Corriere 10.5.18
La crisi al buio di oggi è cominciata 40 anni fa
di Paolo Franchi
Non
è certo la prima volta. Di «crisi al buio», come le chiamavamo una
volta, e di gestazioni lunghe e complicate di maggioranze e governi
all’indomani delle elezioni, se ne sono viste tante. Ma alla fine una
creaturina è sempre venuta alla luce, magari facendo ricorso, per
definirla, all’inesauribile fantasia della nostra barocca cultura
politica, istituzionale e persino giornalistica. Varie legislature hanno
vissuto vite brevi e grame, nessuna è nata morta. È giusto
preoccuparsi, e anche molto, dunque. Ma facendo conto sul fatto che alla
fine prevarrà il senso di responsabilità, o qualcosa di simile. Così
hanno ragionato e ragionano molti di quelli che con la storia
repubblicana hanno maggiore dimestichezza. Anche se le cose andassero
effettivamente così, però, la sgradevole sensazione che rifarsi ai
precedenti storici e alla tavola delle leggi scritte e non scritte serva
a poco resterebbe intatta. Perché non stiamo attraversando solo una
difficile crisi politica, ma qualcosa di molto vicino a una crisi
istituzionale e di sistema. Che è iniziata molto tempo fa, e della quale
si è scritto e dibattuto per decenni, dividendosi tra riformatori più o
meno avveduti e conservatori più o meno nobili, senza alcun costrutto.
Nessuno può dire di non averla vista crescere. Nessuno può dire di aver fatto tutta la propria parte per affrontarla.
Sulla
sua data di origine, le opinioni divergono. Chi scrive tende, per il
poco che vale, a collocarla esattamente quarant’anni fa, nei
cinquantacinque giorni del rapimento, della prigionia e infine
dell’assassinio di Aldo Moro. E certo non perché l’associazione dei
comunisti al governo, o peggio il compromesso storico (in cui Moro non
si riconobbe mai) avrebbero rappresentato la panacea dei guasti profondi
che già affliggevano la Repubblica. Arriva in questi giorni in libreria
un interessante saggio di Giuseppe Vacca, L’Italia contesa, comunisti e
democristiani nel lungo dopoguerra, 1943-1978, edito da Marsilio, nelle
cui pagine conclusive si sostiene tra l’altro che, se il disegno
politico di Moro e di Enrico Berlinguer consisteva in una collaborazione
di governo transitoria tra Dc e Pci «alla fine della quale, realizzate
le condizioni dell’alternanza, entrambi i partiti avrebbero mantenuto le
rispettive identità», allora «non era plausibile». Se al sistema fosse
stata impressa una torsione bipolare, con ogni probabilità «Dc e Pci non
sarebbero più stati se stessi». Perché il sistema politico italiano non
si fondava sulla polarità destra-sinistra, ma «sull’antifascismo, che
definiva l’area della legittimazione democratica, e sull’anticomunismo,
che definiva invece l’area della legittimazione a governare»: e dunque
inevitabilmente sarebbe emersa sulla destra «una figura politica
inconfrontabile con l’identità e la storia della Dc, mentre il Pci
sarebbe verosimilmente imploso».
Forse Vacca non sarebbe
d’accordo, ma potremmo tradurre così. Può essere che le Brigate Rosse lo
abbiano assassinato perché lo consideravano il potenziale demiurgo di
una crisi che loro, tutto al contrario, intendevano esasperare e rendere
esplosiva. Ma Moro è caduto da protagonista di un tentativo di
mutamento dall’interno dei paradigmi del sistema probabilmente votato
alla sconfitta, perché la prospettiva dell’alternanza era estranea alla
costituzione materiale della Prima Repubblica o quanto meno alle sue
culture politiche ancora (per poco) dominanti. Che, alla morte del
presidente della Dc, entrarono a loro volta in una lenta agonia,
destinata a protrarsi oltre la caduta del Muro, fino al combinato
disposto tra iniziativa giudiziaria e referendum elettorali che
definitivamente la liquidò.
Manca ancora una storia
sufficientemente attenta e documentata del quarto di secolo della
cosiddetta Seconda Repubblica. A proposito della quale è assai impreciso
parlare di morte, come spesso si fa di questi tempi. Per il semplice
motivo che non è mai nata, se non nelle forme di un bipolarismo
selvatico e rissoso (una specie di parodia della guerra civile), e,
fatta salva qualche rara eccezione, dell’autopromozione sul campo,
attorno o contro l’homo novus Silvio Berlusconi, delle seconde e delle
terze file delle stagioni politiche precedenti. Ricostruire e analizzare
questa storia non basta certo a fornire risposte convincenti alla crisi
attuale. Ma senza ricostruirla è impossibile comprendere come ci si sia
arrivati. «Non so per quale ragione una maledizione divina ci ha
colpiti», scrisse lo storico egizio Manetone a proposito dell’invasione
degli Hyksos, utilizzata come metafora da Benedetto Croce per
raffigurare il fascismo. Sbagliava, don Benedetto. Sbaglieremmo ben più
clamorosamente a pensare che sia stata una qualche divinità ostile a
tramutare il Parlamento in una sorta di ente inutile, a rendere i
partiti, nel migliore dei casi, dei vuoti simulacri, a desertificare i
corpi intermedi, e via elencando. Non sono arrivati degli oscuri barbari
da contrade ignote, hanno fallito le (presunte) classi dirigenti, e non
solo quelle politiche. Per rimettersi in cammino bisognerebbe partire
da qui. Il guaio è che di nuove e diverse non se ne intravedono
all’orizzonte.