Repubblica 4.5.18
Il bicentenario
Quando andò in visita in 
Cina, l’allora segretario del Pci portò con sé le opere giovanili del 
filosofo di Treviri.. Gli servivano per capire e respingere le forme di 
totalitarismo lì imperanti
Il Marx campione di libertà sul comodino di Berlinguer
di Siegmund Ginzberg
Arroganza
 e rissosità, malattie antiche della sinistra, mi viene da pensare 
mentre vedo al cinema il Giovane Karl Marx di Raoul Peck. Malattie forse
 congenite, non solo infantili o senili. Marx ed Engels che polemizzano 
con gli altri “giovani hegeliani”, poi con gli altri paladini del popolo
 e gli altri rivoluzionari. Che sono convinti di avere ragione loro e 
che abbiano torto gli altri. C’è un ritorno di Marx. E non solo al 
cinema. Sono mesi che al Bridge di Londra replicano con tutto esaurito 
una pièce teatrale sulla difficile vita nella città dove scrisse il 
Capitale.
È il duecentesimo dalla nascita, sono 170 anni dal 
Manifesto. Anche il Financial Times è tornato sull’argomento con un 
saggio impegnativo: Cosa scriverebbe Marx oggi?. Di ricchi e poveri, 
cioè di diseguaglianza, anziché di borghesi e proletari, di riforme e 
regolamentazione anziché di abolizione della proprietà privata: questo 
il parere degli autori, accademici di Oxford e Berkeley.
Sarebbero persino convincenti, se non esagerassero a dirsi “certi” della loro interpretazione.
Ci
 si poteva aspettare un rischio di indigestione da ricorrenza. E invece,
 a sorpresa, da due mesi il film di Peck regge, almeno in qualche sala 
italiana: un record per un film di questo genere. Ben fatto, ma 
difficile da seguire.
Filologicamente corretto, ben documentato, 
belle immagini, ricostruzioni attente, fin della forfora sugli abiti. 
Fantastici i personaggi femminili, Jenny Von Westphalen, «nata 
baronessa» come precisava il biglietto da visita in caratteri dorati che
 lei e Marx avrebbero fatto stampare a Londra, interpretata da Vicky 
Krieps, e Mary Burns, l’operaia che convisse con Engels, interpretata da
 Hannah Steele. Non guasta che sia romanzato. Sono personaggi che si 
prestano al romanzo.
Leggevano e amavano i romanzi.
Mi 
convince meno che vengano rappresentati come “sessantottini” (del 
Novecento) più che “quarantottini” (dell’Ottocento). Si vede che c’è un 
gran lavoro dietro. Eppure: quanti riescono a seguire le vicende e le 
controversie che scorrono sullo schermo? Ruge, Blanqui, Weitling, 
Proudhon, Bakunin… ma chi erano costoro? È già tanto che i più giovani 
tra gli spettatori abbiano un’idea di chi sia Marx.
Figurarsi se 
si può pretendere che colgano con chi e su che cosa litigava. Fatichiamo
 a comprendere risse e ripicche dei giorni nostri.
Eppure c’è qualcosa di familiare nella brillante sicurezza con cui il giovanissimo Marx espone e difende le sue posizioni.
L’interpretazione
 di August Diehl rende benissimo il brio, l’umanità, la simpatia, e al 
tempo stesso la quasi insopportabile arroganza di quel nipote di rabbini
 che è sicuro di essere nel giusto e non ha tempo da perdere con le 
ragioni degli altri. Solo che Marx quell’arroganza se la poteva 
permettere. Anche quando sbagliava. Aveva studiato, aveva fatto i suoi 
compiti. L’arroganza di altri è invece ridicola.
C’è chi è 
infastidito che si riparli di Marx. È comprensibile. Gran parte del 
secolo scorso è stato segnato da un esperimento fallito, il cosiddetto 
“socialismo reale”.
L’avevano pietrificato, ridotto a monumento 
senz’anima. Si erano ricostituiti gli antichi imperi dispotici, con 
nuovi zar, sultani e imperatori. La chiamavano “dittatura del 
proletariato”. Ma Marx con questa espressione intendeva cose come il 
suffragio universale, la sovranità popolare, il governo della larga 
maggioranza. In realtà il giovane Marx fu una delle vittime di quei 
sistemi. I Manoscritti economici- filosofici del 1844 consistono in 13 
quaderni e un taccuino, compilati a Parigi in appena tre mesi. 
Contengono idee e note di lettura alla rinfusa, che per la 
frammentarietà — e allo stesso tempo profondità — ricordano un po’ i 
Quaderni dal carcere di Gramsci. In entrambi i casi si tratta di 
riflessioni seguite a una grave sconfitta politica. Quelli di Marx 
furono scoperti solo negli anni ’30 del Novecento. Colui che li scoprì, 
il bolscevico di origine ebraica David Goldendakh — più noto come David 
Rjazanov — fu poi fatto fucilare da Stalin.
Sono testi difficili. 
Che grondano però di idee forti che fanno a pugni con la percezione che 
ci è rimasta del comunismo: umanità, libertà, rispetto della natura e 
del prossimo, dignità dei produttori «in quanto esseri umani», lavoro 
concepito come «libera manifestazione della vita, quindi godimento della
 vita». Questo “Marx giovane” è stato talvolta contrapposto al Marx 
rivoluzionario del Manifesto, oppure a quello maturo del
Capitale.
 E si continua a fargli dire tutto e il contrario di tutto, a tirarlo da
 una parte, e, con altrettanta violenza, dall’altra.
Ero 
corrispondente a Pechino quando nell’estate del 1983 venne in visita 
Enrico Berlinguer, con la famiglia. Sarebbe stata la sua ultima vacanza.
 Andai a trovarlo alla residenza degli ospiti di riguardo dove lo 
alloggiavano.
Sbirciai curioso nella stanza dove dormivano lui e 
sua moglie Letizia. Sul suo comodino c’era una copia delle Opere 
filosofiche giovanili nella vecchia traduzione di Galvano della Volpe 
(Non vedo l’ora che esca in luglio, da Feltrinelli, la traduzione di 
Enrico Donaggio e Peter Kammerer). Mi sono chiesto spesso cosa l’avesse 
spinto a portarsi in viaggio una lettura così impegnativa, anziché un 
romanzo.
Ho una sola certezza: che era interessato al Marx 
campione di tutte le libertà, tranne la libertà di sfruttare altri 
uomini. Gli serviva anche per respingere il tipo di marxismo imposto dai
 comunismi totalitari.
 
