il manifesto 4.5.18
La feconda storia di un lessico critico
Tra
passato e presente. Un'anticipazione dal libro «Il sogno di una cosa.
Per Marx», che esce con DeriveApprodi e viene presentato sabato al
festival di Bologna, organizzato dalla casa editrice
di Alberto Burgio
Nello
schema che Marx consegna alla «Prefazione» a Per la critica
dell’economia politica riflettendo sulla vicenda delle rivoluzioni
borghesi, un processo di transizione da una «formazione
economico-sociale» a un’altra si verifica in quanto nel quadro dei
processi riproduttivi di una data «formazione sociale» hanno luogo
dinamiche conflittuali dirompenti: tali da provocarne – in capo a uno
svolgimento di lungo periodo – lo scardinamento e la sostituzione da
parte di una «formazione economico-sociale» basata su un diverso «modo
di produzione». (…) Questa pagina della «Prefazione» del ’59,
oggettivamente centrale nell’architettura complessiva della teoria
marxiana, ha sempre attratto attenzione e suscitato riserve.
UNA
POLEMICA RICORRENTE, e a prima vista consistente, concerne la
(apparente) «centralità del terreno economico», che Marx sembrerebbe
considerare in ogni epoca determinante. Come se l’assunto-base della
filosofia storico-materialistica (la «costante» funzione fondativa
attribuita all’«attività produttiva» nei confronti dell’«organizzazione
sociale» e della sfera politico-istituzionale) disperdesse la
consapevolezza storica dell’essenziale diversità delle logiche
riproduttive proprie delle singole «formazioni sociali». (…)
Hannah
Arendt, la studiosa delle rivoluzioni e della «condizione umana»,
sostiene per esempio che, prendendo «a prestito» da Hegel «l’idea
secondo cui ogni vecchia società contiene i semi delle successive», Marx
affermi la «sempiterna continuità del progresso nella storia». Lo
stesso Debord, per solito concorde senza riserve con la posizione
marxiana, ritiene che lo sforzo di legittimare l’aspirazione
rivoluzionaria della classe operaia evocando rivoluzioni già avvenute (a
cominciare da quelle borghesi) «offuschi, dai tempi del Manifesto, il
pensiero storico di Marx, facendogli sostenere un’immagine lineare dello
sviluppo dei modi di produzione» (…).
UN’ALTRA CRITICA, connessa
con questa, prende di mira le implicazioni del suo (presunto)
economicismo. La stessa Arendt rivolge a Marx proprio questa critica.
Convinta della superiorità dell’agire politico (l’unico a suo giudizio
degno dell’essere umano), vede nell’analisi marxiana una manifestazione
della patologia della modernità consistente nell’esaltazione della
dimensione produttiva del lavoro umano e nella conseguente tragica
illusione demiurgica che la prosperità materiale e lo sviluppo tecnico
siano garanzie di progresso. (…)
Questa critica costituisce in una
qualche misura un corollario integrativo della prima in quanto
esplicita il presupposto del naturalismo imputato a Marx. Il quale
paradossalmente assolutizzerebbe la realtà borghese perché «travolto»,
al pari di altri grandi interpreti della modernizzazione (Locke e Adam
Smith), «dalla produttività senza precedenti del mondo occidentale». (…)
SI
TRATTA DI ARGOMENTAZIONI a prima vista fondate. (…) È tuttavia
inverosimile che proprio Marx abbia potuto «perdere di vista» quella
specificità della borghesia e del capitalismo che, prima di chiunque
altro, ha colto e analizzato. (…) Bisogna quindi cercare di capire come e
perché la precisa percezione della cesura storica prodotta dalla
dominanza del rapporto sociale capitalistico non impedisca a Marx di
«assumere come fondamento di tutta la storia» – così l’Ideologia tedesca
– l’ambito delle relazioni connesse alla «produzione materiale della
vita immediata». Forse una spiegazione di questa apparente inconseguenza
c’è, meno complicata di quanto si possa immaginare.
MARX PENSA
che in ogni epoca storica lo svolgimento delle attività attraverso cui
le società umane si riproducono generi effetti decisivi ai fini della
costruzione (e della specifica configurazione) della forma sociale
complessiva (…). Al tempo stesso, segnala che la borghesia è l’unica
classe sociale che dell’attività produttiva fa (con crescente
consapevolezza) il cuore della propria identità, della propria cultura,
del proprio mondo, della propria azione storica. A ben guardare, non vi è
contraddizione tra le due tesi, poiché la prima concerne un aspetto
oggettivo (la logica generale dello sviluppo storico in relazione alla
quale il momento economico marca quella che Lukács definisce una
«priorità ontologica»); la seconda, aspetti soggettivi (gli stili di
vita e la mentalità specifici della borghesia). Se la centralità del
produrre è «oggettivamente» una costante dell’intero processo (un
fattore «trans-storico» invariante), essa compie un salto di qualità
nella modernità in quanto nella «formazione economico-sociale» borghese
(capitalistica) l’insieme delle attività produttive diviene «anche
soggettivamente» l’epicentro della vita individuale e collettiva, la
principale fonte di senso e di valore dell’esistenza.
Quel che
conta – se questa interpretazione è corretta – è cogliere l’intuizione
sottesa a questa posizione. Con ogni probabilità Marx intende sostenere
che la borghesia sia il primo soggetto sociale la cui cultura materiale e
il cui mondo simbolico e valoriale coincidono con la logica oggettiva
dello sviluppo storico. Mentre faraoni, imperatori e sovrani competevano
per la potenza militare e per l’onore, dal XV secolo e con crescente
coerenza ed efficacia mercanti e banchieri, maestri d’arte e capitani
d’industria competono invece per il profitto e per l’espansione dei
propri imperi economici, col vantaggio non trascurabile di consacrare
ogni sforzo all’attività «in ultima istanza» determinante ai fini della
dinamica sociale. Non è improbabile che tale sintonia tra fattori
soggettivi e oggettivi abbia contribuito in misura rilevante alla
particolare duttilità e resistenza del potere borghese: al suo dinamismo
e alla sua capacità di adattamento.
RIMANE DA SPIEGARE perché mai
Marx privilegi il terreno delle attività produttive, al punto di
ritenerle in ogni epoca decisive ai fini della configurazione delle
forme di vita sociali. (…) Che Marx ponga il «produrre» al centro della
dinamica storica è innegabile. Che ciò consegua alla sopravvalutazione
della dimensione economica sembrerebbe altrettanto evidente. (…)
Nondimeno, l’accusa di economicismo in generale e le argomentazioni
arendtiane in particolare trascurano un aspetto cruciale del problema e
affrontano quest’ultimo sulla base di una petizione di principio.
Come
abbiamo visto, nel riflettere sulla logica del processo storico Marx
parla di «attività produttiva», non soltanto di economia. Parla di
lavoro, non certo esclusivamente di merci e scambi mercantili. Ciò non
deve sembrare casuale né banale, poiché questa scelta lessicale riflette
un aspetto teorico di primaria importanza. Essa è indice del fatto che
l’ipotesi storico-materialistica pone al centro – rovesciando, a guardar
bene, la prospettiva economicistica – la complessità e la ricchezza
specifiche (benché di norma soltanto potenziali) del produrre umano:
precisamente il suo (virtuale) eccedere l’ambito ristretto (economico)
dell’elaborazione materiale dei mezzi di sussistenza e degli strumenti
utili a garantire il dominio dell’uomo sulla natura.
Per Marx –
qui più che mai attento alla lezione hegeliana – la «produzione» è anche
costruzione di conoscenze e abilità, di pensieri e strategie pratiche. È
di certo anche «necessità» imposta dalla natura, dalla dinamica di
riproduzione della vita; ma è altresì elaborazione di soggettività nei
diversi ambiti in cui gli esseri umani hanno modo di esprimersi, agire e
interagire. Quindi anche produzione di rapporti sociali. (…)
ASSISTIAMO
COSÌ, come accade quando non si intende la cifra critica di
un’argomentazione, a un interessante paradosso. L’estensione e
valorizzazione della categoria di «produzione» e la sua collocazione al
centro della dinamica storica sono, nella prospettiva di Marx, mosse
critiche decisive. Volte a fare emergere, in generale, la brutale
mortificazione imposta al lavoro umano nel corso dell’intero sviluppo
storico e, in particolare, la reificazione del lavoro subordinato nella
società moderna. Non comprendere il senso di questo gesto comporta una
serie di conseguenze imbarazzanti.
Non solo implica che si
fraintenda di sana pianta l’intenzione critica sottesa al paradigma
storico-materialistico. Non soltanto comporta l’attribuzione a Marx – a
dir poco implausibile – di quegli stessi errori (il naturalismo, il
riduzionismo, il determinismo economicistico) che Marx per primo e con
ineguagliata potenza critica ha individuato al fondamento della
tradizione economico-politica. Ma soprattutto impedisce di lavorare
produttivamente nel solco della sua ricerca e di metterne a valore la
potenzialità critica ancora inespressa.