domenica 6 maggio 2018

Repubblica 6.5.18
Le 4 malattie della politica
No, non ci serve un governo.
Ci serve uno psichiatra.
E anche bravo, uno strizzacervelli per chi non ha cervello
di Michele Ainis


No, non ci serve un governo.
Ci serve uno psichiatra.
E anche bravo, uno strizzacervelli per chi non ha cervello. Difatti la crisi di governo, quel ramo al quale siamo ormai impiccati da due mesi, deriva da un’allucinazione, da una falsa percezione delle cose. Anzi: le allucinazioni sono quattro, come le malattie mentali di cui soffrono i politici italiani.
Primo: la sindrome del vincitore. Malattia contagiosa, dato che in questo caso i vincitori sono almeno due. Salvini, a capo della coalizione più votata; Di Maio, a capo del partito più votato. Insomma, il campionato delle ultime elezioni ha assegnato due scudetti. Dopo di che, se vinci lo scudetto, pretendi il trofeo di palazzo Chigi. Pretesa ovvia, come no.
Ma per soddisfarla ci vorrebbe un consolato, sulla falsariga dell’antica Roma. Nella Roma moderna (vabbè, le buche sulle strade consolari hanno un che d’antico) invece non si può. Però stavolta la colpa non ricade su Virginia Raggi, bensì su Ettore Rosato, meglio noto come Rosatellum. Perché ha scritto una legge elettorale con il torcicollum: proporzionale (prima Repubblica), coalizioni (seconda Repubblica). Senza l’impianto proporzionale della legge, Salvini avrebbe già indossato una casacca da presidente del Consiglio. Senza vincolo di coalizione (eredità del maggioritario), quel trofeo sarebbe stato conquistato da Di Maio, magari in alleanza con Salvini, libero da ogni vincolo verso Berlusconi. Invece ci troviamo con due mezzi vincitori e un Paese dimezzato.
Secondo: la sindrome del perdente. Che non è +Europa (e meno Italia, a giudicare dai risultati elettorali), né Liberi e uguali (liberi forse sì, uguali agli altri partiti è un azzardo matematico). No, il perdente per antonomasia si chiama Pd. Che ha fatto della sconfitta una bandiera, dal momento che i suoi leader (plurale maiestatis) intonano un solo ritornello: «Abbiamo perso, dunque non ci resta che l’opposizione». Sillogismo illogico, e per almeno due ragioni. Uno: si sta all’opposizione rispetto a un governo, ma se il governo non c’è ancora, a chi s’oppone l’opponente? Due: dichiarare la sconfitta (o la vittoria) ha senso con un maggioritario, non con un proporzionale, qual è in sostanza il Rosatellum. In un sistema così non vince nessuno, perché la maggioranza assoluta diventa una chimera; non la raggiunse mai neppure la Dc, il cui miglior risultato fu il 48,5% dei consensi alle politiche del 1948. Insomma, con il proporzionale vai meglio o peggio rispetto all’elezione precedente, ma poi il governo è un’altra cosa. Nel 1972 il Movimento sociale raddoppiò i propri voti, restando fuori da palazzo Chigi; il Partito liberale, al contrario, ne perse la metà, tuttavia entrò nel nuovo esecutivo, dopo un’assenza durata 15 anni.
Terzo: la sindrome dell’appestato. «Vengo anch’io. No, tu no», cantava Enzo Jannacci nel 1968. Mezzo secolo più tardi, questa canzonetta è tornata di moda. Tu no, dicono i 5 Stelle a Berlusconi. Tu no, dice Salvini al Pd. Tu no, dice il Pd a se stesso. Un torneo a eliminazione, quando la democrazia parlamentare presupporrebbe l’inclusione. Però c’è forse un’esigenza sotto questa intransigenza. Magari c’è il bisogno di ritagliarsi un’identità per sottrazione, per opposizione. Perché i nostri partiti hanno fisionomie deboli, sfocate. E perché dopotutto la politica — diceva Carl Schmitt — si nutre della distinzione fra amico e nemico. Se la ragione è questa, urge cambiare qualche denominazione. Il nuovo nome della Lega, che s’oppone al Pd? “Partito antidemocratico”. E i 5 Stelle, contro Forza Italia? “Abbasso Italia”.
Quarto: la sindrome del ragioniere. Che alle nostre latitudini sragiona sempre sul medesimo argomento: la legge elettorale. Una nevrosi antica quanto lo Stato italiano, come mostra l’altalena dei congegni brevettati e cestinati. Esordimmo, durante la metà dell’Ottocento, con un maggioritario a doppio turno. Sostituito nel 1882 da un proporzionale, poi nel 1891 di nuovo dal maggioritario, poi nel 1919 di nuovo dal proporzionale. Fino alla legge fascistissima del 1923 (supermaggioritaria) e a quella democraticissima del 1946 (superproporzionale). Dopo di che abbiamo via via sperimentato altre sei leggi elettorali (nel 1948, 1953, 1993, 2005, 2016, 2017) e altrettanti referendum sulla materia (nel 1991, 1993, 1995, 1999, 2000, 2009). Insomma, una tira l’altra, come le ciliegie. Ogni legge sbagliata rende necessario lo sbaglio successivo. E infatti adesso c’è bisogno di un’altra ciliegina, per rimediare ai guai del Rosatellum. Evviva.