Repubblica 6.5.18
Il futuro del Pd
di Giuseppe Provenzano
Caro
direttore, dopo la direzione del Pd in molti si chiedono che futuro
avrà questo partito, se avrà un futuro. Come è possibile che, dopo tutto
quello che è accaduto, sia finita all’unanimità? La situazione appare
grave, ma non seria, non all’altezza della sconfitta, dello stato
dell’Italia, dell’Europa, del mondo. No, non rischiamo di uccidere il Pd
per una comparsa da Fazio. Rischiamo di ucciderlo per mancanza di
passione e comprensione della vita reale, di ucciderlo di ipocrisia. Ma
la chiarezza non può arrivare da una direzione, dai (ri)posizionamenti
interni. A fare chiarezza sarà la politica, serve un congresso.
Un
fatto nuovo però c’è stato. Nella relazione di Martina e nella
discussione s’è incrinato il muro di conformismo. S’è parlato degli
“errori”, e il primo è pensare che a sbagliare, al referendum e alle
elezioni, siano stati gli italiani, dai quali pretendere rivincite: una
tragedia umana, prima che politica. È riaffiorata l’autocritica! La
parola fa sorridere, ma consente a chi si è opposto, in questi anni, con
qualche ragione, di ritrovare un terreno di confronto. Lo psicodramma
“M5S sì/no” è stato l’ennesimo espediente per non affrontare le cause
della sconfitta più grave della sinistra. Ma è stato rivelatore: al di
là della strumentalità della posizione di Renzi, il problema siamo noi.
Se non sai “chi sei”, tutto si riduce al “con chi vai”. Il Pd oggi non
saprebbe cosa fare al governo o all’opposizione. Come si fa a dire “
ripartiamo dal programma del Pd”? È quello che gli italiani hanno
bocciato, assieme a una concezione del potere, a una leadership senza
più fiducia. Peggio della sconfitta è la (mancata) reazione alla
sconfitta. Il renzismo ha siglato il definitivo divorzio tra sinistra e
popolo, ma la crisi è iniziata prima. La disfatta riguarda tutti i
protagonisti della sinistra nella Seconda Repubblica. Dobbiamo
ridiscutere cosa siamo stati. Un europeismo viziato dall’ideologia del “
vincolo esterno”, che ha accettato il “ pilota automatico” nel governo
dell’economia. Lo smantellamento dello Stato, incapace di fare
investimenti e innovazione, e che non è in grado di includere, per cui
l’appello all’accoglienza suona moralistico e prevale la deriva
securitaria. Cosa diciamo sulla democrazia, sui partiti al tempo
dell’algoritmo? Siamo seri, chi ha perso le elezioni non può andare al
governo? No, ma chi ha straperso può comandare nel Pd? Chi ha perso il
referendum, che già rivelava il cataclisma sociale della crisi, può
proporre un’altra riforma istituzionale? Con i populisti con cui non si
può nemmeno parlare? Meglio il Jobs Act della Costituzione? Perché? Per
“fare come Macron”? Il disegno non è serio, ma è grave. Bisogna avere
l’onestà di dirlo: in un congresso, in cui fare chiarezza.
Il Pd
va ricostruito dalle fondamenta. Non basta dire “torniamo allo spirito
originario”. Dopo la crisi, che ha fatto sparire la classe media, la
scommessa è superare la distinzione tra sinistra riformista e radicale.
Serve un congresso vero, non l’ennesima conta tra gruppi dirigenti,
aperto alla sinistra diffusa, ai sei milioni di elettori dispersi (
altro che scissione!), al mondo di fuori che nel sindacato, nei luoghi
di lavoro ( e dei lavoretti), nell’associazionismo, fa cose giuste
spesso malgrado noi, contro di noi. Un congresso che parli della guerra
in Siria e dell’illuminazione per strada, che riscatti il partito
sequestrato dai rancori, che non valorizza nemmeno le sue forze vive: i
giovani, gli amministratori in trincea, minacciati dalle mafie,
impegnati in campagna elettorale a giugno. Forze vive, Repubblica ne ha
interpellate alcune, che non si rassegnano all’irrilevanza della
sinistra politica. Solo chiarendoci potremmo stare insieme e
rispettarci. Se diciamo di essere uniti, sembra una farsa. Più
insopportabile dell’arroganza è l’arroganza dei perdenti. Solo
rimettendo al centro la giustizia sociale combatteremo la rabbia, la
demagogia, la prepotenza nella società. Così torneremo a essere umili
con gli umili, perché lì maturano i frutti del “ furore”, altrimenti poi
la vendemmia la fanno gli altri.