Repubblica 8.5.18
La violenza dei Casamonica
Un pezzo di Roma senza stato
di Carlo Bonini
Come
era già successo il 19 agosto del 2015, quando avevano trasformato
Cinecittà in un grottesco set per consegnare ai posteri la dipartita del
boss Vittorio, i Casamonica ricordano al Paese che «hic sunt leones»,
che c’è un quadrante di Roma dove chi comanda sono e restano loro. La
Romanina. Due chilometri quadrati di città, 30 chilometri a Sud-Est di
piazza Montecitorio e piazza del Campidoglio. Dove una domenica di
Pasqua si può lavare l’affronto di non essere stati serviti per primi al
bancone di un bar, prima massacrando una donna disabile a cinghiate
perché «nun s’è fatta i cazzi suoi» e non «è stata muta» di fronte alla
prevaricazione. E quindi finire il lavoro a bottigliate con quel «rumeno
demmerda» del barista che non ha capito come vanno le cose nel
quartiere e quindi è bene che si strozzi nel suo sangue.
E dove,
del resto, ogni giorno dell’anno, da quando esistono i Casamonica — più o
meno mezzo secolo — l’intimidazione violenta, l’estorsione,
l’umiliazione fisica e verbale sono la regola e lo strumento
immediatamente percepibile del comando. Dove lo Stato e le sue
istituzioni sono ridotte a un malinconico e disarmante simulacro. Dove
un clan di origine Sinti di un migliaio di anime incrociate in una
ragnatela di rigida consanguineità tra famiglie (i Casamonica, i Di
Silvio, i Di Guglielmo, i Di Rocco, gli Spada, gli Spinelli) controlla
ogni angolo di strada. E, in una rappresentazione quasi scolastica
dell’anti-Stato, decide l’assegnazione degli alloggi nelle case
popolari, impone divieti di sosta e pedaggi, piuttosto che gli orari di
apertura e chiusura dei locali per evitare che intralcino le piazze di
spaccio, presta a strozzo con tassi del 300 per cento. Mentre, un po’
alla volta, gli si vanno consegnando altri lembi periferici dell’area
metropolitana. I Castelli e Ciampino, piuttosto che la Borghesiana e
Bracciano.
Come facessero ormai parte dell’arredo urbano della
città, né più e né meno delle sue buche o dei suoi cassonetti debordanti
di rifiuti, e fossero specchio della sua trasformazione antropologica, i
Casamonica fanno i Casamonica, viene da dire. Se necessario ingrassando
la loro epica con gli strumenti del reality (per i cultori del genere,
YouTube documenta i loro parchi macchine, le loro feste, il loro look) e
con la consapevolezza di una raggiunta dimensione «mafiosa», nel
significato tecnico del termine, ormai pacificamente documentata nelle
inchieste e nei processi che, ciclicamente, li colpiscono. Perché non
sanno fare altro. Perché il loro mix di violenza predatoria e primitiva
che ne definisce il Dna è direttamente proporzionale al vuoto
dell’indifferenza e della rassegnazione che li circonda.
Accade
infatti che, in una sproporzione di linguaggi e in una ennesima
abdicazione di responsabilità, la sindaca di Roma, Virginia Raggi,
scelga di rispondere allo spettacolo, prima con un post su Facebook («Le
immagini dell’aggressione dei Casamonica nei confronti di una donna e
un barista sono inaccettabili. Le istituzioni non abbassano lo sguardo.
Oggi ho portato la solidarietà di Roma alla moglie del titolare del bar
in cui è avvenuta la vile aggressione. Sentirò il prefetto e il ministro
dell’Interno perché sono convinta che anche loro non vorranno abbassare
lo sguardo. Chi denuncia deve essere sempre tutelato. Noi siamo e
resteremo sempre con i cittadini onesti. #FuoriLaMafiaDa-Roma») e quindi
con una visita al bar dell’aggressione. Come se il recupero di quella
parte di città fosse solo questione di sicurezza e ordine pubblico,
quindi esclusiva faccenda di polizia, carabinieri e procura della
Repubblica. Come se il deserto civico in cui i Casamonica la fanno da
padroni non ponesse un problema politico e civile innanzitutto a lei,
sindaca della città, e al Movimento Cinque Stelle. Non fosse altro
perché alla Romanina, alle ultime consultazioni politiche, il Movimento
ha ottenuto il 32,5 per cento dei consensi. In linea con le comunali del
2016 (quando i voti per Raggi erano arrivati al 36,8 per cento al primo
turno e al 67,7 al ballottaggio).
La storia delle mafie insegna
che non esiste contrasto degno di questo nome, non è data ricostituzione
del tessuto connettivo di una comunità, non c’è emancipazione dalla
paura, dalla sottomissione, se non in un quadro in cui ciascuna
articolazione dello Stato dimostri di esercitare il proprio ruolo e
soprattutto di essere in grado di farlo. Possibilmente senza furbizie
retoriche o improvvise amnesie.
Ma, a Roma, lo spettacolo è stato e
continua a essere un altro. Per avere traccia dell’ultima volta in cui
la sindaca si è occupata di cosa accada alla Romanina, bisogna tornare
indietro al gennaio scorso, nei giorni della campagna elettorale.
Giorgia Meloni aveva postato il video di un maiale grufolante tra i
rifiuti del quartiere. Raggi, con espressione insieme desolata e severa,
l’aveva pubblicamente rimproverata con queste parole: «Mi dispiace che
la campagna elettorale abbia spinto Meloni a rilanciare le immagini di
un maiale in strada. La politica dovrebbe essere altro. Ma tant’è. Lo
dico perché ci tengo a chiarire che questo animale è di proprietà di un
membro della famiglia Casamonica, il quale ha ammesso alla polizia
municipale di averne perduto il controllo nel giorno antecedente ».
Ma
sì. Alla Romanina è possibile perdere il controllo di un maiale,
prendere a cinghiate una disabile, minacciare di morte chi alza la
testa. Vorremo forse pensare che è anche un problema della politica?