domenica 6 maggio 2018

Corriere La Lettura 6.5.18
Il fallimento dei diritti umani
di Marcello Flores


Da diversi anni i diritti umani sono sotto accusa, principalmente da parte di governi che si sentono troppo vincolati al rispetto di norme e valori che ritengono pongano limiti eccessivi alla propria libertà d’azione, l’unico «diritto» che sentono fondamentale e inalienabile. Da Putin a Erdogan, da Trump a Xi Jinping, da Assad a Netanyahu, basta guardarsi attorno e ci si rende conto di come la cultura dei diritti umani, riconosciuta a parole da tutti, sia disattesa e vilipesa sempre più spesso.
In un articolo apparso il 23 aprile sul «New York Times», lo storico e giurista Samuel Moyn ha sottolineato come i diritti umani siano oggi in crisi, ricordando il disprezzo comune che ne hanno Orbán in Ungheria e Duterte nelle Filippine, ma focalizzando il suo intervento — non a caso intitolato Come è fallito il movimento dei diritti umani — sulle responsabilità di chi avrebbe dovuto promuoverli e difenderli. Il movimento dei diritti umani avrebbe, infatti, «accompagnato» le scelte economiche internazionali che hanno condotto alla crescita dei populismi e nazionalismi, perché — dopo aver raggiunto il massimo prestigio a partire dagli anni Novanta — si sarebbe inevitabilmente intrecciato con quel neoliberismo che imponeva nello stesso periodo il fondamentalismo di mercato, all’origine dei mali attuali.
Moyn ha appena pubblicato un libro (Not Enough. Human Rights in an Unequal World, «Non abbastanza. I diritti umani in un mondo disuguale»), dove con un respiro storico e analitico molto più ampio illustra la critica che ha riassunto nell’articolo del quotidiano. Il punto di partenza è la simultaneità dei due avvenimenti: «Invece di una giustizia globale, a partire dagli anni Settanta trionfò il fondamentalismo del mercato, insieme a una comprensione più cosmopolita e transnazionale dei diritti umani». Quella parentela temporale si rafforzò nel decennio successivo al 1989, quando la cultura dei diritti umani sembrò raggiungere un riconoscimento internazionale condiviso proprio mentre il neoliberismo si consolidava e si imponeva in tutto il mondo.
Moyn si domanda se dietro a questa simultaneità ci fosse anche qualche elemento di corresponsabilità, se il liberismo vincente in Europa orientale e America Latina nel corso della «terza ondata» di democratizzazione, a fine Novecento, fosse legato al prestigio straordinario del movimento per i diritti umani, più interessato alla difesa delle libertà politiche e alla giustizia di transizione (le misure riparative verso le vittime di una dittatura nel passaggio alla democrazia) che non alle trasformazioni sociali ed economiche che il neoliberismo stava imponendo a tutto il mondo.
Moyn ricostruisce come, a partire da fine Settecento, ma soprattutto verso la metà del Novecento, i diritti sociali siano diventati anch’essi parte del più generale progetto sui diritti umani codificato nella Dichiarazione universale del 1948. Si tratta di un lavoro che merita di essere analizzato con intelligenza storica e che illustra bene la battaglia — sia del movimento dei diritti umani che delle istituzioni internazionali create per questo — per ridurre la povertà. L’autore ripercorre così il dibattito pubblico che si svolse a partire dagli anni Novanta sui «bisogni fondamentali», foriero di importanti iniziative e ripensamenti nelle politiche degli aiuti internazionali, ma incapace di tematizzare il problema della disuguaglianza e di farne oggetto di una battaglia che andasse oltre il soddisfacimento dei basic needs.
Questa visione limitata dei diritti sociali, secondo Moyn, aveva la sua radice nello «stesso individualismo morale» che i diritti umani condividevano con le scelte economiche del periodo. Non crede che siano stati i diritti umani a favorire la crescita del neoliberismo, ma osserva che essi avevano costruito uno strumento troppo debole — la richiesta di risorse «sufficienti» a superare la povertà — per contrastare la crescita delle disuguaglianze. Queste ultime, come hanno messo in evidenza gli studi di Branko Milanovic e quelli di Andrea Brandolini e Francesca Carta, sono diminuite, soprattutto a partire dal XXI secolo, tra i diversi Paesi, mentre sono aumentate all’interno dei singoli Stati, soprattutto nelle realtà di cultura anglosassone.
Secondo Moyn la scarsa attenzione ai diritti sociali risale agli anni Settanta, epoca della «rivoluzione dei diritti umani» sorta quasi dal nulla, mentre dalla fine della guerra fredda «la corrente principale del movimento internazionale dei diritti umani ha generalmente considerato una vasta zona di compatibilità tra i propri valori e quelli della globalizzazione». Pur rifiutando di vedere nella cultura dei diritti una «lingua franca morale» che avrebbe indebolito i welfare nazionali e favorito il fondamentalismo di mercato, Moyn sostiene che essa sarebbe stata poco ambiziosa e inefficace di fronte ai successi del neoliberismo, di cui i diritti umani sarebbero diventati, senza volerlo, «compagni senza potere». I diritti umani, in sostanza, avrebbero svolto — sul terreno cruciale dell’ingiustizia e disuguaglianza sociale — un ruolo «palliativo che accetta la permanenza di un male ricorrente senza affrontarlo frontalmente».
Moyn, che ritiene stia tornando d’attualità il dilemma d’inizio Novecento «socialismo o barbarie», individua correttamente, anche se in modi eccessivamente manichei, la crisi in atto, che coinvolge necessariamente anche i diritti umani; ma ritiene sia la mancanza di un più diretto impegno politico globale del movimento dei diritti umani a costituire una delle componenti del problema. Coerente, in questo, con quanto asserito nel suo libro del 2010 The Last Utopia («L’ultima utopia»), e cioè che il vero movimento dei diritti umani sarebbe nato solo negli anni Settanta, come risultato del fallimento delle utopie politiche radicali e rivoluzionarie del decennio precedente. E proponendo, quindi, che torni a costituire una nuova «utopia politica» capace di fronteggiare i malesseri del presente.
Il movimento dei diritti umani, che conobbe negli anni Settanta e successivi uno sviluppo e una diffusione senza precedenti, ha in realtà una storia più articolata e contraddittoria. Più articolata perché parziale, e cioè finalizzata spesso a un settore soltanto dei diritti umani (libertà civili e politiche, conflitti armati e disastri naturali, salute ed educazione, ambiente e bioetica), in cui una battaglia lunga ha portato a risultati sorprendenti, che non possono mai essere dati per definitivi. Più contraddittoria perché la natura stessa delle due grandi famiglie di diritti (quelli civili e politici e quelli economici e sociali, che i giuristi hanno chiamato di prima e seconda generazione, oppure diritti negativi e diritti positivi) non permette una battaglia univoca e intrecciata, che spesso sono solo le forze politiche a poter svolgere assumendo in toto nel proprio programma la cultura dei diritti umani.
L’inserimento dei diritti sociali in molte Costituzioni ha mostrato quanto possa essere difficile concretizzare la loro realizzazione, proprio per mancanza di un referente politico in grado di volerlo e poterlo fare. Che sia tempo di ripensare ai diritti umani in questa nuova fase storica è inevitabile. Ma senza incolpare coloro che più continuano a darsi da fare per limitare i danni collettivi ai diritti che la politica internazionale oggi sembra incoraggiare.