Corriere 4.5.18
In Africa
Quelle vite fiorite nella città delle spine
Dadaab, al confine tra Kenya e Somalia,
È il campo profughi più grande del mondo: impossibile partire, una tragedia restare
di Francesco Battistini
Le
sole cose che aveva in testa Guled erano il Manchester e una
pettinatura alla Balotelli. Quand’era stato rapito ragazzino in Somalia
ed era diventato soldato islamico per gli shabaab, niente calcio e
niente Balo. E fu per questo che la Città delle Spine, appena ci entrò
nel 2010, gli sembrò una città della gioia: la felicità di non avere
nulla, ma almeno una baracca di paglia con la latta bianca e azzurra,
l’insegna «Man United» sull’ingresso e uno schermo per affollarsi con
gli altri a vedere le partite. Non era vita, ma gli bastava. Poi
arrivarono una moglie, tre figli, nessun futuro. E quella che qui tutti
chiamano «buufis», la depressione del rifugiato, iniziò a fargli venire
un’altra fissa, quella che tutti hanno: il «tahrib», il viaggio della
speranza, la migrazione su su lungo l’Africa e fino ai barconi per
l’Italia. Addio calcio, Manchester, Balotelli. Cose che non
gl’interessano più.
A 25 anni l’ex bambino soldato è partito, è
tornato, s’è rassegnato a sapere che il suo destino sarà per sempre a
Dadaab, nel campo profughi più grande del mondo. Perché cinque anni fa
Kenya e Somalia avevano deciso di smantellarlo, l’Unhcr ci provò e alla
fine si arrese. Pochi giorni fa, Nairobi ha confermato la decisione:
impossibile sbaraccare, Dadaab è ormai un non-luogo di scuole, ospedali,
8mila tonnellate di cibo al mese. Come si fa a chiudere queste vite
fiorite nelle spine?
Vite vuote. Il facchino Nisho che fantastica
su infinite ricchezze. Kheyro che studia per fuggire. Il professor Occhi
Bianchi che trasmette via radio la vita del campo. Le due ragazze
famose per aver tentato nove volte di sbarcare a Lampedusa. A Dadaab si
nasce e si muore. Da tre generazioni. «Ho trascorso otto anni a fare
ricerche su chi ci abita», racconta Ben Rawlence, l’autore del best
seller La città delle spine, che l’8 e il 10 maggio sarà alla Triennale
di Milano e al Salone del Libro di Torino per presentare l’edizione
italiana curata da Francesco Brioschi Editore: «Chiamarlo campo
profughi, è fuorviante. Ormai è un’area urbana abitata da mezzo milione
di persone, grande come Zurigo, anche se non appare su nessuna mappa
ufficiale». Una città che veniva visitata da Angelina Jolie e da Bono,
gli anni in cui andava di moda, e «adesso che il numero dei rifugiati è
al suo massimo storico, viene ignorata dai Paesi ricchi».
Pochissimi
possono lasciare Dadaab con lo status di profugo: agli altri, non resta
che il tahrib o un impossibile ritorno in Somalia, perché il governo
kenyano sta facendo di tutto per smantellare le baracche. Chi non c’è
stato, dice Rawlence, non può capire: rifugiati che vogliono stare alla
larga dai somali islamisti e sono grandi sostenitori dell’America,
eppure vengono rastrellati e derubati dai kenyoti; gente spaventata dal
terrorismo più di noi, ma spinta dal nostro disinteresse ad annegare in
mare pur di non immolarsi come kamikaze; milioni di persone senza
futuro, che attraverso l’Onu ci costano miliardi e che preferiscono il
nulla del campo al nulla che c’è fuori… «Tutti qui hanno una storia che è
già stata raccontata così tante volte da scorrere liscia come una
vecchia maniglia di legno impugnata da troppe mani. Nessuno vuole
ammettere che Dadaab non è più un luogo temporaneo, ma una struttura
permanente: una prigione non solo fisica, ma anche ideale». Rawlence
cita Steinbeck: qui avviene un crimine che non è sufficiente denunciare,
un fallimento che annulla ogni successo.