domenica 6 maggio 2018

Repubblica 6.5.18
Perché i diritti umani hanno fallito
di Samuel Moyn

L’autore è professore di Giurisprudenza e Storia all’università di Yale

Il movimento per i diritti umani è in crisi. Dopo decenni di conquiste, molti Paesi sembrano aver fatto passi indietro. Orbán in Ungheria, Duterte nelle Filippine e altri leader populisti esprimono in modo sistematico un disprezzo totale nei confronti dei diritti umani e di chi li difende. Eppure, dai più importanti organi di controllo agli osservatori dell’Onu, il movimento per i diritti umani sembra trarre insegnamenti sbagliati dalle difficoltà.
I sostenitori dei diritti umani hanno intensificato le vecchie strategie e non hanno dato risposte adeguate alle rimostranze delle maggioranze.
«La lezione più importante dell’anno scorso è che, malgrado i venti contrari, una difesa vigorosa dei diritti umani può avere successo», ha sostenuto Kenneth Roth, a capo di Human Rights Watch.
Naturalmente, l’attivismo può smuovere le persone. Se però i predicozzi sugli obblighi morali avessero fatto la differenza, il mondo sarebbe stato in condizioni migliori. Al contrario, chi ha a cuore i diritti umani farebbe bene a considerare cosa spinge così tante persone a votare uomini forti.
In verità, l’espansione delle politiche internazionali a favore dei diritti umani si è accompagnata al fenomeno economico che ha portato all’ascesa del populismo radicale e del nazionalismo. L’attivismo per i diritti umani si è installato in un mondo plutocratico.
Non doveva andare così. Si presumeva che la Dichiarazione universale dei diritti umani — promulgata nel 1948 — avrebbe avuto cura delle tutele sociali. Negli anni Settanta, invece, quando negli Usa e in Europa gli attivisti iniziarono a fare propria la causa dei diritti umani per le vittime di regimi brutali, dimenticarono l’aspetto della cittadinanza sociale.
Questo criterio iniziò a cambiare dopo la Guerra fredda. Anche allora, però, il patrocinio dei diritti umani non portò a riaffermare l’obiettivo dell’equità economica. Perfino quando sempre più attivisti sono arrivati a comprendere che la libertà politica e civile avrebbe stentato a sopravvivere in un sistema economico ingiusto, l’attenzione è stata rivolta alla sola sussistenza. Negli anni Novanta, le politiche a sostegno dei diritti umani e del mercato raggiunsero l’apogeo.
In Europa orientale, gli attivisti per i diritti umani si impegnarono per destituire le vecchie élite, anche quando i beni statali furono svenduti agli oligarchi ed esplose la disuguaglianza. In America Latina, il movimento si impegnò per mettere dietro le sbarre gli ex despoti.
Un programma neoliberale, però, dilagò nel continente insieme alla democrazia, mentre il movimento dei diritti non imparò granché sull’equità distributiva e su quanto potesse essere importante per impedire la disuguaglianza. Adesso il mondo raccoglie i frutti di ciò che la disuguaglianza ha seminato.
Qualche recente segnale di un cambio di direzione c’è stato. La Ford Foundation ha annunciato che si sarebbe concentrata sull’uguaglianza economica. Soros ha osservato che le disuguaglianze contano.
Alcuni hanno sostenuto che il movimento potrebbe cogliere la sfida della disuguaglianza ignorata per tanto tempo.
Il movimento non deve sprecare l’occasione di riconsiderare come sopravvivere. Omettere di appoggiare una politica a più ampio raggio, basata sull’equità, è pericoloso. Per anni c’è stata la tentazione di credere che i diritti umani fossero il primo baluardo contro la barbarie. Un’agenda più ambiziosa dovrebbe offrire valide alternative ai mali della nostra epoca.
Traduzione di Anna Bissanti © 2018 The New York Times