venerdì 4 maggio 2018

La Stampa 4.5.18
“Troppe strutture inutili e abuso di psicofarmaci
La 180 resta inapplicata”
Lo psichiatra Franco Rotelli, allievo del padre della legge “Per la salute mentale si spende meno della soglia minima”
intervista di Lidia Catalano


«Chi si prende troppo sul serio alla fine impazzisce». Sulla follia Franco Rotelli ha le idee chiare. Collaboratore ed erede di Basaglia, ha speso buona parte dei suoi 76 anni a battersi prima per l’approvazione e poi per la «piena applicazione della legge 180».
Dottor Rotelli, la missione non è ancora compiuta?
«No, in parte non lo è. I disturbi psichici, a partire dalla depressione, riguardano una fascia sempre più ampia di cittadini, ma la risposta dell’Italia oggi è chiaramente inadeguata».
Partiamo da quello che è stato fatto.
«Essere riusciti a chiudere i manicomi, sebbene ci siano voluti vent’anni, è stata una grande conquista. Erano luoghi di contenzione e violenza, senza alcuna finalità terapeutica. Una vergogna che andava cancellata».
Cosa resta da fare?
«Non basta abbattere i muri e aprire le porte per considerare archiviato il problema. Dopo aver negato l’istituzione psichiatrica, per usare le parole di Basaglia, bisognava inventarne una nuova, capace di guardare ai bisogni delle persone e di mettere in campo risorse e servizi adeguati. A Trieste è stato fatto, con i primi centri di salute mentale distribuiti sul territorio attivi già dal 1975, ben prima della legge 180. Altrove purtroppo si è fatto molto poco».
I critici dicono che servizi di questo tipo sono troppo costosi.
«Le Regioni spendono per la salute mentale una cifra ben inferiore alla soglia minima del 5% che loro stesse hanno pattuito. Non solo, i pochi fondi disponibili vengono spesi per tenere in piedi strutture residenziali costosissime che si limitano a fare da contenitori di individui senza attivare reali percorsi di inclusione, emancipazione e cura».
Lo scorso anno ha partecipato alla stesura di un disegno di legge per l’applicazione dei principi della 180. Che cosa prevede?
«Chiediamo centri di salute mentale davvero aperti 24 ore e capaci di offrire risposte immediate, risorse finanziare adeguate, e maggiori tutele per chi viene sottoposto a Tso (trattamento sanitario obbligatorio): una pratica di cui non si deve abusare e soprattutto va eseguita in sicurezza».
Ancora oggi le cronache raccontano di persone morte per un Tso o legate a un letto di ospedale.
«È vero, talvolta nei reparti di diagnosi e cura si fa ancora ricorso alla contenzione materiale o a quella chimica, attraverso l’abuso di farmaci. Molti servizi psichiatrici hanno le sbarre alle finestre e spesso l’unica risposta terapeutica è quella farmacologica. Finché di fronte al malato continuiamo a chiederci “dove lo metto” e non “che percorso posso fare con lui” non potremo che assistere a situazioni di questo tipo».
Siamo ancora fermi a 40 anni fa?
«No, ricordiamoci che negli Anni 70 era ancora in vigore una legge del 1904 che prevedeva il ricovero coatto e definitivo. Il medico scriveva: “Il soggetto è pericoloso per sé e per gli altri e di pubblico scandalo”. Era una condanna senza appello, l’internato perdeva tutto, a partire dalla propria liberà. È evidente che da allora sono stati fatti molti passi avanti».
I matti oggi fanno ancora paura?
«Quando abbiamo liberato 100 mila persone rinchiuse in manicomio la gente era convinta che ci sarebbero stati altrettanti delitti efferati. Non mi risulta che sia successo. Ma lo stigma nei confronti del malato mentale esiste ancora, è emanazione della paura. Per superarlo l’unica strada possibile è l’inclusione».