giurare fedeltà al regime fascista.

Repubblica 10.5.18
Il maggio ’68 disuguaglianze e insegnamenti
di Thomas Piketty


Dobbiamo gettare al rogo il Maggio ’68? Secondo i suoi detrattori, lo spirito del maggio avrebbe contribuito al trionfo dell’individualismo, per non dire dell’ultraliberismo. Ma sono tesi che non reggono a un’analisi attenta: il movimento del Maggio ’68, al contrario, è stato il calcio d’avvio di un periodo storico di fortissima riduzione delle disuguaglianze sociali in Francia, che in seguito ha perso slancio per ragioni di tutt’altro genere. È una questione importante, perché condiziona il futuro.
Per uscire dalla crisi, nel 1968 il Governo de Gaulle firma gli accordi di Grenelle, che includono un aumento del 20% del salario minimo. Nel 1970 il salario minimo viene ufficialmente indicizzato – parzialmente – al salario medio, e tutti i Governi che si susseguono dal 1968 al 1983 si sentono in dovere di dargli una “spintarella”, in un clima sociale e politico in piena ebollizione. È così che il potere d’acquisto del salario minimo progredisce complessivamente, fra il 1968 e il 1983, di oltre il 130%, mentre il salario medio, nello stesso periodo, avanza solo del 50% circa, determinando una compressione molto accentuata delle disuguaglianze salariali.
La rottura con il periodo precedente è netta e di vasta portata: il potere d’acquisto del salario minimo era progredito di appena il 25% tra il 1950 e il 1968, mentre il salario medio era più che raddoppiato. Trainato dal forte aumento dei salari bassi, il monte salari nel suo insieme nel corso degli anni 1968-1983 avanza molto più in fretta della produzione, determinando un forte calo della quota del capitale sul reddito nazionale. Tutto questo riducendo l’orario di lavoro e allungando le ferie retribuite. La tendenza si inverte di nuovo nel 1982-1983. Per prolungare il movimento di riduzione delle disuguaglianze sarebbe stato necessario inventare altri strumenti: poteri reali per i dipendenti nelle imprese, investimenti su larga scala e uguaglianza nel sistema di istruzione, istituzione di un sistema universale di assicurazione sanitaria e pensioni, sviluppo di un’Europa sociale e fiscale. Invece il Governo utilizza l’Europa come capro espiatorio in occasione della svolta rigorista del 1983, anche se in realtà Bruxelles non aveva avuto nessun ruolo nel blocco dei salari: il salario minimo non può progredire in eterno a un ritmo tre volte più veloce della produzione, sia nel caso di economie aperte sia nel caso di economie chiuse. A partire dal 1988, i Governi francesi contribuiscono fortemente al movimento di dumping fiscale europeo sull’imposta sulle società; poi istituiscono, con il trattato di Maastricht del 1992, un’unione monetaria e commerciale dura e pura. Una moneta senza Stato, senza democrazia e senza sovranità: un modello che ha contribuito alla recessione decennale da cui siamo appena usciti. Oggi la crisi della socialdemocrazia europea è generale. È innanzitutto la conseguenza di un internazionalismo incompiuto. Nel corso del XX secolo, e in particolare dagli anni ’50 agli anni ’80, la creazione di un nuovo compromesso tra capitale e lavoro è stata pensata e realizzata all’interno degli Stati-nazione. Con innegabile successo, e al tempo stesso forti fragilità, perché le politiche nazionali si sono ritrovate prese nella morsa della concorrenza crescente fra Paesi. La soluzione non è voltare le spalle allo spirito del Maggio ’68 e al movimento sociale: al contrario, dobbiamo usarli come leva per sviluppare un nuovo programma internazionalista di riduzione delle disuguaglianze.
Traduzione di Fabio Galimberti

Corriere 10.5.18
Fan ultra-cattolici contro gli U2 «Sono schierati per il sì all’aborto»
di L. Ip.


La campagna elettorale per il referendum sull’aborto del 25 maggio in Irlanda si sta surriscaldando: e coinvolge la rock band più celebre dell’isola di smeraldo, gli U2. Il leader della formazione, Bono Vox, è sceso in campo su Twitter alcuni giorni fa a favore della liberalizzazione dell’interruzione di gravidanza: e si è attirato un diluvio di critiche da parte dei fan più conservatori, che gli hanno rinfacciato in particolare le proclamate radici cristiane della band.
Agli elettori irlandesi verrà chiesto se abrogare il cosiddetto «ottavo emendamento», che iscrive nella costituzione i diritti inviolabili del feto, mettendoli sullo stesso piano di quelli delle madri: una norma che di fatto rende impossibile l’aborto, perché i medici temono di violare la legge anche nei casi più estremi.
La conseguenza della ferrea legislazione irlandese, una delle più restrittive in Europa, è che ogni anno migliaia di donne si recano in Gran Bretagna per interrompere la gravidanza, oppure acquistano illegalmente farmaci abortivi.
I sondaggi fino a questo momento danno in largo vantaggio gli abrogazionisti, anche perché tutti i partiti si sono schierati a favore della liberalizzazione. E nel dibattito la Chiesa cattolica ha tenuto una posizione molto defilata, lasciando che la campagna si svolgesse su linee sostanzialmente secolari.
L’ultima polemica coinvolge Facebook, che ha annunciato il blocco ai finanziamenti dall’estero per le pubblicità referendarie: una mossa giudicata tardiva, che arriva dopo la bufera legata alle interferenze nella campagna presidenziale americana.

Il Fatto 10.5.18
Per Renzi ci vorrebbe Freud, ma forse basta pure Recalcati
L’ultima performance tv dell’ex premier lascia preoccupati per il suo stato psichico
di Daniela Ranieri


Ma lo psicanalista della Leopolda professor Recalcati, neo-conduttore della sua brava trasmissione lacaniana-pop su Rai 3, non può fare proprio niente per Matteo Renzi? Non è una battuta: bastava vederlo l’altra sera a Di Martedì, dove è andato a inaugurare l’ennesima campagna elettorale in qualità di leader che non è di un partito che non c’è più, per essere preoccupati circa il suo equilibrio mentale.
Da cosa o da chi è guidato Renzi? Se davvero fosse mosso dall’amore per il suo Paese (con la maiuscola, non Rignano sull’Arno), avrebbe ormai dovuto rendersi conto che il sentimento non è ricambiato. O quantomeno prendere atto di non essere all’altezza di cambiare alcunché non riguardi lo status suo e della manciata di compaesani che si è portato a Roma a spese dei contribuenti.
Non lo sfiora il sospetto di essere caduto in disgrazia, come dovrebbe suggerirgli il fatto di comparire in seconda serata dopo una intervista a Di Maio lunga quanto un film cecoslovacco, nello spazio di solito riservato alla Fornero. Già nell’anteprima, mentre lo stanno microfonando, ostenta lo stile da guappo. Entra in studio imitando la camminata di Putin (braccio destro fermo, sinistro ondeggiante); frangetta da Augusto di Prima Porta, guanciotte dei periodi stressanti, corruccia la fronte: “Quello di Lega e 5Stelle non mi sembra un atteggiamento serio”, senti chi parla.
Promuove Gentiloni candidato premier (simultaneamente manda la Boschi, s’immagina in qualità di deputata di Bolzano, a lanciarlo, povero conte, a Porta a Porta), per mostrare al popolo che lui dispone dei suoi uomini come un generale in battaglia e soprattutto per mettere Paolo accanto a Di Maio e Salvini e dunque farne semanticamente un politico bruciato dalle trattative a vuoto, come se non fosse lui, invece, il responsabile dell’impotenza dell’onnipotenza del Pd.
Propone di cambiare la legge elettorale che porta il nome di uno dei suoi più fedeli scudieri e poi, incredibile a dirsi, una riforma costituzionale, che adesso chiama “istituzionale” per introdurre una novità (“Con un equivoco con un sinonimo qualche garbuglio si troverà”, come ne Le nozze di Figaro), evidentemente ignaro dell’opinione di 20 milioni di elettori a riguardo. Snobba le riunioni di partito per parlare direttamente al popolo: “Cari italiani, la flat tax non esiste!  Italiani, il reddito di cittadinanza non lo faranno mai!”, urla guardando in camera, e pare che sotto i piedi gli manchi un balcone.
“Se noi avessimo fatto il governo avremmo perso totalmente la faccia”, dice come se ne avesse ancora una. “Hanno fatto una campagna elettorale piena di promesse a vuoto, lo ammetta Floris!”, gigioneggia teatrale, ed è lo stesso che agitava in Tv una falsa scheda per un Senato che con la sua riforma non sarebbe stato più elettivo.
Lancia numeri a protesi dell’ego: “Quando noi abbiamo preso il 41%, Di Maio ci urlava ‘abusivi’. Lui ora ha preso il 32%…”, ma mette insieme cose eterogenee e imparagonabili, elezioni europee con elezioni politiche, e la stessa cosa fa con Macron, presidente di una Repubblica presidenziale “col 23%”. “Noi non prendiamo in giro gli italiani”, ridice, e fa un certo effetto pronunciato da un tizio che ha dato dimissioni post-datate come gli assegni falsi e che dopo aver indossato tutte le maschere oggi, nella bio di Twitter e ovunque gli capiti, usa il titolo di “senatore di Firenze” come se fosse una diminutio di sé dovuta a naturale umiltà e non una funzione da adempiere con disciplina e onore.
Ma Renzi è talmente bugiardo che finisce per dire la verità: non vuole andare al governo né alle elezioni. Nel suo narcisismo anacronistico, confida di poter tornare credibile per contrasto, quando Salvini e Di Maio avranno fallito. Questo alchimista all’incontrario, che ha dimezzato i voti del Pd portandolo al 18%, questo contafrottole (pardon: storyteller) che elargiva 80 euro a categorie a caso usando risorse pubbliche per prendere voti, rivendica una “diversità profonda tra populisti demagoghi e Pd”, e non intende che i primi vincono mentre il secondo perde. Intende proprio che il suo vestigiale partito di furbastri o di nullità senza spina dorsale è in grado di fare l’interesse degli italiani, che si ostinano a non capirlo.
Ci vorrebbe Freud, ma forse anche Recalcati può bastare.

il manifesto 10.5.18
La benedizione del Caimano
di Norma Rangeri


Contrordine. Si va ai tempi supplementari per la formazione di un governo Salvini-Di Maio, se non con la benedizione di Berlusconi, con «l’astensione critica» di Forza Italia all’alleanza tra Lega e M5Stelle.
E si apre la trattativa sulle «garanzie» che i pentastellati dovranno offrire in cambio del passo indietro dell’arcinemico di Arcore.
Queste «garanzie» riguardano naturalmente il conflitto di interessi, quel macigno che proprio Di Maio, quando ormai sembravano chiuse tutte le porte per un accordo di governo, aveva rimesso al centro della scena ( o della sceneggiata) per marcare ancor più duramente la distanza dal condannato eccellente.
Berlusconi farà buon viso a cattivo gioco, pronto a far digerire qualche bocconcino indigesto ai ragazzi di Grillo e Casaleggio. E di sicuro l’elettorato grillino, su questo terreno, non è ancora addomesticato.
Così, nel giro di ventiquattr’ore, dalle elezioni di mezza estate siamo passati al governo politico tra i due «vincitori» del 4 marzo. Formalmente tutto viene presentato come un gesto di generosità di Berlusconi, nella sostanza il panico gettato da Mattarella tra i piedi dei due principali contendenti ha dato i suoi frutti.
Deputati e senatori forzaitalioti piuttosto che andare incontro a sicura decimazione nelle urne, hanno scelto di far ingoiare
a Berlusconi il rospo.
Quale sarà il prezzo lo vedremo presto quando avremo la lista dei ministri, quando si depositeranno
i nuovi assetti di potere.
Se la trattativa alla fine andrà in porto, il paese dovrà prepararsi a un governo di nuovo conio, segnato sicuramente da contraddizioni (a partire da quella trab il Nord e il Sud del Paese),
ma altrettanto fortemente sbilanciato a destra. Una prospettiva tutt’altro che rassicurante.
Eppure c’è chi, come il Pd, per questo esito ha tifato subito, fin dal 5 marzo, quel Pd che dovrebbe essere il partito del centrosinistra, che soltanto ieri prometteva opposizione dura ai nuovi governanti pur avendo fatto un tifo accanito per questo disastroso esito politico.

Repubblica 10.5.18
Il prezzo da pagare ad Arcore
di Stefano Folli


Il Quirinale aveva lasciato aperto uno spiraglio per l’accordo politico, fino a rinviare l’incarico al premier “neutro”. E improvvisamente lo spiraglio è diventato una larga breccia. O almeno così pare.
La prospettiva di elezioni in piena estate ha sconvolto protagonisti e comprimari di questo psicodramma che va in scena dai primi di marzo. Ed ecco che Di Maio e Salvini sono ora a un passo dal realizzare il loro matrimonio politico: quello che non si era fatto in due mesi si sta facendo in poche ore.
Per quanto, va detto, s’intravede un mosaico segnato da non poche contraddizioni e punti da chiarire.
A cominciare dalla politica estera e dalle scelte economiche coerenti con gli impegni europei. In ogni caso è evidente che le pressioni su Berlusconi hanno cambiato il quadro. Hanno convinto l’anziano leader – in base a un preciso calcolo di convenienza politica e personale – a concedere quella sorta di “nulla osta” che consente alla Lega di stringere la trattativa con i Cinque Stelle. In cambio di cosa? Per il momento è venuto meno il “veto” formale del M5S nei suoi confronti: il minimo che Berlusconi poteva chiedere e ottenere. Ma c’è da credere che l’ex presidente del Consiglio non si accontenterà di questo. In fondo il centrodestra si trova nella condizione analoga a quella del Pd quando stava per sedersi al tavolo con Di Maio. Allora, pochi giorni fa, Renzi decise di mettersi di traverso e mandò all’aria un’operazione che probabilmente avrebbe portato a un’intesa fra il centrosinistra e il movimento. Oggi invece Berlusconi ha fatto i suoi conti e ha lasciato andare Salvini. È una mossa che sarebbe stata impensabile ancora poco tempo fa. Ma le alternative per il fondatore di Forza Italia erano tutte peggiori. Adesso almeno può negoziare qualcosa, forse può persino contrastare e rallentare il declino irreversibile di un esperimento politico, il berlusconismo, nato quasi 25 anni fa e oggi in procinto di arrendersi ai tempi nuovi. Intanto è chiaro che alla trattativa Salvini è andato da solo: non quindi nelle vesti di leader del centrodestra, bensì in quelle meno appariscenti di capo della Lega.
Titolare di poco più della metà dei voti e del peso politico esibiti da Di Maio.
Alle spalle non ha un centrodestra compatto, bensì l’astensione acidula dell’alleato maggiore e il rancore di Fratelli d’Italia, esclusi senza tanti complimenti dall’intesa a due. In secondo luogo, il via libera di Forza Italia ha un costo. Non bastano le frasette rispettose di Di Maio invece degli insulti. Berlusconi lascia partire lo strano convoglio M5S-Lega ma non gli darà la fiducia parlamentare. Si limiterà a garantire, appunto, un’astensione cangiante, ora benevola ora critica.
Inoltre i ministeri più importanti e forse la figura stessa del premier – avvolta per ora in un alone di mistero – dovranno ottenere il suo gradimento e in qualche caso essere espressione della sua area, ossia la componente “moderata” del centrodestra. Quella più vicina ai Popolari tedeschi che a Marine Le Pen e Orban. In altri termini, Berlusconi sarà una presenza incombente, almeno nei primi tempi. Per cui oggi Di Maio vince la sua battaglia, pur senza entrare nell’esecutivo, ma ci sono buone probabilità che la sua sia una vittoria di Pirro. Non è detto che i militanti siano entusiasti del prezzo pagato a Berlusconi, quando ne avranno preso visione. E non è detto che non siano proprio i 5S a scottarsi quando si accorgeranno che nella “stanza dei bottoni” non ci sono i bottoni.

Il Fatto 10.5.18
Blindati i conti Ior. Il Vaticano respinge i sequestri italiani
No alle rogatorie - I magistrati chiedono al ministero della Giustizia di sollecitare recuperi di capitali anche in Svizzera, ma nulla si muove
di Valeria Pacelli


Da una parte la Svizzera, dall’altra il Vaticano. In entrambi i casi, alle autorità giudiziarie italiane che chiedono di recuperare denaro conservato sui conti nei loro Stati, è stato risposto picche. E stesso esito ha avuto la richiesta di estradizione di tre persone che si trovano in Svizzera, sulle quali pendono ordinanze di custodia cautelare emesse dal Tribunale di Roma per bancarotta. Il motivo del diniego risiederebbe nell’articolo 7 della Legge Federale svizzera sull’assistenza internazionale penale “con la quale – spiegano dal ministero della Giustizia – la Svizzera ha stabilito di rifiutare l’estradizione dei propri cittadini”. Ma per il Tribunale quei reati sono stati commessi in Italia.
Non è andata diversamente per ciò che riguarda i depositi bancari. Il 26 aprile, il pm Stefano Rocco Fava in qualità di magistrato che ha seguito le indagini, ha scritto una lettera al ministero di via Arenula per riaccendere i fari su due conti svizzeri. Uno sarebbe riferibile a una società non italiana riconducibile all’imprenditore Angelo Capriotti e sul quale ci sarebbero 25 milioni di euro. Denaro oggetto di un sequestro preventivo (non definitivo) che risale a circa tre anni fa. A oggi Capriotti si trova in carcere, ma per altre vicende: è stato arrestato a inizio aprile per impiego di denaro e beni di provenienza illecita. I conti sarebbero bloccati ma “non è avvenuta la materiale consegna poiché – spiegano dal ministero – la Svizzera ha rifiutato il trasferimento dei fondi in assenza di un provvedimento definitivo di confisca”. Stessa cosa per i circa 2,3 milioni che, secondo quanto scrive il pm Fava nella lettera al ministero, sarebbe su un conto riconducibile a Piercarlo Rossi, ex compagno dell’ex giudice del tribunale fallimentare di Roma Chiara Schettini, a febbraio 2016 rinviata a giudizio a Perugia per peculato, falso e corruzione.
In Vaticano la situazione non è differente. La Procura di Roma da tempo tenta di recuperare 1,4 milioni di euro da tre conti allo Ior, la banca della Santa Sede, di Angelo Proietti, l’imprenditore romano noto per aver ristrutturato una casa a Roma messa a disposizione, in passato, dell’ex ministro Giulio Tremonti. Quel denaro è stato “congelato”, ma per il pm Fava deve essere consegnato all’Italia perchè rappresenta “profitto del reato” di bancarotta fraudolenta. Proietti viene condannato, con rito abbreviato, a ottobre 2016 per la bancarotta di due società a 3 anni e tre mesi. Nel frattempo ci sono state due rogatorie (19 maggio 2016 e 26 ottobre del 2017, quest’ultima dopo la confisca).
Il 14 aprile da Oltretevere arriva una risposta, ma è negativa. Scrivono che quei conti erano già sequestrati dalle autorità vaticane. Così “la successione dei fatti evidenzia la riserva a favore della giurisprudenza vaticana che peraltro (…) si accinge a chiedere il rinvio a giudizio del Proietti”. Inoltre, continua la lettera, “l’eventuale esecuzione della richiesta” potrebbe “interferire con il procedimento in corso dinanzi le competenti autorità dello Stato”. In altre parole: i soldi restano sui conti Oltretevere. Tuttavia, è prevista “la possibilità di un riesame della richiesta rogatoriale, all’esito del procedimento avanti all’autorità giudiziaria dello Stato”. Insomma, si vedrà. E l’erario italiano (qualora dovesse prevalere la linea della Procura di Roma) può attendere.

il manifesto 10.5.18
«Basta con la Victatura», Budapest in piazza
Ungheria. In migliaia protestano contro il «sistema» di Viktor Orbán in occasione dell’insediamento del nuovo parlamento
di Massimo Congiu


BUDAPEST Oppositori del governo Orbán hanno manifestato alla vigilia e, ancora più numerosi, nel giorno della seduta inaugurale del parlamento, contro l’autoritarismo del premier. I manifestanti si sono radunati intorno all’edificio dell’Assemblea nazionale dando vita a una nuova vigorosa dimostrazione caratterizzata, tra l’altro, da tensioni con le forze di polizia che a un certo punto sono entrate in azione e hanno allontanato diversi dimostranti.
AUMENTANO, così, le grandi proteste pubbliche svoltesi dopo le elezioni politiche vinte dal partito governativo Fidesz con una maggioranza di due terzi. Le opposizioni fanno notare che si tratta di una vittoria ottenuta in modo iniquo, grazie a una legge elettorale che il governo ha voluto a sua misura. Prima di entrare nell’edificio neogotico che ospita il Parlamento, i deputati socialisti hanno giurato in un parco di attivarsi per il ritorno della democrazia nel paese e il ripristino dello stato di diritto che a loro avviso è stato smantellato dal primo ministro.
SU INVITO DEL PRESIDENTE della repubblica János Áder, i deputati hanno conferito a Viktor Orbán l’incarico di formare il nuovo esecutivo la cui lista è nota da due settimane. Oltre a quello del Fidesz, che ha 133 deputati su 199, ci saranno quattro gruppi parlamentari: Jobbik con 26 deputati, i socialisti alleati con Párbeszéd (dialogo) a quota 20, Dk (Coalizione Democratica con 9), Lmp (liberali verdi) con 8. Ci saranno anche un deputato centrista, un indipendente e un rappresentante della minoranza parlante tedesco.
FUORI DAL PALAZZO i manifestanti, schierati di fronte agli agenti della forza pubblica, gridavano slogan contro il sistema di Viktor Orbán, contro la corruzione di cui accusano il governo e a favore del ripristino della libertà di stampa. «Siamo noi la maggioranza!» è lo slogan principe delle dimostrazioni svoltesi nella capitale ungherese dalla terza vittoria consecutiva delle forze governative. E la dice lunga sul fatto che gli oppositori del premier considerano il risultato elettorale dello scorso 8 aprile frutto di brogli. Magari non si aspettavano di vincere ma almeno di evitare che il Fidesz-Kdnp ottenesse la maggioranza assoluta. E ancora «Orbán vattene!» e «Basta con la dittatura!» o «victatura» come recita un gioco di parole comparso sui cartelli dei manifestanti in questa prima, inquieta fase del dopo-voto.
IL TERZO MANDATO consecutivo assegnato a Orbán è visto da quest’ultimo come una nuova importante possibilità per difendere il paese dai nemici esterni e dai loro agenti attivi in patria. In occasione del discorso pronunciato come di consueto per celebrare la festa nazionale del 15 marzo, il premier aveva promesso tempi duri ai suoi oppositori accusati di tramare contro la nazione. Ed ecco che, nel mese di aprile il settimanale Figyelö, vicino al governo, ha pubblicato una lunga lista di presunti agenti di George Soros. In essa sono stati inseriti i nomi di giornalisti, membri di Ong, avvocati attivi sul fronte dei diritti umani e insegnanti rei, secondo l’esecutivo, di agire al soldo del magnate americano di origine ungherese per fare dell’Ungheria una colonia del capitale globale e dei suoi manipolatori.
Sempre ad aprile la Open Society Foundation (Osf) di Soros ha annunciato la chiusura dei suoi uffici a Budapest. La fondazione, attiva in Ungheria dal 1984, ha deciso di spostarsi a Berlino. Lo ha fatto anche perché consapevole che il primo atto del nuovo parlamento sarebbe stato l’approvazione del pacchetto di legge «Stop Soros» concepito per colpire le Ong accusate dalle autorità di Budapest di prendere soldi dal magnate statunitense e servire interessi stranieri. «Di certo non piangerò» è stato il commento del premier alla notizia riguardante il trasferimento della Osf. A suo avviso Soros, accusato di riempire l’Ungheria e il resto dell’Europa di migranti musulmani, ha investito somme ingenti per appoggiare l’opposizione tramite la sua fondazione.
Per Orbán, che ha puntato la campagna elettorale sull’allarme immigrazione di massa, questo è il problema più urgente e delicato nel Vecchio Continente. Il premier ha ribadito che l’Ungheria si opporrà a tutti i piani dell’Ue e dell’Onu per «incoraggiare» l’immigrazione che a suo giudizio finirà col pregiudicare la sopravvivenza dell’Europa.
L’OPPOSIZIONE politica e gli ambienti progressisti della società civile controbattono accusando Orbán di spingere il paese verso una deriva sempre più antidemocratica e lontana dall’Europa e dai suoi ideali di democrazia e rispetto dello stato di diritto. I manifestanti che tre volte sono scesi in piazza affermando di voler vivere in un’Ungheria «democratica ed europea», promettono di portare avanti la loro protesta e l’impegno di scuotere le coscienze. Vogliono la fine del sistema dirigista creato da Orbán e dai suoi collaboratori che col tempo hanno realizzato un controllo sempre più capillare dei principali settori della vita pubblica. Lo accusano di mentire ai cittadini sulla situazione economica del paese e di dar luogo a una propaganda martellante incentrata sui migranti e sugli agenti di poteri nemici per distogliere l’attenzione pubblica dai problemi interni. Insomma, la piazza promette di restare attiva mostrando di non accettare il verdetto uscito dalle urne poco più di un mese fa e soprattutto con la prospettiva di trascorrere altri quattro anni sotto il governo Orbán.

il manifesto 10.5.18
Dimenticato Vanunu, l’uomo che rivelò il nucleare segreto di Israele
Atomica. Il tecnico nucleare israeliano ha pagato con 18 anni di carcere l'aver denunciato le produzioni militari nella centrale di Dimona e il possesso da parte di Israele dell'arma atomica. Un arsenale su cui la comunità internazionali non ha mai voluto indagare
L'articolo pubblicato nel 1986 dal Sunday Times grazie alle rivelazioni di Vanunu
di Michele Giorgio


GERUSALEMME «Con voi italiani non ci parlo» ci dice sorridendo Mordechai Vanunu ‎incontrandoci per strada a Gerusalemme Est, la zona palestinese, dove l’ex tecnico ‎nucleare israeliano vive dal 2004, da quando è uscito, dopo 18 anni, dal carcere ‎di Shikma. Scherza Vanunu ma fino ad un certo punto. Le condizioni del suo ‎rilascio gli impongono da 14 anni di non dare interviste e neppure di parlare ai ‎giornalisti. Altrimenti tornerà in prigione e i giornalisti stranieri saranno subito ‎espulsi. E dell’Italia Vanunu non può certo avere una buona opinione. Nel 1986 il ‎Mossad lo attirò in una trappola a Roma e da lì lo portò con la forza a Tel Aviv ‎interrompendo le clamorose rivelazioni stava facendo al Sunday Times ‎sull’atomica israeliana. Un rapimento sul quale l’Italia ha indagato molto poco ‎preferendo nascondere sotto il tappeto l’accaduto in nome dei buoni rapporti con ‎Tel Aviv. Roma, come le altre capitali occidentali, non ha mai avuto alcuna ‎intenzione di proteggere l’uomo che ha svelato al mondo le produzioni atomiche ‎militari nella centrale di Dimona e il possesso da parte di Israele di ordigni ‎atomici.
 Il premier israeliano Netanyahu ieri ha ripetuto le sue accuse all’Iran che, ‎afferma, avrebbe l’intenzione di costruire bombe nucleari mettendo a rischio ‎l’esistenza di Israele. E ringrazia Donald Trump che martedì ha sfilato gli Stati ‎Uniti dall’accordo internazionale del 2015 sul nucleare iraniano e imposto pesanti ‎sanzioni a Tehran. Ma a conti fatti l’unico Paese del Medio Oriente a possedere ‎segretamente l’atomica era e resta Israele. Usa, Europa e l’Aiea non hanno mai ‎voluto indagare seriamente sul programma nucleare di Israele che, peraltro, non ha ‎mai firmato il Trattato di non proliferazione e mantiene una posizione di ‎‎”ambiguità nucleare”, non ammette e non smentisce. ‎«La vicenda del possesso da ‎parte di Israele dell’arma atomica è uno degli aspetti più scandalosi della comunità ‎internazionale» spiega al manifesto la giornalista e saggista Stefania Limiti, autrice ‎del libro “Rapito a Roma” (ed. L’Unità, 2006) ‎«i movimenti pacifisti e democratici ‎devono molto a Mordechai Vanunu che nel 1986 ebbe il coraggio di denunciare ‎quanto aveva avuto modo di vedere nella centrale di Dimona. Andò a Londra e ‎denunciò che Israele possedeva un armamento atomico importante. Lo fece per ‎una scelta di impegno civile e di testimonianza». Vanunu ‎«è stato dimenticato», ‎aggiunge Limiti, ‎«è stato abbandonato, ha vissuto terribili anni di isolamento in ‎prigione, e non può lasciare Israele. Nei suoi confronti l’Italia è in debito. La ‎premier Thatcher intimò al Mossad di non rapirlo in Gran Bretagna e gli agenti ‎israeliani misero in atto il sequestro a Roma. L’Italia ha avuto nel tempo una grave ‎responsabilità, quella di abbandonarlo. Vanunu non va dimenticato perchè ha ‎sollevato il velo di menzogna che Israele aveva steso sul possesso di armi ‎nucleari». ‎
 Le rivelazioni di Vanunu sono state decisive, grazie ad esse esperti ‎internazionali hanno potuto calcolare fra 100 e 200 gli ordigni atomici negli ‎arsenali israeliani. Il tecnico lavorò per nove anni a Dimona, costruita ‎ufficialmente per la produzione di energia elettrica ma che il laburista Shimon ‎Peres con l’aiuto del padre della atomica francese Francis Perrin trasformò in un ‎impianto militare. Anni di lavoro in cui Vanunu maturò la decisione di riferire al ‎mondo quanto vedeva ogni giorno. Con una Pentax scattò in segreto 58 foto nel ‎Machon 2, un complesso di sei piani sotterranei della centrale atomica dove ‎venivano prodotti annualmente una quarantina di kg di plutonio. Costretto a ‎dimettersi, con uno zaino pieno di informazioni, Vanunu partì per l’Australia ‎dove si mise in contatto con il Sunday Times. Giunto a Londra nell’agosto del ‎‎1986, si recò al giornale riferendo per due intere settimane i suoi segreti. Il ‎giornale esitò a pubblicare il racconto. Lo fece solo il 5 ottobre, quando si seppe ‎della scomparsa dell’israeliano. Vanunu si rivide in pubblico il 7 ottobre, a ‎Gerusalemme, durante il processo per “alto tradimento”, quando con uno ‎stratagemma – scrivendo sul palmo della mano che mostrò ai fotografi fuori ‎dall’aula – fece sapere di aver raggiunto Roma il 30 settembre con il volo 504 ‎della British Airways e di essere stato rapito.

Corriere 10.5.18
Il reportage i confini della Ue
Le Irlande furiose
Lungo la frontiera tra Eire ed Ulster dove le incertezze della Brexit riaprono ferite dopo 20 anni di pace
di Sergio Romano


Il confine che ancora separa la Repubblica d’Irlanda dalla provincia britannica dell’Ulster è introvabile. Un cartello, sull’autostrada, dà il benvenuto ai viaggiatori che salgono verso Belfast, ma da molti anni, ormai, sono scomparsi gli uffici di polizia e i veicoli militari che presidiavano il passaggio dalle terre prevalentemente cattoliche della Repubblica a quelle prevalentemente protestanti della regione britannica .
Le differenze, naturalmente, sopravvivono. Nel centro di Newry, la prima città a nord del confine, ho contato quattro cuspidi di severi edifici religiosi che appartengono alla Chiesa d’Irlanda, provincia autonoma, secondo la terminologia inglese, della Comunità anglicana. Nella valle del Boyne, dove si combatté nel 1690 una famosa battaglia tra un re protestante (Guglielmo d’Orange) e un re cattolico (Giacomo Stuart), una casa museo celebra con un evidente compiacimento la vittoria del primo.
Negli ultimi vent’anni, tuttavia, gli accordi del Venerdì Santo, firmati il 10 aprile 1998 dal Primo ministro britannico (Tony Blair) e da quello della Repubblica d’Irlanda (Bertie Ahern), hanno fatto miracoli. Hanno costretto due nemici (i cattolici del Sinn Fein e i protestanti del’Ulster Unionist Party) a governare l’Ulster insieme. Hanno garantito a ogni cittadino il diritto di chiedere la nazionalità della Repubblica d’Irlanda e di conservare contemporaneamente, se lo desidera, quella del Regno Unito. Esiste perfino una clausola che prospetta la possibilità di un referendum se una importante percentuale di cittadini dell’Ulster chiedesse l’unificazione delle due Irlande.
Un altro segnale positivo è l’evoluzione del Sinn Fein. Il partito che ebbe per molto tempo un’anima militare e cospirativa (l’Ira, Irish Republican Army) ha oggi una leder, Mary Lou McDonald, che sembra interessata soprattutto ai problemi del progresso civile e della solidarietà sociale. Ma gli odi e i rancori del passato riemergono puntualmente ogniqualvolta le fazioni più radicali dei due campi ricominciano a pescare nel torbido. Questi bisticci hanno inceppato il governo condominiale dei due maggiori protagonisti in almeno cinque occasioni. Quando è accaduto nel 2002, la Gran Bretagna dovette intervenire e assumere nuovamente le responsabilità che aveva ceduto all’Ulster con gli accordi del 1998. Più recentemente, nel 2017, le parti hanno cominciato a litigare, tra l’altro, sull’insegnamento nella regione protestanti del gaelico (una delle due lingue ufficiali della Repubblica d’Irlanda), e sulla gestione degli archivi storici, in cui ciascuna delle parti, suppongo, vorrebbe leggere la propria verità.
Questi screzi diventerebbero ancora più gravi se il confine scomparso riapparisse, dopo Brexit, come frontiera doganale. Un trattato commerciale per lo scambio di merci fra il Regno Unito e la Ue appartiene al novero delle cose realizzabili. Ma non è difficile immaginare che cosa accadrebbe se la Gran Bretagna, uscita ormai dalla Unione Europea, commerciasse con i suoi vecchi partner attraverso la frontiera inesistente delle due Irlande. I prodotti britannici non pagherebbero dazi e, soprattutto, non sarebbero soggetti alle regole commerciali, qualitative e sanitarie, con cui l’Ue tutela il proprio mercato.
Federico Fabbrini, un professore italiano che insegna diritto europeo alla Dublin City University e dirige l’Istituto Brexit, mi ricorda che la soluzione era a portata di mano quando la Gran Bretagna sembrò accettare l’ipotesi di una frontiera doganale lungo i confini esterni dell’Ulster. La provincia inglese dell’isola irlandese sarebbe diventata la porta di ingresso e d’uscita per tutte le merci provenienti dal Regno Unito o dalla Unione l’Europea. Ma in questo modo l’Ulster avrebbe fatto parte dell’area economica europea: una soluzione che, secondo i deputati del Partito unionista alla Camera dei Comuni (sono otto e da essi dipende la sopravvivenza del governo di Theresa May) avrebbe separato l’Ulster dalla Gran Bretagna e ne avrebbe fatto una provincia satellite della Ue.
Per Fabbrini e altri osservatori la soluzione più limpida e trasparente sarebbe l’ingresso della Gran Bretagna nello Spazio economico europeo, una organizzazione creata per ospitare nel mercato unico i Paesi che avevano fatto parte dell’Efta (l’area europea di libero scambio creata dalla Gran Bretagna dopo la fondazione della Comunità economica europea) come, per esempio, la Norvegia. È una soluzione ragionevole, ma gli inglesi osservano che il loro Paese, pur godendo dei vantaggi di un grande mercato, non avrebbe voce in capitolo nella approvazione e supervisione delle norme che ne regolano il funzionamento. È vero: per concorrere al governo della Ue, secondo Bruxelles, occorre farne parte e accettarne le regole. Una tale prospettiva sarebbe particolarmente sgradita per un Paese che, quando era membro aveva chiesto e ottenuto parecchi trattamenti di favore, non soltanto nel caso della politica agricola comune. Se la Gran Bretagna, dopo avere respinto la prospettiva dello Spazio economico europeo, dovesse piegarsi e accettarla, qualcuno potrebbe osservare che vi sono casi in cui, anche nei rapporti fra gli Stati, si applica la legge del taglione.

Il Sole 10.5.18
Tra contratti in essere e mancate esportazioni i rischi per le imprese italiane
Lo strappo Usa sull’Iran costa 30 miliardi all’Italia
di Laura Cavestri


Trump: sanzioni severe - In Europa corsa all’esenzione
Potrebbe costare fino a 30 miliardi di euro, tra contratti in essere e mancato export, la decisione Usa di uscire dall’accordo sul nucleare con l’Iran e reintrodurre l’embargo.
Per l’Italia 30 miliardi di investimenti ed export a rischio
È il valore dei protocolli d’intesa già siglati

MILANO E adesso? Con gli ordini in corso, le commesse avviate, i pagamenti anticipati già ricevuti e i prestiti garantiti?
Il pugno in pieno viso – assestato dagli Usa alle Pmi e alle multinazionali europee – è di quelli che fan male. Peggio, però, potrebbe essere il contraccolpo. Perché, tra protocolli d’investimento sottoscritti dalle grandi imprese italiane – per un potenziale di investimenti, nei prossimi anni, di 27 miliardi – e 2 miliardi di export attesi (l’interscambio complessivo è di 5 miliardi perché noi abbiamo acquistato, l’anno scorso, molto di più, ovvero 3 miliardi di greggio), una chiusura del doppio binario economico tra Italia e Iran rischia di “congelare” 30 miliardi di euro di business.
Ma in ballo c’è molto di più. Gli Usa hanno dato 90-180 giorni di tempo per porre termine ai vecchi contratti in Iran e proibire la stipula di nuovi se si vogliono evitare sanzioni da parte americana. Si chiama “principio di extraterritorialità” delle leggi americane in base al quale gli Usa possono sanzionare le imprese non Usa che fanno affari con Paesi sotto embargo se hanno rapporti con gli Stati Uniti o se usano dollari per le transazioni. In pratica, davanti a un’Europa riottosa a seguirla, l’amministrazione Usa potrebbe decidere di punire, nell’export verso gli Stati Uniti, le aziende europee. Che, quindi, si troverebbero a dover fare una scelta di campo, tra lavorare con Teheran (che, per l’Italia, vale meno di 2 miliardi) o con Washington(che ne vale 40). Al momento, la preoccupazione principale è questa.
«Per un Paese ad alta vocazione di export – ha detto ieri il presidente di Confindustria, Vincenzo Boccia – e con gli accordi che abbiamo fatto in Iran, questa situazione può farci male». Per Emma Marcegaglia, presidente di Eni ma anche di Business Europe (la Confindustria europea), «al momento non è facile quantificare l’impatto economico possibile per le imprese europee. Abbiamo bisogno di chiarezza legale».
«Con l’Iran abbiamo rapporti da più di 10 anni – sottolinea Alessio Tonelli, sales manager della Pietro Fiorentini (300 milioni di fatturato 2017 e circa 2mila addetti) a Teheran dove, in questi giorni, si svolge proprio la fiera Iran Oil Show 2018 nella quale espongono anche 12 aziende italiane –. Forniamo valvole e componenti per impianti e non siamo mai usciti dal mercato. Sulle forniture per progetti più ampi siamo rientrati, invece, l’anno scorso». Che succede ora? «Per 3 mesi – spiega – niente. Nel frattempo contiamo che si tratterà per evitare conseguenze sul business. Noi abbiamo ordini presi a gennaio da evadere in 8-10 mesi. Per ora la produzione va avanti, con pagamenti anticipati a copertura dei costi. Per fortuna, abbiamo un sito produttivo negli Usa, che dovrebbe metterci al riparo da eventuali iniziative statunitensi verso le imprese Ue esportatrici».
«Non abbiamo mai investito seriamente sull’Iran, proprio per l’incertezza politica che aleggiava sul Paese – spiega Daniele Archetti, sales manager oil & gas della bresciana Turboden (80 milioni di fatturato e 250 dipendenti circa) che fa turbogeneratori–. Ci sarebbe un buon potenziale di crescita. Ma abbiamo un 10% di fatturato sul mercato Usa. Soprattutto, la quota di maggioranza dell’azienda è in mano a Mitsubishi. Uno stop potrebbe arrivare da considerazioni della “casa madre”».
«Dal 2015 la componentistica oil&gas italiana in Iran è cresciuta del 33% – ha detto Alberto Caprari, presidente di Anima (l’associazione della meccanica varia) – . Non possiamo subire una scelta forzata, tra esportare negli Stati Uniti o in Iran».
Secondo le previsioni di Sace, al netto delle sanzioni, nel 2018, la crescita attesa del nostro Made in Italy in Iran dovrebbe sfiorare i 2 miliardi di export (+9% sull’anno scorso). In testa la meccanica (dalla componentistica ai macchinari) che doveva raggiungere il miliardo di vendite. Dietro la chimica e gli apparecchi elettrici.
Il colpo più duro, però, è quello alle grandi imprese. Sinora, il rischio politico aveva impedito a Sace di garantire coperture su operazioni oltre i 24 mesi. Cioè i grandi progetti di ampio respiro. A gennaio, con un accordo con due banche iraniane, era intervenuto il ministero dell’Economia, tramite Invitalia Global Investment, ad assicurare linee di credito per 5 miliardi. Si attendeva solo il decreto attuativo. Non arriverà.
A ottobre Ansaldo Energia ha firmato un memorandum d’intesa in Iran per la fase 12 del mega giacimento South Pars, che ha riserve stimate in 14 miliardi di metri cubi di gas. Nello stesso periodo, Maire Tecnimont ha sottoscritto un accordo di consulenza ingegneristica con il complesso petrolchimico Ibn-e Sina di Hamedan in Iran. Ma aveva già firmato un memorandum d’intesa da un miliardo con la compagnia petrolchimica Pgpic. Fs ha già concluso l’accordo da 1,2 miliardi di dollari per la linea ferroviaria Arak-Qom. Ma in ballo c’è anche l’alta velocità Teheran-Qom-Isfahan.
Per non parlare di IranAir, che aveva ordinato 200 aerei commerciali per 38 miliardi di dollari, di cui 100 commissionati ad Airbus e 20 a Atr, di proprietà, oltre che di Airbus, anche di Leonardo. Operazioni che rischiano di saltare per la forte quota di componenti statunitensi.