Repubblica 4.5.18
La direzione del Pd
Il partito immobile
di Piero Ignazi
Un’altra
occasione persa per fare chiarezza fino in fondo. Dopo il fuoco di
sbarramento innalzato dai renziani, arrivati in direzione in falange
compatta a sostenere il segretario dimissionario- effettivo, il Pd ha
evitato ancora una volta di affrontare l’unico problema che meriti un
incontro tra dirigenti politici: perché il Pd perde voti continuamente? E
quali sono le responsabilità della sua leadership in senso largo, cioè
della classe dirigente che ha condiviso tutte le scelte, suicide,
adottate fin qui? Un po’ di critiche serrate finalmente si sono sentite
in direzione, ma è mancato l’affondo. Nessuno ha avuto il coraggio di
indicare punto per punto, e anche persona per persona, le responsabilità
dello stato comatoso in cui si trova il partito, e di metterle nero su
bianco. Ancora una volta troppo garbo e troppo fair play da parte dei
“non-renziani”; troppo timore di spaccature e divisioni; troppa
nostalgia per un modo di fare politica che la maggioranza non ha mai
conosciuto né praticato.
Ancora una volta ha funzionato la
trappola del richiamo all’unità, mentre non è di questo che ha bisogno
un partito in crisi. Di fronte all’emorragia di voti, e ancor peggio
all’irrilevanza politica sancita dall’inerzia post- 4 marzo, ritmata sul
refrain ossessivo del “ siamo all’opposizione”, come fosse un
gruppuscolo gauchista sessantottardo in attesa della rivoluzione, un
partito deve voltare pagina. A maggior ragione se questo partito ha
governato praticamente da solo per quasi tutta la legislatura, compresi i
mille giorni renziani. Si può comprendere l’umano riflesso di difendere
il proprio operato. Ma se i cittadini non ne riconoscono la validità,
una ragione dovrà pur esserci. Se la risposta è che gli elettori non
hanno capito, allora siamo in pieno delirio brechtiano, del tipo
“cambiamo il popolo”.
La direzione del Pd avrebbe dovuto mettere
in chiaro che una stagione è finita; che la narrazione renziana che
tanto e tanti illuse, si è persa per strada attorcigliandosi intorno a
frasi fatte, e finendo per consumarsi in una logorrea solipsistica.
Il
Partito democratico è rimasto immobile, ibernato per due mesi ripetendo
che toccava ai “vincitori” governare quando chiunque vedeva che non
c’erano soluzioni possibili alle viste, men che meno quello di un
accordo con il M5S. Ma al tavolo con i grillini doveva andare, sia per
correttezza istituzionale, sia per uscire dall’inazione: almeno il Pd
avrebbe potuto mettere alle corde gli interlocutori smontando le loro
promesse impossibili. Invece nulla. Di questo nulla avrebbe dovuto farsi
carico la direzione del Pd, chiedendosi come mai un’intervista del
segretario dimissionario-effettivo ha mandato all’aria l’incontro con i
Cinque Stelle. Invece ha preferito la solita, falsa unanimità. Falsa
perché il Pd continua a essere una corte fiorentina, e il genius loci
imporrà ancora strappi come quello dell’intervista di Renzi.
Eppure
sarebbe ora che dalle parti del Nazareno ci si rendesse conto che il
sistema partitico italiano è cambiato e che non c’è più un centro-destra
contro un centro- sinistra: c’è un sempiterno, aggressivo e pericoloso
centro-destra a cui si contrappone un movimento indeterminato come il
M5S, ondeggiante tra l’ecologismo libertario attratto dall’innovazione
tecnologica della new e green economy, e il ribellismo antipolitico,
rancoroso e proto- assistenzialista; mentre il Pd è diventato una forza
residuale, impossibilitato — e per molto tempo — ad esercitare egemonia
sullo schieramento contrapposto alla destra. È per questo motivo che il
Pd avrebbe dovuto definire subito, con un vero rinnovamento interno,
lasciando spazio alle nuove voci critiche e riflessive che si sono
affacciate in questi giorni, una strategia per riconquistare centralità,
in un confronto- scontro con chi gli ha sottratto gli elettori, e cioè
con il M5S.