lunedì 28 maggio 2018

Repubblica 28.5.18
Corsi e ricorsi
Precedenti storici
Noi, turisti a Weimar aspettando la fine
Berlino 1993-1923
Sono gli anni della Repubblica più avanzata ma anche della grande crisi economica  
Artisti e intellettuali trovano una patria
Subito dopo l’Europa piomba nella catastrofe
di Massimo Rizzante


L’epoca della cosiddetta Repubblica di Weimar (1918-1933), che prende il nome dalla città di Goethe – dove nel 1919 fu approvata la Costituzione che istituiva un Parlamento eletto con sistema proporzionale e voleva un presidente scelto direttamente dal popolo – si sviluppa tra la fine del Reich guglielmino, sconfitto e umiliato dal trattato di Versailles, attraverso la grave inflazione del 1920 e la Grande Depressione del 1929, che provocò sei milioni di disoccupati, fino all’ascesa al potere del nazionalsocialismo. È in questo contesto, in cui nacquero e furono soppresse le Repubbliche comuniste dei Consigli e si organizzarono i putsch di destra a Berlino e a Monaco (dove Hitler fu arrestato nel 1923 e condannato a cinque anni), che bisogna leggere il succedersi delle nove consultazioni elettorali dal 19 gennaio 1919 al 15 marzo 1933. Ma Weimar non rappresentò solo conflitto politico e instabilità economica. Fu il più grande periodo della cultura tedesca del XX secolo: dall’Espressionismo al teatro di Brecht, Piscator e Reinhardt, dalla musica dodecafonica di Schönberg alla Bauhaus di Gropius, dal cinema di Fritz Lang alla pittura di Klee, Dix e Grosz, dalla Neue Sachlichkheit ai romanzi di Döblin e a quelli della famiglia Mann. Berlino ne fu il palcoscenico, dove gli attori non erano solo tedeschi, ma venivano da tutta Europa: dalla Svizzera (Robert Walser), dalla Francia (Yvain Goll, Jean Giraudoux, René Crevel), dall’Italia (Pirandello, Marinetti, Borgese, Rosso di San Secondo, Alvaro), dall’Inghilterra (il trio di amici Isherwood, Spender, Auden), dalla Russia (Belyi, Sklovskij, Nabokov, Gorkij, Majakovskij) dall’Europa centrale (Kafka, Roth, Canetti). Molti di loro erano ebrei. Berlino città d’altri (Neri Pozza), titolo dell’ultimo saggio di Luigi Forte, germanista di lungo corso, disegna un panorama ricco di nomi e sfumature della cultura tedesca dell’epoca. Ma soprattutto mette in luce il contributo che molti intellettuali, scrittori e artisti di altri paesi diedero nel dipingere l’atmosfera berlinese «ruggente e cosmopolita» di quegli anni che coincisero con la metamorfosi della città da vecchia provincia imperiale a simbolo, dopo la Parigi “capitale del XIX secolo”, della modernità. Se Baudelaire fu il grande annunciatore dell’individuo alle prese con il contingente e il transitorio dell’esperienza moderna, i pensatori e gli artisti dell’epoca di Weimar furono i fenomenologi più acuti – e tutt’ora insuperati – del nostro modo di vivere: radicato «nell’economia del denaro, nel carattere di massa, nel livellamento dell’esistenza», ma anche «in un’inquietudine e in una nostalgia che si affiancano alla consapevolezza della fugacità e all’eterno divenire». Simmel, Benjamin, Bloch, Kracauer, non meno di autori oggi poco frequentati come Hans Oswald, Egon Erwin Kisch ed Erich Kästner gettarono, alle prime luci della modernità, il loro sguardo tragico e irriverente su una città dove le meraviglie del progresso e la degradazione delle relazioni umane, frutti entrambi della Zivilisation, non erano più distinguibili. Si scopriva che tutto ciò che sembrava inconciliabile fino a un decennio prima, ora poteva coesistere e che l’arte se non poteva del tutto arrendersi a un mondo sociale in preda a quella che Broch chiamava in quegli anni «disgregazione dei valori», allo stesso tempo, come Baudelaire aveva annunciato, non poteva neppure sottrarsi all’obliquo splendore delle merci.
Come essere umani in un mondo di merci? Come esplorare artisticamente un mondo di merci? Tutti, intellettuali tedeschi ed europei, nomadi e stanziali, ebrei e goijim, di sinistra e di destra, politici e impolitici cercarono, attraverso la topografia reale e immaginaria di Berlino di trovare una risposta. Ci fu chi, come scrive l’autore del libro, fu «sedotto e abbandonato» dalla città (Kafka e Walser). Chi ne fece un trampolino di lancio (Nabokov). Per molti, autoctoni o turisti (Turismo intellettuale nella Repubblica di Weimar è il sottotitolo del libro di Forte), Berlino fu «una vera scuola dei sensi e dell’istinto storico». E, aggiungerei, una scuola di provvisorietà, in cui, come afferma Fabian, il protagonista dell’eponimo romanzo di Erich Kästner, gli abitanti di Berlino si ritrovavano costantemente in una sala d’aspetto chiamata Europa senza sapere cosa sarebbe successo. Non potevano che esclamare: «Viviamo alla giornata, la crisi non finisce mai!». La crisi alla fine terminò con l’avvento del nazismo e molti di coloro che aspettavano l’Europa si ritrovarono a essere perseguitati e condannati dal Terzo Reich, mentre le loro opere, contrarie ai modelli estetici nazionalsocialisti imposti da Hitler, venivano bruciate. Si parlò di Entartete Kunst (arte degenerata)… Walter Laqueur in conclusione al suo classico saggio La repubblica di Weimar (1974) afferma che «tutti i periodi storici infausti hanno qualche tratto comune, come l’hanno tutti i matrimoni mal riusciti». Forse per questo si sente ripetere che il nostro presente ha diversi tratti in comune con quell’epoca. Tuttavia, sembra che oggi sia l’Europa intera a stare seduta in una camera d’attesa, rinviando ogni dovere, impaurita dall’inferno che la circonda, in un limbo. Dell’epoca di Weimar abbiamo conservato solo il senso di provvisorietà di fronte a una crisi eterna: «Viviamo alla giornata!». Non sembra, infatti, che le nostre metropoli rappresentino, come quella Berlino, una “scuola dei sensi” e dell’“istinto storico”. Il nostro è un altro turismo, è un altro declino, a cui non corrisponde l’esplosione artistica di Weimar, e dove le parole di Ernst Bloch, che affermava che «la contemporaneità non è niente se non supera ciò che è contemporaneo», stentano a risuonare.

Repubblica 28.5.18
Nuovo umanesimo
L’origine biologica e quella culturale, la lotta per sopravvivere e la politica, Spinoza e Proust. Parla il grande neuroscienziato
Damasio “Le emozioni nascono prima della mente”
intervista di Dario Olivero


Antonio Damasio è uno degli ultimi spiriti eclettici rinascimentali o forse uno dei primi di un nuovo umanesimo che fatica ancora a mostrare il suo volto. Neurologo e neuroscienziato nonché studioso di Cartesio e Spinoza, portoghese di Lisbona nonché docente alla University of Southern California, parla ovviamente un inglese perfetto eppure porta nel cognome qualcosa che evoca suggestioni orientali. «In che senso? Non ci avevo pensato», chiede alla fine dell’intervista. L’elenco è lungo e incompleto: Damascio, uno dei più grandi filosofi neoplatonici, papa Damaso, Giovanni Damasceno (“l’Aquinate d’Oriente”), il Damaso dell’Iliade: nomi di origine greco-siriaca. Per non dire della parola sanscrita dharma, la legge buddista (che lei cita nel suo ultimo libro), che in pali diventa damma.
«Interessante», dice.
A proposito di leggi, usa nel suo ultimo libro, “Lo strano ordine delle cose” (uscito come sempre per Adelphi) l’espressione quasi kantiana “imperativo omeostatico”.
Che cosa significa?
«L’omeostasi è la capacità, presente in tutti gli organismi viventi, di regolare i processi vitali in modo da sopravvivere e proiettarsi nel futuro. Uso la parola “imperativo” per chiarire il fatto che la vita non è possibile in assenza di omeostasi. È omeostasi o morte».
Ma la sua teoria è che da questo principio derivano anche le nostre emozioni, gioia, paura, amore, gelosia.
Come?
«L’omeostasi non è semplicemente equilibrio. Ci sono diversi stati omeostatici possibili compatibili con la vita.
Alcuni sono migliori di altri.
Quelli particolarmente benefici per la vita di un organismo trovano espressione in sentimenti positivi in quelle creature, come gli esseri umani, che sono dotate di una mente e di un sistema nervoso: per esempio, sensazioni di benessere e felicità esprimono stati di omeostasi positivi; sentimenti di malessere o tristezza esprimono stati negativi. Esistono due tipi di sentimenti: i sentimenti spontanei e i sentimenti provocati. I primi corrispondono agli stati di omeostasi che avvengono naturalmente.
Esprimono lo stato di vita all’interno delle nostre menti. I secondi sono causati dalle emozioni. Riguardo ai sentimenti di amore o gelosia, sono provocati dalle emozioni di amore o gelosia. Lo stesso vale per la paura, la rabbia o la gioia.
Quando proviamo un’emozione cambiamo lo stato di vita dell’organismo, cioè cambiamo l’omeostasi, ed è questo risultato che chiamiamo sentimento, di qualunque tipo sia».
Ciò che ci definisce come esseri umani è quella che lei chiama “mente culturale” e che deriva appunto dalle emozioni legate al principio di omeostasi. Come si può passare da una spiegazione biologica a una culturale?
«Le culture sono prodotti delle menti degli individui in una società, e in quanto tali sono necessariamente biologiche. La differenza è che la vita dei batteri o degli animali non umani è puramente biologica, mentre la vita umana include quella parte estremamente elaborata della biologia che definiamo cultura, e che è il prodotto delle interazioni sociali. Una delle tesi principali del mio libro è che, grazie alle straordinarie capacità della mente umana, abbiamo usato la natura per produrre culture. Ciò è avvenuto per effetto della combinazione di motivazioni affettive con il ragionamento intellettuale e l’invenzione».
Insomma esiste un continuum rintracciabile tra un’esperienza biologica come un’emozione e la sua realizzazione in una poesia, tra il sistema nervoso e Proust. È così?
«Capita spesso che gli umanisti guardino con diffidenza alla biologia, perché pensano che sia riduttiva e sminuisca le realizzazioni culturali. Io penso e mi prefiggo esattamente il contrario: la mia idea è che quando comprendiamo il legame tra realizzazioni culturali, che si tratti di una poesia, di un romanzo o di una composizione musicale, e l’intricato processo di soffrire o provare piacere e sopravvivere, umanizziamo realmente la biologia e arricchiamo le scienze umanistiche. Non c’è nulla di riduttivo nell’individuazione di questo processo. Non c’è nessuna semplificazione. È a tutti gli effetti un modo per esaltare l’umanità».
Lei scrive, non solo in questo ultimo libro, che il concetto di omeostasi è molto simile a quello che Spinoza chiamava “conatus”. Lei ha rivalutato il filosofo olandese e l’ha utilizzato, nei suoi scritti, in chiave epistemologica.
Spinoza serve di questi tempi?
«Il conatus di Spinoza anticipa il concetto di omeostasi, che ricevette un nome solo nel XX secolo. Spinoza era molto avanti rispetto alla sua epoca, e come filosofo è ancora più moderno oggi di vent’anni fa. Spinoza era consapevole che gli organismi viventi possono essere visti da due prospettive, quella del corpo e quella della mente, ma rimangono comunque organismi unici».
Spinoza derivava da questo anche una visione politica.
Anche nel suo libro c’è un sottofondo politico, specialmente quando descrive le dinamiche di cooperazione negli antichi organismi multicellulari nostri progenitori. Ma se tutti ubbidiamo al principio omeostatico perché non c’è armonia sulla Terra?
«L’imperativo omeostatico è necessario perché la vita continui, ma non garantisce pace o armonia. Al contrario, l’omeostasi viene costantemente violata e oltraggiata e il risultato è la malattia, l’infelicità o la morte. Curiosamente, il fatto che siamo individui capaci di pensare e decidere ci ha consentito di inventare le culture come modo per implementare l’omeostasi, e in questo modo rendere la vita migliore, individualmente e collettivamente. Le culture sono tentativi di raggiungere l’omeostasi attraverso mezzi socioculturali. Questi tentativi a volte riescono e a volte falliscono. Basta guardare alla situazione politica nell’Unione Europea e in America per rendersi conto che l’omeostasi socioculturale è un work in progress e che abbiamo ancora molta strada da fare per trovare la soluzione giusta».
Crede che la cultura possa influenzare l’omeostasi al punto da renderci più felici?
«Non sono affatto fiducioso sulla capacità della cultura di produrre felicità per tutto il tempo e per tutti gli esseri umani. Lo ripeto: dobbiamo lottare per la felicità, e le diverse pratiche e i diversi artefatti culturali sono il mezzo attraverso cui continuiamo a lottare. L’arte, i sistemi di governo, la scienza e la tecnologia sono tutte invenzioni finalizzate a incrementare il benessere degli esseri umani, e di conseguenza la loro felicità e omeostasi. Il buddismo, di cui parlavamo prima, è un eccellente esempio di gestione culturale dei nostri sentimenti allo scopo di accrescere la nostra omeostasi».
Lei è molto critico verso l’algoritmo e la logica 0-1, il digitale. Di questi tempi, con la crescita del web, il potere delle multinazionali digitali e la corsa ai big data, la sua è una posizione eretica.
«L’intelligenza umana non è soltanto cognitiva, ma anche affettiva. In assenza di affettività, l’intelligenza umana è limitata, come anche l’intelligenza artificiale. I sistemi digitali, come sono implementati attualmente nei dispositivi di intelligenza artificiale e nei robot, non hanno la possibilità di provare sentimenti. Non sono organismi viventi e non sono soggetti alla morte. Possono sopravvivere in eterno e non provare mai nulla, buono o cattivo che sia. Si possono simulare emozioni nei robot, per esempio, ma simulare non significa duplicare. L’idea che i robot, così come sono concepiti attualmente, possano avere esperienze mentali è falsa. Mi fa molto piacere essere considerato eretico».

Corriere 28.5.18
La base di Podemos: sì alla villa del leader
Spagna, il referendum dopo le critiche a Iglesias: il 68% approva l’acquisto della casa da 600 mila euro
Ma Iglesias ha perso 20 punti percentuali e apre la via alla concorrenza interna
di Elisabetta Rosaspina


«Assolti», ma ufficialmente disapprovati: i leader di Podemos, partito nato da una costola del movimento antisistema degli Indignados, Pablo Iglesias, 39 anni, professore di Scienze Politiche anticapitalista e la sua compagna Irene Montero, 30, resteranno rispettivamente segretario generale e capogruppo in parlamento. Non hanno tradito la causa, diventando proprietari immobiliari. Ma la loro nuova villa di quasi trecento metri quadrati a 40 chilometri a nordovest di Madrid, con piscina e giardino di altri 2.000 metri quadri, è parsa poco opportuna per una coppia di autentici rivoluzionari, a una grossa fetta del loro elettorato.
Travolti dalle critiche, anche all’interno del loro stesso schieramento, per aver disdegnato di «vivere come la gente normale e poterla quindi rappresentare nelle istituzioni», come ha detto il sindaco di Cadice, José María González Santos, meglio noto come «Kichi», richiamandosi al codice etico di Podemos, Iglesias e Montero si erano rimessi al giudizio degli iscritti. E per dimostrare che non si sarebbero accontentati di un blando viatico, il segretario del partito aveva promesso di dimettersi anche se la partecipazione al referendum fosse stata bassa.
Su mezzo milione di aventi diritto al voto, si sono pronunciati in 188 mila: il 68,42% (128.300 persone) della base ha trovato legittimo che la coppia stipulasse un mutuo trentennale da 660 mila euro per un alloggio non propriamente popolare, mentre il 31,58% (59.224) ha fatto pollice verso per la scelta un po’ troppo borghese dei suoi leader. Qualcuno ha rinfacciato a Iglesias un tweet del 2012 (l’anno dopo la rivolta degli Indignados) con cui attaccava gli investimenti immobiliari dell’allora ministro dell’Economia, Luis De Guindos: «Affideresti la politica economica del Paese a chi spende 600 mila euro in un attico di lusso? Sarebbe come affidare a un piromane il ministero dell’Ambiente», aveva ironizzato.
Non è la stessa cosa, ha rilanciato Irene Montero: «Un conto è comprare casa per viverci, un altro per speculare». Meno controvertibili alcune vecchie dichiarazioni televisive del leader di Podemos che stroncava «i politici che vivono nelle ville e non sanno che cosa sia prendere un mezzo di trasporto pubblico». Non c’è alcuna incoerenza, ha valutato invece, a larga maggioranza, la comunità di Podemos esprimendo il proprio appoggio a Iglesias, i cui conti e redditi erano già stati pubblicamente vagliati a più riprese, per evidenziare il progressivo aumento dei suoi depositi bancari dopo l’ingresso in parlamento. La decisione stessa di mettere le loro cariche a disposizione della volontà popolare, il «pabliscito», come è stato ribattezzato dalla stampa spagnola, è parsa una scelta coraggiosa.
Via libera, insomma, al mutuo da 1.600 euro mensili che i vertici, uniti in politica e nella vita, si sono impegnati a versare per l’acquisto dello «chalet». Ma, pur avendo ottenuto una partecipazione record al sondaggio, la coppia registra anche un importante crollo dei consensi: rispetto al risultato raggiunto poco più di un anno fa, alle primarie del partito, Iglesias ha perso 20 punti percentuali e apre la via alla concorrenza interna. Un’ipoteca in più sul suo futuro.

La Stampa 28.5.18
“Ho fatto di tutto per il nuovo governo ma il mio dovere è tutelare gli italiani”
Il discorso di Mattarella al termine del colloquio con Conte “Il mio ruolo di garanzia non può subire imposizioni”
di Sergio Mattarella


Dopo aver sperimentato, nei primi due mesi, senza esito, tutte le possibili soluzioni, si è manifestata - com’è noto - una maggioranza parlamentare tra il Movimento Cinque Stelle e la Lega che, pur contrapposti alle elezioni, hanno raggiunto un’intesa, dopo un ampio lavoro programmatico. Ne ho agevolato, in ogni modo, il tentativo di dar vita a un governo. Ho atteso i tempi da loro richiesti per giungere a un accordo di programma e per farlo approvare dalle rispettive basi di militanti, pur consapevole che questo mi avrebbe attirato osservazioni critiche.
Ho accolto la proposta per l’incarico di Presidente del Consiglio, superando ogni perplessità sulla circostanza che un governo politico fosse guidato da un presidente non eletto in Parlamento. E ne ho accompagnato, con piena attenzione, il lavoro per formare il governo. Nessuno può, dunque, sostenere che io abbia ostacolato la formazione del governo che viene definito del cambiamento. Al contrario, ho accompagnato, con grande collaborazione, questo tentativo; com’è del resto mio dovere in presenza di una maggioranza parlamentare; nel rispetto delle regole della Costituzione.
L’attenzione particolare
Avevo fatto presente, sia ai rappresentanti dei due partiti, sia al presidente incaricato, senza ricevere obiezioni, che, per alcuni ministeri, avrei esercitato un’attenzione particolarmente alta sulle scelte da compiere.
Questo pomeriggio il professor Conte - che apprezzo e che ringrazio - mi ha presentato le sue proposte per i decreti di nomina dei ministri che, come dispone la Costituzione, io devo firmare, assumendomene la responsabilità istituzionale.
In questo caso il Presidente della Repubblica svolge un ruolo di garanzia, che non ha mai subito, né può subire, imposizioni.
Ho condiviso e accettato tutte le proposte per i ministri, tranne quella del ministro dell’Economia. La designazione del ministro dell’Economia costituisce sempre un messaggio immediato, di fiducia o di allarme, per gli operatori economici e finanziari.
La fuoriuscita dall’euro
Ho chiesto, per quel ministero, l’indicazione di un autorevole esponente politico della maggioranza, coerente con l’accordo di programma. Un esponente che - al di là della stima e della considerazione per la persona - non sia visto come sostenitore di una linea, più volte manifestata, che potrebbe provocare, probabilmente, o, addirittura, inevitabilmente, la fuoruscita dell’Italia dall’euro. Cosa ben diversa da un atteggiamento vigoroso, nell’ambito dell’Unione europea, per cambiarla in meglio dal punto di vista italiano.
A fronte di questa mia sollecitazione, ho registrato - con rammarico - indisponibilità a ogni altra soluzione, e il Presidente del Consiglio incaricato ha rimesso il mandato.
L’incertezza sulla nostra posizione nell’euro ha posto in allarme gli investitori e i risparmiatori, italiani e stranieri, che hanno investito nei nostri titoli di Stato e nelle nostre aziende. L’impennata dello spread, giorno dopo giorno, aumenta il nostro debito pubblico e riduce le possibilità di spesa dello Stato per nuovi interventi sociali.
I mutui degli italiani
Le perdite in Borsa, giorno dopo giorno, bruciano risorse e risparmi delle nostre aziende e di chi vi ha investito. E configurano rischi concreti per i risparmi dei nostri concittadini e per le famiglie italiane.
Occorre fare attenzione anche al pericolo di forti aumenti degli interessi per i mutui, e per i finanziamenti alle aziende. In tanti ricordiamo quando - prima dell’Unione Monetaria Europea - gli interessi bancari sfioravano il 20 per cento. È mio dovere, nello svolgere il compito di nomina dei ministri - che mi affida la Costituzione - essere attento alla tutela dei risparmi degli italiani.
In questo modo, si riafferma, concretamente, la sovranità italiana. Mentre vanno respinte al mittente inaccettabili e grotteschi giudizi sull’Italia, apparsi su organi di stampa di un Paese europeo.
L’Italia è un Paese fondatore dell’Unione europea, e ne è protagonista.
Non faccio le affermazioni di questa sera a cuor leggero. Anche perché ho fatto tutto il possibile per far nascere un governo politico.
Nel fare queste affermazioni antepongo, a qualunque altro aspetto, la difesa della Costituzione e dell’interesse della nostra comunità nazionale.
Quella dell’adesione all’euro è una scelta di importanza fondamentale per le prospettive del nostro Paese e dei nostri giovani: se si vuole discuterne lo si deve fare apertamente e con un serio approfondimento. Anche perché si tratta di un tema che non è stato in primo piano durante la recente campagna elettorale. Sono stato informato di richieste di forze politiche di andare a elezioni ravvicinate. Si tratta di una decisione che mi riservo di prendere, doverosamente, sulla base di quanto avverrà in Parlamento.

Il Sole 28.5.18
Come funziona l’impeachment: l’ultima parola alla Consulta allargata
di Lina Palmerini 

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Il Sole 28.5.18
Le incoerenze di di Maio
Impeachment, perché Mattarella non ha abusato della Costituzione

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La Stampa 28.5.18
Ugo De Siervo
“Rispettati i poteri del Capo dello Stato”
intervista di Alessandro Di Matteo


Professor Ugo De Siervo, siamo a una crisi istituzionale mai vista, M5S e Fdi chiedono l’impeachment per Mattarella...
«È un’intimidazione, è l’unica spiegazione tecnica che si può dare. In realtà Mattarella ha esercitato più che correttamente, anche se in una situazione difficile, una facoltà che la Costituzione dà al Presidente della Repubblica. Reagire così, sinceramente, è sconcertante se non anche un po’ scandaloso».
Lega e M5S dicono che allora «è inutile votare». Sulla nomina dei ministri il Capo dello Stato avrebbe un ruolo poco più che notarile...
«Ma non è così. Intanto l’articolo 1 della Carta dice che la sovranità popolare si esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione. Secondo, la norma sulla formazione del governo dice che il Presidente della Repubblica nomina i ministri su proposta del presidente del Consiglio. Non è solo un ruolo notarile, è un potere che non risultava pubblicamente perché il sistema politico accettava le regole del gioco. Non è possibile che le forze politiche vogliano imporre al Presidente della Repubblica di fare quello che hanno deciso loro, annullando il potere presidenziale».
Ma il Quirinale può dire no perché non condivide la linea politica?
«Il Presidente ha spiegato che c’erano conseguenze sul piano economico, sulla finanza pubblica, sul risparmio. Certe candidature possono contribuire a produrre danni gravi al Paese e il Presidente ha il dovere di farsene carico. Le forze politiche dovrebbero rendersi conto dei rischi a cui espongono il Paese, non Mattarella».

Repubblica 25.8.18
La chiusura al M5S
L’errore fatale del Pd
di Piero Ignazi


Il conflitto istituzionale che si è aperto è figlio del via libera all’accordo tra 5Stelle e Lega, un accordo in buona misura favorito dal rifiuto del Pd di andare a vedere le carte dei pentastellati. La crisi di queste ore deriva da una pulsione anti-establishment dei due partiti che si è spinta fino al progetto di dare vita ad una “terza repubblica”, arrivando a forzare le regole attraverso la diminutio del ruolo del presidente della Repubblica, chiamato a ratificare come un semplice notaio scelte incompatibili con la difesa degli interessi della nazione quali la nostra appartenenza all’Unione Europea e ai suoi principi. Si poteva evitare tutto ciò? Probabilmente sì, se altri attori politici avessero giocato un ruolo politico e non si fossero ritirati sull’Aventino. Alludiamo, evidentemente, alla scelta del Pd, o meglio, del suo “ segretario dimissionario”, ma saldamente al comando, come si è visto nelle ultime riunioni collegiali del partito.
Il Partito democratico, inevitabilmente scosso dall’esito disastroso delle elezioni, ha avuto nei primi giorni del post 4 marzo una reazione di chiusura a riccio. Il Pd ha ripetuto come un mantra salvifico che sarebbe andato all’opposizione, comunque, senza se e senza ma. Ancora prima che ci fosse alle viste un qualche possibile governo. Anzi, lo ha dichiarato festoso e garrulo: ci divertiremo a guardare cosa combineranno i vincitori, e prepariamo i pop corn come a godersi un bello spettacolo. In sintonia con questo approccio, quando il M5S, ansioso di andare comunque al governo, si è rivolto al Pd per verificare una possibile convergenza, il segretario-dimissionario non ha esitato a chiudere subito la porta in faccia all’ipotesi che altri nel partito stavano tenendo in considerazione. Sia chiaro, un’alleanza di governo con i 5Stelle era improponibile per ragioni sia programmatiche che politiche. Sul primo versante c’erano distanze abissali su molti punti nonostante la buona volontà del comitato dei saggi reclutati dai pentastellati per trovare coincidenze e un’accorata lettera aperta di Di Maio al Pd; sul piano politico il Pd, ridotto a quasi la metà dei 5Stelle e reduce da una legislatura in cui aveva in buona parte dominato il governo (salvo il periodo dell’esecutivo guidato da Enrico Letta), non poteva accucciarsi ai piedi dei vincitori e fare da junior partner: una ruolo inaccettabile.
Ma questo non significa che andassero buttate al macero anche intelligenza politica e responsabilità istituzionale. Infatti se il Pd avesse avviato una trattativa con il M5S avrebbe da un lato dimostrato che le avances grilline non erano ricevibili, e dall’altro lo avrebbe vincolato ad una trattativa a sinistra che avrebbe poi inibito un loro ritorno a destra. Il Pd avrebbe potuto esercitare una influenza benefica sul M5S direttamente e sul sistema più in generale se avesse dedicato una settimana del suo tempo a discutere con gli avversari politici. Il Partito democratico ha invece preferito non incominciare nemmeno a parlare, ributtando così Di Maio nelle braccia di Salvini. E adesso per il Pd tutto è ancora più complicato perché la sua estraneità rischia di diventare irrilevanza. A meno che non abbia il coraggio di promuovere e di prendere la testa del nuovo asse di conflitto che si prefigura tra filo-europeisti e anti- europeisti. Una scelta naturale per il Pd e che ora dovrebbe essere prioritaria: per una Europa federale e solidale contro i nazionalismi, i populismi e gli egoismi nazionali da qualunque parte essi provengano ( cioè anche dalla Germania dell’austerità merkeliana e del suo inaccettabile surplus commerciale). Ma l’attuale leadership del Partito democratico è all’altezza della sfida?

Repubblica 25.8.18
Ora niente sarà più come prima
di Stefano Folli


Ieri sera gli italiani hanno conosciuto un Mattarella diverso. Completamente solo, ma quasi orgoglioso della sua solitudine. Esplicito come mai nello spiegare - con evidente sofferenza - le ragioni dei suoi atti dal 4 marzo in poi.
Fino al rifiuto di firmare la nomina di Paolo Savona come ministro dell’Economia.
Determinato a spiegare il suo “no” con ragioni politiche: la minaccia di un’Italia fuori dall’euro, il rialzo dello “spread” e quindi dei mutui, le inquietudini dei centri finanziari, la necessità di difendere i risparmi degli italiani. Altro che notaio. Il nuovo Mattarella emerso da questa crisi drammatica è un uomo che rivendica la sua idea dell’Italia in Europa e non esita perciò a imprimere una curvatura politica alle sue decisioni. Il rifiuto di Savona — l’unico ministro del quale non ha firmato la nomina — diventa il rifiuto dell’Europa alternativa di cui l’economista è paladino insieme alla Lega e in parte al M5S, secondo una visione che collide con la cornice definita in questi anni dalla Banca Centrale Europea e di conseguenza dalla Banca d’Italia. Ora si può dire che nulla sarà più come prima. La crisi compie un salto e in termini istituzionali si apre una porta verso l’ignoto. Certo, si dirà non senza motivo che Salvini, a differenza di Di Maio, ha cercato questo esito fin dall’inizio: non credeva nel governo bicolore affidato all’uomo invisibile e si è preparato con astuzia alle elezioni, schiacciando i Cinque Stelle e sventolando la bandiera del “sovranismo”. Ecco perché non è mai stato interessato a sostituire Savona con il più rassicurante Giorgetti.
Tuttavia la fase che comincia ora capovolge tutti i punti di riferimento. Le prossime elezioni saranno lo scontro finale fra due concezioni opposte dell’Europa, del modo di stare nell’Unione, della politica economica e quindi del ruolo della moneta. In tale conflitto ormai esplicito il Quirinale avrà un ruolo politico attivo senza precedenti.
Non a caso oggi Carlo Cottarelli riceverà l’incarico di formare un governo che mai come in questa occasione merita d’essere chiamato “del presidente”. Cottarelli è l’antitesi esatta di Savona e anche tale simbologia dice qualcosa sull’asprezza del confronto che si annuncia. Sarà senza esclusione di colpi, come peraltro lascia intendere la grottesca tentazione di Lega, Cinque Stelle e Fratelli d’Italia di avviare una procedura di impeachment a carico di Mattarella.
Finirà in nulla, ovviamente, ma è un indizio del clima minaccioso che si vuole alimentare contro la presidenza della Repubblica. Un altro grave passo falso in una stagione in cui gli errori sono stati tanti e commessi un po’ da tutti. C’è da credere che Cottarelli non si arrenderà subito al voto anticipato: su mandato di Mattarella tenterà di raggranellare una sorta di maggioranza in Parlamento per arrivare quanto meno alla fine dell’anno e mettere in sicurezza i conti (c’è anche l’aumento dell’Iva da sterilizzare). Si tratta, è ovvio, di un’impresa pressoché proibitiva per la quale gli unici voti a disposizione sono quelli del Pd e, a quanto pare, di Berlusconi. Ma è chiaro un punto.
Con le sue dichiarazioni politiche di ieri sera Mattarella diventa il veroprotagonista del conflitto sull’Ue. La campagna elettorale vedrà in campo da protagonisti Gentiloni, Cottarelli, Minniti, Calenda e gli altri — oltre a Renzi, ovviamente — , ma è evidente che il leader ideale di questo raggruppamento è il capo dello Stato. L’espressione sempre un po’ generica che allude al “partito del Quirinale” adesso diventa concreta e operativa.
E tutto cambia.

La Stampa 28.5.18
Quella deriva che il Paese deve evitare
di Marcello Sorgi


Va detto subito chiaramente: è una sfida molto pericolosa, ai limiti dell’irresponsabilità, quella lanciata ieri da Meloni e Di Maio (e alla quale, è prevedibile, si assocerà anche Salvini), minacciando l’impeachment del Presidente della Repubblica, che ieri s’è rifiutato di firmare il decreto di nomina a ministro dell’Economia del professor Savona, e ha accolto, di conseguenza, la rinuncia dell’incaricato Giuseppe Conte. Dopo quattro giorni di braccio di ferro istituzionale, tra il Capo dello Stato che difendeva il proprio potere di cambiare, per motivi di opportunità, la lista dei ministri, e 5 Stelle e Lega che premevano per fargli accettare il nome dell’economista sostenitore della necessità di un «piano B» per l’uscita dell’Italia dall’euro, la crisi è entrata così nell’ora più buia, alla quale non si sa se potrà portare rimedio la scelta di convocare oggi per un nuovo incarico l’ex commissario per i tagli alla spesa pubblica Cottarelli.
È stato Mattarella in prima persona, visibilmente provato, in serata, a ricostruire in pubblico al Quirinale le ultime drammatiche ore di trattative, con Salvini e Di Maio convocati sul Colle per chiedergli di favorire la nascita del governo, accettando di sostituire Savona con un candidato politico, probabilmente il vicesegretario della Lega Giorgetti, e fermi nel loro rifiuto. Era l’unica richiesta del Capo dello Stato, disposto per il resto a firmare le nomine di tutti gli altri ministri dell’esecutivo giallo-verde.
Il Presidente ha spiegato che il suo «no» a Savona, anche dopo la dichiarazione con la quale il professore aveva cercato di smussare la parte più controversa delle sue opinioni euroscettiche, era motivato dal fatto che in nessun caso, da nessuna presa di posizione ufficiale, né del candidato all’Economia, né dei suoi sponsor politici, si poteva ricavare l’accantonamento dell’ipotesi di uscita dall’euro, che rischiava di restare in campo surrettiziamente. E solo aver ventilato questa possibilità aveva creato allarme tra i partners politici dell’Unione europea e sui mercati, con gravi conseguenze (spread oltre 200, timori per il risparmio degli italiani e Dio non voglia, oggi, un avvitamento della situazione): di qui l’estrema cautela e la frenata finale del Quirinale.
Non era mai accaduto prima d’ora che un cambiamento di incarico - uno solo - proposto dal Quirinale si scontrasse con un rifiuto secco, tale da far saltare la nascita di un governo giunto ormai in dirittura d’arrivo. Da Pertini a Scalfaro, a Ciampi, a Napolitano, le mani sulla lista i Presidenti della Repubblica le hanno sempre messe, ora per cancellare un nome, ora per cambiare una responsabilità, ora per ammettere o rifiutare un accorpamento di ministeri. Ma a giudicare dai toni elettorali assunti subito dagli ex alleati della ex maggioranza e dall’intimazione di un immediato ritorno alle elezioni, il corso del tentativo Conte era già segnato e i leader che avevano proposto il nome del tecnico come candidato premier si tenevano pronti a provocare la fine della legislatura.
A questo punto è difficile fare una previsione. Avendo la maggioranza in Parlamento, Salvini, Di Maio e Meloni sono in grado di impedire la partenza di qualsiasi altro governo, anche se la scelta di Cottarelli, per il suo recente passato e la conoscenza dei meccanismi della spesa pubblica, parla anche a una parte dell’elettorato leghista e pentastellato. Il varo di un esecutivo di tregua, come quello che Mattarella aveva proposto il 7 maggio, era già stato bocciato da Lega e 5 Stelle. Insistere su questa strada, sperando che possa trovare egualmente una maggioranza nelle Camere, fondata sul dissenso di singoli parlamentari rispetto alla chiamata alle urne dei leader, è illusorio. La legislatura è finita, e al massimo nascerà un governo elettorale per riportare il Paese al voto. La campagna che si prepara - è bene saperlo - sarà spaventosa. Le minacce al Presidente che ha difeso il suo ruolo istituzionale e la Costituzione sono solo l’assaggio di quel che accadrà. L’Italia rischia di precipitare in poche settimane lungo la china che aveva risalito a fatica negli ultimi anni, tornando a votare in un clima da si salvi chi può.

Repubblica 28.5.18
Il Movimento 5Stelle
Di Maio: “L’impeachment? Per evitare atti peggiori”
Via la maschera istituzionale Grillini in piazza gridando al golpe
Manifestazione sotto la Prefettura a Torino. E a Roma
Si farà una legge elettorale con il premio di maggioranza e chi vince governa per 5 anni. E finalmente si entra nella Terza Repubblica
di Annalisa Cuzzocrea


Quando tutto si è consumato, Luigi Di Maio abbandona i consiglieri più fidati — almeno fino a ieri — e si chiude in una stanza con Pietro Dettori. È lì, davanti a un telefonino che lo manda in diretta Facebook, fianco a fianco com il braccio destro di Davide Casaleggio, che il capo politico del Movimento getta anche l’ultima maschera: quella del mediatore, indossata fino a pochi minuti prima al Quirinale, mentre tentava di fugare i dubbi e le resistenze di Sergio Mattarella.
Spinge rec e va in diretta prima che parli il capo dello Stato. Per bruciarlo, e attaccarlo. Abbandona la maschera rassicurante portata nelle cancellerie europee e alla segreteria di Stato americana. Lascia a terra quella del politico pragmatico. Nasconde il volto del seguace delle regole e della Costituzione. Arriva a dire «se è così il voto non serve», «la verità è che si sta facendo di tutto per non mandare i 5 stelle al governo». Parla di chi «si è fatto condizionare » dallo spread e dalle agenzie di rating. Minaccia: « Non finisce qui » . Più tardi, in diretta telefonica da Fabio Fazio su Rai1, chiede la messa in stato di accusa del capo dello Stato: «Bisogna parlamentarizzare la crisi per evitare atti che scongiuro nella popolazione ».
Nel mezzo, è successo di tutto. Ci sono state telefonate concitate con Davide Casaleggio, che ha dato il via libera. Con Alessandro Di Battista, che ha messo in stand by la partenza per l’America e corre a dar man forte in un comizio a Fiumicino. Con il presidente della Camera Roberto Fico, che non trova il coraggio di opporsi alla deriva. Sparuti gruppi di attivisti organizzano proteste contro le prefetture ( succede a Torino). Chi nel Movimento aveva fiutato la voglia di Salvini di andare al voto e di far saltare tutto, è messo a tacere. «Non ha fatto il doppio gioco, non vi voglio neanche sentire « , li zittisce il leader. La scelta è quella di superare il leghista nei toni anti establishment. Di andare oltre le ruspe e gli attacchi al Quirinale, facendo trapelare prima e ufficializzando poi la richiesta di impeachment. La via tracciata, senza esitazione, è quella che porta a destra: a una coalizione di fatto con il Carroccio per andare al voto dopo la messa in stato d’accusa di Mattarella. Bisognerà fare i conti, capire se correre uniti possa portare vantaggi o svantaggi. Ma una cosa è certa: una delle ali del Movimento, quella che guardava a sinistra, è mozzata per sempre. Nonostante chi la rappresenta sieda in Parlamento, e taccia. Meditando sul da farsi. «Shhhhhh», twitta Beppe Grillo allegando il trailer di un film dell’orrore. Ci sono deputati un tempo più a sinistra, come Giuseppe Brescia, che scrivono di « ingerenze inaccettabili » del Colle. Il finto mite Riccardo Fraccaro che avvisa: « Mattarella si assumerà le sue responsabilità. Noi difenderemo gli interessi del Paese sacrificati con il veto sul governo » . Di Battista, subito in piazza quasi non vedesse l’ora, lancia attacchi sempre più feroci al capo dello Stato strappando applausi. Per poi abbracciare Luigi Di Maio e lasciargli la parola: «Dopo stasera è veramente difficile credere nelle istituzioni e nelle leggi dello Stato», dice il già candidato premier M5S. Pronto a ricandidarsi come tale, sicuro del nulla osta in arrivo da parte del garante Beppe Grillo, che concederà ai suoi “ragazzi” la possibilità di un terzo mandato. In barba ai principi sbandierati fin qui. Carlo Cottarelli, citato decine di volte da Di Maio insieme alla sua spending review nei giorni della sventolata responsabilità, diventa — nel comizio notturno — un nemico della salute e del benessere degli italiani. Con Mattarella « complice dell’establishment che non ci voleva al governo ». Un «traditore» di quella Costituzione che i 5 stelle hanno portato sui tetti della Camera e in giro per le piazze durante la mobilitazione contro il referendum, per poi volutamente ignorarne equilibri e bilanciamenti. Di Maio chiede a Salvini di non tirarsi indietro sulla richiesta di impeachment. Ricorda: « Insieme abbiamo la maggioranza » . Prepara la coalizione che intende portare al voto. Il prima possibile.

Corriere 28.5.18
L’ipotesi delle urne il 9 settembre
di Francesco Verderami


Dopo la giornata di ieri, lo sbocco conseguente sembrano essere le elezioni anticipate: che i partiti già immaginano fissate nella seconda domenica di settembre.

È difficile immaginare colpi di scena in un Parlamento militarizzato, perciò appare impossibile che il «governo di emergenza» a cui sta lavorando (e non da ieri) Mattarella possa ottenere la fiducia delle Camere. Semmai la figura di Cottarelli — che pure era stato rincorso da quasi tutti i partiti in campagna elettorale per essere inserito nelle rispettive squadre ministeriali — è una forma di garanzia che il capo dello Stato offre ai mercati per fronteggiare la loro reazione dopo il default dell’esperimento Conte. L’obiettivo primario del Colle, al momento, è impedire che la drammatica crisi politica e istituzionale impatti pesantemente sull’economia nazionale. Ma non c’è dubbio che la mossa di Mattarella celi anche un altro intento: far leva sul senso di responsabilità dei gruppi parlamentari perché accettino di far approvare dal futuro gabinetto tecnico quantomeno la legge di Stabilità e magari anche una nuova legge elettorale, così da tornare alle urne all’inizio del nuovo anno. Il fatto è che Cinquestelle e Lega dispongono dei numeri per bloccare una simile operazione, e si preparano a impedire il disegno del Quirinale per non perdere la loro golden share ed evitare che in corso d’opera si consolidino nelle Camere altri equilibri, capaci di far durare la legislatura. Se questi sono i margini di azione, lo sbocco sono le elezioni anticipate, che i partiti già immaginano fissate nella seconda domenica di settembre. E dal modo in cui ci si avvicinano, è evidente che non saranno un test ordinario: saranno un referendum sull’Europa, sull’euro e anche sul modello costituzionale italiano. Perché è altrettanto evidente che la presidenza della Repubblica — investita dalla minaccia di impeachment — diventerà in campagna elettorale uno dei bersagli del fronte populista e sovranista. È vero che la messa in stato d’accusa di Mattarella evocata dai Cinquestelle e da Fratelli d’Italia è solo una spregiudicata manovra tattica. Serve ai due partiti per uscire dall’angolo in cui — a vario titolo — sono stati cacciati dalla Lega. È un modo per riacquisire autonomia e visibilità: Di Maio ne fa uso per non perdere la leadership grillina minacciata dal movimentista Di Battista; la Meloni per non perdere i voti minacciati dal movimentismo di Salvini. Che non a caso si smarca da M5S e FdI. Certo, anche il capo del Carroccio punterà contro il Colle, ma lo farà sfruttando un’altra arma, capace a suo giudizio di catalizzare il consenso: è l’economista Savona, che è già diventato l’icona del leader sovranista. In Italia come in Europa userà le sue idee (più della sua figura) nella battaglia del «popolo contro le élite», sarà lo strumento con cui puntare a palazzo Chigi, dopo aver egemonizzato definitivamente ciò che resta del vecchio centrodestra. Con la Meloni nel cono d’ombra leghista, gli resta da chiudere il conto con Forza Italia. E Berlusconi dispone di pochi margini, come si è visto ieri dalla sua nota dopo il discorso di Mattarella: un conto sono state le parole rispettose verso il capo dello Stato e la critica per l’iniziativa dell’impeachment, che lo uniscono di fatto al Pd; altra cosa il messaggio rivolto a Salvini, la garanzia che non appoggerà il governo tecnico, perché «ove necessario siamo pronti al voto». Chiamato a una «scelta di campo», il Cavaliere sceglie l’alleato con cui era andato al voto a marzo. Ma la coalizione che potrebbe risultare vincente nelle urne avrebbe un’altra fisionomia. E questo pone in prospettiva dei problemi a Forza Italia: a parte la distribuzione dei collegi, a vantaggio del Carroccio, come farà Berlusconi a marciare insieme a Salvini che si prepara ad attaccare quelle istituzioni comunitarie dove siede il presidente dell’Europarlamento Tajani? Che fine faranno le garanzie offerte al Ppe di proporsi come l’«argine alla deriva populista»? La verità è che il blocco europeista italiano rappresentato da FI e Pd verrebbe colto di sorpresa dal voto anticipato, diviso dal vecchio schema bipolare popolari-socialisti e chiamato a frenare senza armi il blocco sovranista in fase crescente. Non sarebbero elezioni, sarebbe un’ordalia.

La Stampa 28.5.18
Destini opposti:
Matteo vince e Luigi piange
Tre mesi di proclami e rassicurazioni
E Salvini beffò l’apprendista Di Maio
di Federico Geremicca


Quando la polvere sollevata da questi tre mesi di scontri e di inutili trattative sarà stata spazzata via dal campo, sarà più facile osservare la foto finale del lungo e silenzioso duello che ha contrapposto - tra finte solidarietà e apparenti cortesie - Di Maio e Salvini, i diarchi.
I diarchi
L’istantanea immortala un leader in fondo soddisfatto del lavoro svolto e perfino del suo epilogo drammatico; e un altro preda di dubbi, sommerso dai guai e dunque costretto a ricorrere improvvisamente agli antichi toni. Il diarca sereno - se ci fosse bisogno di chiarirlo - è il Matteo che viene dal nord; quello dubbioso, incerto e preoccupato per quel che avverrà, è - purtroppo per lui - il capo politico del Movimento Cinque Stelle.
Uno stregone e un aspirante stregone. Un professionista della politica ed un apprendista leader. Un capo partito in ascesa - e con davanti più strade e più opzioni - e un capo partito in discesa, con di fronte un vicolo stretto e la necessità - adesso - di difendere addirittura il proprio ruolo di leader in vista di un nuovo e inevitabile scontro elettorale. Ora che la polvere comincia a diradarsi, insomma, è forse possibile una ricostruzione delle tappe di un duello implicito e silenzioso, e del suo epilogo: c’è un vincitore ed uno sconfitto. Al netto delle macerie - costituzionali e perfino civili - che i diarchi lasciano sul campo.
Il pifferaio
La verità è che, come un pifferaio magico, Matteo Salvini è riuscito a farsi seguire da Luigi Di Maio e a condurlo fin dove quest’ultimo non avrebbe mai voluto arrivare. Per il “capo politico” dei Cinque Stelle, infatti, riuscire a fare un governo era assolutamente fondamentale: fallire l’obiettivo e arrivare alla rottura su temi, nomi e tempi scelti dall’”amico Matteo” rappresenta un precipizio dal quale non sarà facilissimo risalire: forse nemmeno tornando all’antico, rispolverando i toni duri delle origini e minacciando l’impeachment del Capo dello Stato.
Lo sconfitto
Non era su un epilogo così, infatti, che aveva scommesso “Giggino” da Pomigliano, altrimenti - in tutta evidenza - non avrebbe dismesso ad un mese dal voto (e per i quasi tre successivi...) il classico armamentario grillino, cercando di rassicurare chi andava rassicurato e abbandonando trincee storiche del Movimento: dal no alla Nato e all’euro fino alla conferma di ogni alleanza tradizionale. Dopo settimane buttate via a giocare con i due forni, il contratto, il referendum tra gli iscritti e l’annuncio che si stava “scrivendo la storia”, Di Maio aveva assolutamente bisogno della nascita di un “governo del cambiamento”. Al suo posto, invece, oggi osserva macerie fumanti: tra le quali già gli sembra di intravedere i volti perplessi di Casaleggio e Grillo e quello sorridente e già pronto a rientrare in campo dell”amico Dibba”, che chissà per quale soluzione ha fatto il tifo in questi mesi di trappole e tranelli.
Magari oggi Luigi Di Maio riavvolgerà la pellicola del film e scoprirà d’esser stato giocato. Sì, Salvini ha fatto da subito dei passi indietro. Ha lasciato ai Cinque Stelle la presidenza della Camera: per Roberto Fico, non proprio un fedelissimo di “Giggino”. Ha regalato a Forza Italia quella del Senato: per Maria Elisabetta Casellati, berlusconiana d’acciaio e votata con chissà quanta gioia dai senatori pentastellati. Ed ha anche rinunciato a chiedere per sé Palazzo Chigi: ma solo per poter ottenere che anche Di Maio, alla fine, fosse costretto a un passo così.
I cattivi affari
Solo cattivi affari per l’aspirante stregone, mentre lo stregone calato dal nord intanto sciorinava temi e modi classici del sovranismo vero: invettive contro l’Europa e le banche, un po’ di razzismo qua e là, e tante promesse impossibili da realizzare. In più, teneva in caldo il suo vero secondo forno: rassicurazioni a Berlusconi, parole buone per la Meloni e «aspettate, aspettate e vedrete cosa accadrà». Ora Matteo Salvini ha una linea (mai schiavi dell’Europa), un possibile - autorevole e funzionale - candidato-premier di riserva (Paolo Savona) ed una alleanza - quella solita - pronta a riprendere il largo ed a vincere (secondo i sondaggi) le prossime elezioni.
Vedremo. Ma per ora l’ultima foto non può lasciare dubbi: un diarca vince ed un altro perde. Forse perché uno è stato più abile dell’altro. O forse perché due populismi (pardòn: due sovranismi) non li regge nemmeno un Paese rancoroso e affaticato come l’Italia.

Repubblica 28.5.18
L’ascesa di Salvini
Dal programma a Savona così è andata a segno l’opa del Carroccio sui 5S
Pur con la metà dei voti i leghisti hanno egemonizzato i grillini sfruttando la loro paura di perdere l’occasione di governare
di Claudio Tito


Il Movimento 5Stelle è stato “salvinizzato”. Il prodotto finale di questa lunghissima crisi istituzionale è la subalternità del “grillismo” al leghismo. E la rinuncia di Giuseppe Conte al mandato ricevuto da Mattarella ne è stata la prova finale.
I risultati delle ultime elezioni politiche e il saliscendi delle trattative per formare il nuovo governo hanno dunque messo in mostra un singolare paradosso. Il partito di Salvini si è conquistato una centralità che va ben oltre i consensi ricevuti.
Per i suoi meriti ma anche per la debolezza di tutti gli altri, alleati e avversari. La sua radicalizzazione ha di fatto contagiato o paralizzato tutti i partiti che sono entrati in contatto con i lumbard. Prima e dopo il voto.
La prima vittima è stata Forza Italia. Silvio Berlusconi ha pagato lo scotto dell’alleanza dovendo cedere lo “scettro” al “Socio” leghista. La ribellione sociale e la rivolta istituzionale promossa da Salvini ha di fatto travolto il partito del Cavaliere.
Ma l’efficacia di una comunicazione fatta di eccessi e fake ha avuto la meglio soprattutto a urne chiuse.
Salvini si è subito presentato come uno dei “vincitori” delle elezioni. La Lega aveva compiuto di certo un balzo avanti ma in un sistema essenzialmente proporzionale ha raggiunto il 17 per cento. Il partito considerato perdente, il Pd, ha ricevuto il 18 per cento. Il centrodestra complessivamente ha ottenuto il 37 per cento ma per quella coalizione non si è trattato certo di un record: nel 2008 aveva toccato la soglia del 47 per cento. Eppure la formazione di Salvini è stata comunque definita quella prevalente in questa tornata elettorale.
Poi è arrivata la trattativa con il Movimento 5Stelle. Il leader del Carroccio rompe l’intesa con Berlusconi e Meloni e apre il percorso per un governo con i pentastellati.
I rapporti di forza sono invertiti.
Di Maio può contare sul 32 per cento dei voti. La leadership di questo patto dovrebbe toccare in teoria al grillino. Non solo per quanto riguarda la presidenza del consiglio, ma anche per il profilo programmatico dell’esecutivo.
Eppure il capo politico grillino inizia progressivamente a perdere la voce. Pur di fare il governo rinuncia a tutto quello che aveva sostenuto in campagna elettorale. E quel che accade nel cosiddetto “contratto” ne è la dimostrazione. Una piattaforma programmatica sostanzialmente di destra. Il predominio leghista accompagna tutte le pagine di quel documento. A parte una spruzzata di “green economy” e di ambientalismo, tutti i punti salienti sono dettati dal Carroccio. I pentastellati che in Parlamento si erano battuti per la stepchild adoption (l’adozione per le coppie gay) e per il riconoscimento dello Ius Soli, accettano di far sparire qualsiasi riferimento ai diritti civili. Gli obiettivi fondanti del patto si incardinano invece sulla Flat tax, sulla estensione senza limiti della legittima difesa, sugli immigrati e sulla politica estera anti-euro e filorussa.
Le escandescenze contro l’Unione europea nascondono così i rapporti che i grillini ma soprattutto la Lega intrattiene con Mosca e Putin. Basta leggere il testo dell’accordo tra Russia Unita, il Partito del presidente russo, e il Carroccio per coglierne la profondità. Così le ingerenze di Bruxelles sono inaccettabili, quelle di Mosca sono benvenute.
Il doppio forno di Di Maio quindi si spegne, si accende quello di Salvini. Il segretario lumbard stringe l’alleanza con il Movimento 5Stelle ma si affanna a confermare che la coalizione con Forza Italia e Fratelli d’Italia è ancora viva.
Ecco il paradosso: il 32 per cento dei grillini viene di fatto ibernato dal 17 per cento dei leghisti. La “salvinizzazione” inizia in quel momento. Anche perché molti dei rappresentanti pentastellati vivono questa legislatura come prima e ultima occasione. “Ora o mai più”, ripetono da ottanta giorni. Sono convinti che alla guida del Paese possono andarci solo in queste circostanze. Non solo. Di Maio avverte il fiato sul collo di Alessandro di Battista che dall’esterno non manca di lanciare i suoi missili. Come ha fatto, ad esempio, contro il presidente della Camera, Roberto Fico, e il caso della colf pagata in nero. I vertici M5S vengono così irretiti dal movimentismo del “neo-senatur”.
Stessa tattica, stesso risultato sulla composizione della squadra di governo. Salvini chiede che non sia Di Maio il premier e neanche uno degli eletti grillini. Serve un “terzo nome”. Il Movimento si piega, sempre nella speranza di cogliere il momento: “Ora o mai più”. Accettano di indicare Giuseppe Conte, un candidato presidente del Consiglio politicamente sbiadito. Con una caratteristica, però, ben chiara: la guida di fatto dell’esecutivo sarebbe ricaduta sui due leader di partito.
Poi si arriva al “caso Savona”. Sul nome dell’economista, Salvini punta tutta la sua posta. Di Maio nel corso della trattativa fa sapere, anche al Quirinale, di essere disponibile a cambiare cavallo per l’Economia. Anche di accettare lo “spacchettamento” del ministero. «Un’alternativa c’è sempre», dice il capo politico penta stellato fino a sabato sera.
Ma anche stavolta la voce di Salvini è stata più forte di quella dell’alleato. Forse pure a causa dei sondaggi che assegnano una crescita di consensi alla Lega e una flessione al M5S. E per effetto del “doppio forno” che i lumbard possono riaprire con il centrodestra.
L’ultima capriola, però, potrebbe essere fatta nelle prossime settimane. L’asse populista è pronto a diventare un unico soggetto politico. La sovrapposizione parziale ma consistente dei due elettorati spinge verso una coalizione, non solo di governo ma elettorale.
M5S e Lega potrebbero diventare un partito unico. O una alleanza stabile che stabilizzi il fronte sovranista e antieuropeo. Se allora la “corsa” tra Di Maio e Di Battista è già iniziata, lo è anche la voglia di Salvini di “salvinizzare” definitivamente il Movimento.

La Stampa 28.5.18
Cottarelli, il commissario antisprechi che aveva bocciato il contratto M5S-Lega
di Paolo Baroni


Era nella sua casa di Milano, davanti al pc, e dopo aver corretto i compiti dei suoi studenti della Bocconi, dove attualmente è visiting professor, stava scrivendo un articolo che sarebbe dovuto uscire domani su L
a Stampa quando alle nove di sera gli è arrivata la telefonata dal Quirinale. Il tempo di avvisare la moglie della convocazione da parte del presidente Mattarella e subito è tornato davanti al computer, questa volta però per cercare un biglietto per il primo treno che stamattina lo porterà a Roma.
Chiamata a sorpresa
A botta calda Carlo Cottarelli si è detto «sorpreso» di fronte alla chiamata del capo dello Stato e «umile» di fronte all’impegno che sarà chiamato a svolgere. In realtà il suo nome, assieme a quello di altri grand commis dello Stato, dal giudice emerito della Consulta Sabino Cassese al presidente del Consiglio di Stato Alessandro Pajno, dall’ex presidente dell’Istat Enrico Giovannini ad altri ancora, era già circolato nelle scorse settimane come possibile guida di un eventuale «governo del presidente». Ma Cottarelli, noto ai più soprattutto come «Mister Spending review» per l’incarico di fine 2013 nel governo Letta ed il maxipiano di tagli da 32 miliardi di euro, era stato evocato anche come possibile ministro sia dal centrodestra che dai 5 Stelle. Ogni volta che veniva chiamato in causa il direttore dell’Osservatorio sui conti pubblici della Cattolica però si scherniva: «A me sembra più probabile che mi chiamino nell’Inter a giocare al posto di Icardi, come centravanti».
Dieci giorni fa in una intervista al nostro giornale Cottarelli aveva dettato le sue condizioni per poter guidare un eventuale esecutivo 5Stelle-Lega, escludendo però nei fatti questa possibilità visto le proposte esagerate (e con coperture incerte) contenute nel loro programma. «La priorità» del nostro Paese è infatti esattamente un’altra, anzi è l’esatto contrario. A suo giudizio occorre infatti «mettere a posto i conti pubblici. Certe misure si possono ipotizzare, ma in un quadro in cui il debito si riduce a una velocità sufficiente per mettere l’Italia al riparo dalla prossima recessione. Se l’idea è di tagliare le tasse in deficit, aumentando la spesa non sono la persona giusta».
Il «no» a Lega e 5 Stelle
Dunque pollice verso sia sul reddito di cittadinanza, «che nella versione morbida costerebbe 15 miliardi di euro»; sia sulla flat tax, «inaccettabile se si ottiene con la rottamazione delle cartelle, cioè un condono, oppure nella speranza che l’evasione fiscale si riduce e il pil riparte: possibile, ma prima deve accadere perché altrimenti in un Paese ad alto debito si tratta di un rischio eccessivo».
Se questa mattina il problema dell’Italia è contrastare una nuova impennata dello spread, preludio di una nuova stagione di instabilità finanziaria che tanto preoccupa giustamente Mattarella, probabilmente la designazione a presidente del Consiglio dell’ex direttore esecutivo dell’Fmi può essere la risposta giusta. Se il timore era che l’Italia con Lega e 5 Stelle non rispettasse i vincoli europei sino ad ipotizzare un’ uscita dall’euro, con la nomina di Cottarelli arriva un segnale esattamente contrario.
«L’Italia deve approfittare di questa fase di crescita per rafforzare i conti pubblici razionalizzando la spesa – spiegava nei giorni scorsi al nostro giornale l’economista lombardo–. In caso contrario prima o poi le condizioni peggioreranno il debito ricomincerà a salire rispetto al pil e ripartirà la speculazione contro di noi». Priorità dunque alla riduzione del deficit. «Io sono keynesiano - spiegava ancora nei giorni scorsi dagli schermi di Skytg24 – e sono d’accordo ad aumentare il deficit nelle fasi di crisi, ma intanto che si cresce occorre aumentare l’avanzo primario. Se non lo facciamo ci esponiamo a dei rischi, che poi sono quelli che ha dovuto affrontare Monti nel 2011 aumentando le tasse tagliando la spesa».
Le prime sfide
Il suo compito, accantonate le follie del governo giallo-verde abortito ieri, non si presenta comunque facile. Prima di affrontare la legge di Bilancio, che andrà presentata ad ottobre, bisognerà inviare a Bruxelles uno schema aggiornato del Def ed eventualmente indicare come l’Italia intende disinnescare le clausole di salvaguardia per evitare il salasso da 12,4 miliardi sul prelievo Iva che scatterebbe l’anno prossimo. E poi c’è il dossier Ilva da condurre in porto, la cessione Alitalia ed importanti vertici internazionali in cui far sentire la voce dell’Italia, il tutto in un clima politico che non si annuncia per nulla facile.

Corriere 28.5.18
il retroscena il confronto al colle
E il Quirinale chiese ai leader: perché non volete Giorgetti?
di Marzio Breda


«Non l’ho fatto a cuor leggero», dice Mattarella, e quell’espressione semplice, pronunciata con voce appannata ma ferma, riassume l’assillo che lo ha tormentato queste settimane d’impazzimento generale, prima di giungere alla scelta più drastica. Cade l’ipotesi del governo Lega-5 Stelle e si materializza un incarico per Carlo Cottarelli, convocato per stamane al Quirinale. Non era lui il candidato «coperto» al quale il capo dello Stato qualche settimana fa pensava di affidare un esecutivo «di garanzia e servizio», se il patto gialloverde fosse fallito. Questo nome si è imposto adesso per tamponare in corsa i conti pubblici, dopo che l’Italia è stata messa sotto attacco dagli speculatori finanziari.
Ora che tutto è andato in tilt potremo verificare, e lui per primo, quale grado di responsabilità saprà mostrare il Parlamento davanti a una crisi tanto grave quanto senza precedenti. Comunque non c’era altra opzione, per Mattarella. Che non avrebbe potuto lasciare l’istituzione Presidenza della Repubblica colpita e, anzi, lesionata, nelle prerogative fissate dalla Carta costituzionale. Un’osservazione che fino all’ultimo ha girato, argomentandola, anche ai due partner dell’ormai disciolta maggioranza, che sono stati degli agnellini davanti a lui. Nessun veto, capite? Piuttosto perché irrigidirsi su Paolo Savona quando al suo posto vi ho proposto un interim a Conte o l’incarico pieno a un leghista di peso come Giorgetti? «Capiamo tutto, presidente, ma per come si è messa la cosa non possiamo togliere quel nome dalla casella dell’Economia», gli hanno risposto. Con garbo. Salvo fare, subito dopo esser usciti dal Palazzo, «la faccia feroce», come dicono a Napoli, mentre si esibivano in piazze e tv fino a vagheggiare l’impeachment.
E qui sta il mistero della giornata. Del quale Salvini, e pure Di Maio (che si era difeso dando la colpa al «socio» di governo), dovranno rispondere al loro popolo. L’intera domenica si era consumata in estremi tentativi di mediazione tra i due partiti e il candidato premier, con il coinvolgimento dell’economista controverso, sondato a distanza per un’eventuale disponibilità ad accettare un altro ministero. Una corsa contro il tempo come raramente se ne vedono nella Roma dai tortuosi ritmi bizantini, specie nei negoziati politici. Una guerra di nervi. Con l’incubo dell’irremovibilità dei due leader, ancorati all’ultimatum «o Savona o il voto», che poteva far saltare tutto. Come poi è accaduto.
La trattativa a un certo punto si era spostata al Quirinale, dove Salvini e Di Maio erano saliti. Incontri i cui contenuti avrebbero dovuto restare riservati e che sono invece stati subito pubblicamente raccontati (cosa mai vista), confermando che la campagna elettorale più lunga della nostra storia si era riaccesa. Un modo per mettere fin d’ora Mattarella nel mirino, con una speculazione ultrapopulista sui suoi poteri. Insomma: a nessuno dei due interessavano le controindicazioni costituzionali che inducevano l’inquilino del Colle a dire no alla candidatura di Savona all’Economia, quanto cercare il casus belli. Per cavalcarlo.
Un momento spartiacque si era avuto all’ora di pranzo, quando il professore cagliaritano aveva fatto diffondere un chiarimento su quella che aveva definito «una scomposta polemica sulle mie idee». Documento ambiguo. Perché si riparava dietro il «contratto» di Lega e 5 Stelle, senza entrare nei nodi di un programma economico insostenibile sul piano della disciplina di bilancio, attraverso investimenti extradeficit. E soprattutto reticente sul «piano» per far uscire l’Italia dall’euro predicato con insistenza da Savona.

La Stampa 28.5.18
Di Maio si arrende
“Matteo ci ha usato per tornare al voto”
Il tentativo fallito di far rilasciare un’intervista a Savona Il leader grillino: ora un patto con la Lega sui collegi
di Federico Capurso Ilario Lombardo


La tragedia di un Movimento si consuma tra la disperazione del fallimento e le immediate strategie di sopravvivenza. Luigi Di Maio si guarda indietro e poi avanti. Guarda a quando era lui a tracciare un percorso, a gestire i tempi e i modi delle trattative, prima che Matteo Salvini guadagnasse spazio, strappasse al grillino lo scettro del populismo e cominciasse a dettare i ritmi della crisi. Tre giorni fa, un deputato molto vicino a Di Maio come Vincenzo Spadafora confessava ad amici: «Salvini si sta impuntando così su Savona perché vuole tornare al voto». E questo sospetto non ha mai abbandonato il M5S, costretto a subire la tattica umorale del leghista per tutti questi mesi. «Ci ha usato e fregato» si ripetevano ieri a Ivrea uomini vicini a Davide Casaleggio
E allora bisogna correre subito ai ripari, ben consapevoli che la prossima campagna non potrà essere più giocata contro quello che fino a ieri era l’alleato di governo, e altrettanto consapevoli che un pezzo dei delusi di sinistra che avevano trovato casa nel M5S e che hanno vissuto con disagio l’asse con i leghisti, se ne andranno. Una volta che ti abitui al compromesso non puoi più farne a meno. È l’odore del potere. I 5 Stelle sono pronti, e ne hanno già parlato con i leghisti, a firmare un patto di non belligeranza per le prossime elezioni. Di Maio lo ha sintetizzato ai suoi collaboratori: «Loro conquistano tutti i collegi uninominali del Nord, noi quelli del Sud e ci prendiamo l’Italia». Nelle ore più difficili, quando Salvini ha chiesto a Di Maio lealtà nel sostegno granitico a Paolo Savona, l’argomento è stato sfiorato. Le regole pentastellate vietano le coalizioni e i leghisti non sembrano propensi a rinunciare al centrodestra. L’accordo allora prevede uno schema semplice: tracciare una linea che va da Roma all’Adriatico e dividersi i collegi uninominali. E su quelli a rischio fare desistenza per agevolare la vittoria del M5S o della Lega.
Un film che terrorizza i principali esponenti di Forza Italia, che in questo senso leggono i casi di Vicenza e di Siena dove il M5s non ha autorizzato le liste per le comunali. Uno scenario che è stato prospettato anche a Silvio Berlusconi, desideroso di conoscere se Salvini si terrà in serbo un piano B con i grillini. I 5 Stelle lo leggono così: lasciare che la Lega faccia campagna con il centrodestra e riorganizzare l’alleanza dopo il voto. Di Maio è certo che i rapporti di forza cambieranno. La Lega sale nei sondaggi, loro perdono consenso e potrebbero perderne di più. Agganciarsi all’ascesa di Salvini è forse l’unica soluzione.
Eppure Di Maio aveva provato in tutti i modi a non arrivare fin qui. Proprio per evitare il voto, ma anche uno scontro istituzionale senza precedenti con l’uomo che per mesi aveva lodato, arrivando addirittura a paragonarlo «a un nonno». Ha controproposto, di sponda con il Colle, il nome del leghista Giancarlo Giorgetti per l’Economia. Di fronte al rifiuto di Salvini si è detto favorevole allo spacchettamento del dicastero in Tesoro e Finanze, per affiancare a Savona un nome di mediazione. E infine: lo staff della comunicazione, d’accordo con il premier incaricato Giuseppe Conte, fino a sabato sera ha provato a convincere il professor Savona a rilasciare un’intervista a un quotidiano (prima avevano proposto il Financial Times) per tranquillizzare l’Europa. Doveva suonare come un’abiura delle sue tesi. L’economista ha rifiutato: «Ho 82 anni, perché dovrei cambiare le mie idee per una poltrona?». Ma ha comunque fatto una nota dove ha concesso il rispetto per i Trattati e il riferimento al contratto M5S-Lega dove non si parla di uscita dall’euro. Peccato che l’abbia pubblicata su un sito critico verso la moneta unica.
A quel punto, crollato tutto, Di Maio ha ingranato la marcia più aggressiva. Per recuperare Salvini lo ha superato nei toni arrivando a proporre l’impeachment. Non solo: ha evocato, come già in passato, manifestazioni di piazza. «Reazioni nella popolazione» che dice di voler scongiurare con la «parlamentarizzazione» della crisi istituzionale. Dibattere d’impeachment serve a anche a prendere tempo per ricalibrare la sfida cui il M5S non era pronto. Ma Di Maio rischia di trovarsi solo in questa battaglia. Perché Salvini ha già sposato la posizione di Berlusconi contro la messa in stato d’accusa del presidente. E Beppe Grillo ha twittato un enigmatico «shhh» accompagnato dal trailer di A quiet place, un horror dove è il silenzio a salvare i protagonisti. Si vedrà se davvero Alessandro Di Battista tornerà dagli States per ricandidarsi in caso di voto anticipato. Intanto ieri era sul palco con Di Maio a Fiumicino, dove si vota: «Mattarella aveva un piano» urla il mattatore e il capo politico deve annuire. Mai avrebbe assecondato queste parole fino a qualche giorno fa. Il leader ha avuto la garanzia che sarà ancora lui il candidato premier, ma non si sente tranquillo. E deve subito cercare una piazza per rispondere all’eterna piazza di Salvini.

La Stampa 28.5.18
La grande paura del popolo M5S
“Ora la Lega ci sovrasterà”
di Matteo Indice


La trasfigurazione della base M5S radunata a Ivrea ha come preludio il minuto che trascorre a cavallo delle 20, sulla terrazza del bar «L’esagono» davanti alle Officine Olivetti. Qui Davide Casaleggio aveva appena annunciato la nascita di Rousseau Open Academy, nuova declinazione aperta ad ampi interventi dei non iscritti. E a Roma pareva prossimo lo scollinamento, sintetizzato dalle parole dell’ex operaia e sindacalista divenuta grillina Annunziata Dognani: «Uscire dall’euro sarebbe una follia, sotto sotto Salvini lo sa e noi per cambiare accettiamo il leader leghista. Savona? Era stata anche un’idea nostra...». E però alle otto di sera il figlio di Gianroberto compulsa il cellulare, scatta in piedi, raggiunge la sua Audi e scappa. Passano cinque minuti e i sostenitori pentastellati rimasti dopo l’open day pomeridiano apprendono le indiscrezioni sul no di Mattarella, uno sbotta sebbene adesso a rivelare il nome ci si pensi due volte: «Non capisco se è il Presidente che difende un blocco di potere o Salvini che aveva già pianificato tutto. Ma mi viene da pensare con più forza alla seconda ipotesi. Davvero il Quirinale non aveva margini per accettare Savona? Soprattutto: davvero Savona non poteva fare un passo indietro o perlomeno di lato, accontentarsi di qualcos’altro? E non è che Salvini ha recitato e torna a casa, nel centrodestra, per incassare un consenso abnorme e sovrastarci se si vota?». È uno dei principali spauracchi, per i Cinquestelle, che almeno da queste parti non s’attestano su posizioni reazionarie. Dice Luigi Sgrizzi: «Salvini dal fallimento capitalizza di più. Noi? Bisogna vedere quale messaggio passa sulle responsabilità...». Poco più avanti Nicola Morra, che fa il senatore, parla con un militante e concordano sorridendo amari con Massimo D’Alema, che l’altro ieri aveva profilato iperbolicamente un 80% per il Capitano in caso di stop all’esecutivo gialloverde e ritorno alle urne in tempi stretti. All’opzione d’un governo alternativo, come quello profilato con l’incarico a Cottarelli, invece non vuol pensare nessuno. Lo certifica l’ex dirigente Olivetti Emilio Torri, che il 4 marzo aveva votato Bonino ma oggi è qui: «Serve una maggioranza politica, con le incognite che contempla. Qualunque forma di opposizione a M5S o Lega è ahimè bollita».

La Stampa 28.5.18
I petrodollari tramontano, lo yuan cinese conquista Riad
E l’Iran potrebbe aggirare le sanzioni vendendo il greggio in Asia senza usare la valuta americana
di Giordano Stabile

qui

Repubblica 28.5.18
Scrive il sito Népszava
La denuncia delle opposizioni ungheresi “Orbán ha requisito gli archivi di Lukács”
di Andrea Tarquini


BERLINO, GERMANIA Un gravissimo colpo sarebbe stato inferto dalle autorità ungheresi al patrimonio culturale della nazione magiara, dell’Europa e del mondo intero. L’archivio del grande filosofo marxista critico György Lukács, pieno di manoscritti inediti, appunti ed epistolario, ospitato nell’appartamento di Belgrád Rákpart dove Lukács visse fino alla morte, pare che di fatto non esista più. Lo denuncia l’influente sito ungherese Népszava, una delle ultime voci indipendenti tra i media ungheresi dopo le ulteriori strette attuate a seguito della schiacciante vittoria elettorale del popolare premier sovranista nazionalconservatore ed euroscettico Viktor Orbán ( foto) l’8 aprile scorso.
Sono rimasti solo i libri che Lukács collezionava ovviamente a migliaia, ma libri di chiunque, opere già pubblicate e note. Il prezioso materiale su cui studiava fino a poco fa un team di esperti ungheresi e internazionali della Fondazione Lukács, invece, quindi il materiale più importante perché composto di inediti che potrebbero portare nuove rivelazioni sull’evoluzione del pensiero del maggior filosofo marxista critico e antitotalitario del ventesimo secolo, non sono più accessibili a nessuno. Sono stati tutti portati via da ignoti verso destinazione sconosciuta.
Gli ignoti, presumibilmente secondo Népszava agendo agli ordini delle autorità ungheresi, hanno anche cambiato la serratura in modo da impedire a chiunque di entrare. Hanno licenziato i dipendenti dell’archivio e a quanto pare è stato impedito loro con ogni mezzo di entrarvi, anche a chi affermava di avervi lasciato effetti personali.
Con ogni probabilità, scrive ancora Népszava, citando Andras Kardos, uno dei collaboratori dell’archivio licenziati, è persino probabile che dell’azione “notte e nebbia” non sia stata informata nessuna istituzione culturale, nemmeno l’autorevole, illustre Accademia delle scienze ungherese e il suo presidente László Lovász. Agnes Erdelyi, presidente del curatorio internazionale dell’archivio di Lukács, ha detto che intende sollevare subito il problema con il presidente dell’Accademia delle scienze.
Cessa così di esistere, almeno per il momento, cancellato per volere dall’alto, uno dei più importanti archivi di studi filosofici del mondo, quello di Lukács appunto, che era accessibile agli studiosi di tutto il mondo fin dal 1972, cioè fin dalla piena epoca della Guerra fredda e precisamente al lungo periodo della blanda, tollerante dittatura comunista di János Kádár. Si dice a Budapest che il governo voglia poi riaprire la casa del filosofo come museo della sua vita, ma senza restituire al mondo quell’inestimabile patrimonio di ricerca.

Repubblica 28.5.18
La polemica
Giudizio artificiale
Scontro sui robot “ Non date agli automi i nostri diritti”
Su “Nature” 150 esperti criticano la Ue: assurdo punire le macchine che sbagliano
di Giuliano Aluffi


Non date diritti ai robot”: a ispirare a un numero crescente di esperti di intelligenza artificiale questa posizione così netta non è la cruenta rivolta dei robot contro gli oppressori umani che sta andando in onda nella serie tv Westworld, ma le preoccupazioni sul futuro concreto di auto senza guidatore e chirurghi robotici. E dei loro errori. Il dubbio è pratico: chi ripagherà i danni fatti da un robot? «Avevano la soluzione già gli antichi romani: a risarcire i danni compiuti da uno schiavo era il suo padrone» ha spiegato pochi giorni fa Luciano Floridi, docente di filosofia ed etica dell’informazione all’Oxford Internet Institute in un editoriale su Nature. «Attribuire personalità elettronica ai robot rischia di deviare la responsabilità morale e legale dei loro sbagli e usi impropri: i robot potrebbero essere biasimati e puniti invece degli umani».
La parola “personalità elettronica” usata da Floridi è in linea con la recente lettera aperta inviata alla Commissione Europea da 150 esperti di intelligenza artificiale, critici su una risoluzione del Parlamento Europeo che raccomanda, sul lungo termine, di «creare uno specifico stato legale per i robot, così che almeno i robot più sofisticati e autonomi possano avere lo status di “persone elettroniche”, responsabili di risarcire i danni causati». La necessità di questa curiosa innovazione sarebbe – motiva la risoluzione sulle norme di diritto civile sulla robotica – che in caso di robot capaci di apprendere e decidere in autonomia, sarebbe difficile far risalire le responsabilità di un reato lungo la catena di produzione.
Affermazione contestata dai 150 esperti.
È vero che più i robot si fanno antropomorfi, più diventa forte la tentazione di concedergli diritti, come il diritto a non essere spenti contro la loro volontà, o ad avere pieno accesso al proprio software e a non subire cambiamenti di software contro la loro volontà, il diritto di replicarsi e la privacy sui propri stati mentali, immaginati dal bioeticista George Dvorsky.
L’ottobre scorso, del resto, al robot umanoide Sophia di Hanson Robotics è stata concessa la cittadinanza saudita. E forte fu il cordoglio virale sulla Rete quando il robot HitchBot, nel tentativo di attraversare in autostop gli Stati Uniti, è stato vandalizzato – e decapitato – a Philadelphia. Così come tutti ricordano il disagio provato davanti al video dove un barbuto e arcigno energumeno di Boston Dynamics spingeva con un bastone il robot Atlas per farlo cadere. «Non facciamoci ingannare dai sentimenti che ci può ispirare un robot antropomorfo: dare status legale ai robot è una pessima idea», avverte Joanna Bryson, docente di intelligenza artificiale all’Università di Bath, nel Regno Unito. «L’unico motivo per cui oggi se ne discute, è perché i costruttori di robot temono di poter finire in prigione o di dover pagare i danni compiuti dai robot che vendono». E sarebbe anche un sistema inefficace per prevenire i reati. «Per avere una personalità giuridica sono necessarie la capacità di conoscere i propri diritti e la possibilità di essere soggetti alle stesse sanzioni legali applicabili agli umani. Ma, ad esempio, non ha senso punire un robot con la detenzione, perché è impossibile far sì che una Ia si preoccupi di cose come l’esclusione sociale, a cui noi umani invece teniamo moltissimo» spiega Bryson.
Questo per i doveri, e i diritti? «È vero che i robot possono essere maltrattati e abusati. Ma dobbiamo ricordarci che un robot non può sentire frustrazione o dolore a meno che non lo programmiamo esplicitamente per questo: e non c’è alcuna ragione sensata per farlo» spiega Bryson.«Anzi, dovremmo essere obbligati a costruire robot verso i quali non avere obblighi. I robot, soprattutto quelli che saranno usati come badanti per gli anziani, non dovrebbero essere antropomorfi, perché c’è il rischio che si crei un legame affettivo fasullo, nocivo sul lungo termine», conclude Bryson.

Il Sole 28.5.18
Il biotestamento alla prova di medici e notai
Mancano linee guida professionali e un Registro unico delle «Dat» - La formazione non è ancora diffusa
di Dario Aquaro e Valentina Melis


Oltre quattrocento Comuni hanno già istituito un proprio registro per raccogliere le disposizioni anticipate di trattamento (Dat). È il cosiddetto “testamento biologico”, la dichiarazione con cui il cittadino può indicare i trattamenti sanitari che desidera ricevere o rifiutare nel caso di una futura incapacità di decidere.
Da Milano a Catania, le prime nove città per popolazione hanno già raccolto 3.557 Dat. A quattro mesi dall’entrata in vigore della legge 219/2017 sul “biotestamento”, si può certo affermare che le nuove norme abbiano offerto una cornice di “garanzia” ai cittadini, portando un aumento degli atti presentati agli sportelli comunali.
Ma il bilancio sull’attuazione della legge evidenzia come ci siano ancora alcuni tasselli mancanti. In primis, l’assenza di un Registro nazionale delle Dat, utile ai medici per risalire in tempi rapidi e con vie certe alla volontà espressa dal cittadino: la legge di Bilancio 2018 ne ha previsto l’istituzione entro giugno e ha stanziato due milioni di euro, ma i tempi potrebbero allungarsi in attesa del nuovo Governo. Non solo.
Non è partita la formazione su larga scala dei medici e del personale sanitario, che dovrebbe comprendere la comunicazione con il paziente, la terapia del dolore e le cure palliative. E si attendono ancora le linee guida professionali per gli stessi medici e per i notai (chiamati, questi ultimi, a redigere le Dat se il cittadino sceglie la forma dell’atto pubblico o della scrittura privata autenticata).
Registro unico nazionale delle Dat (le disposizioni anticipate di trattamento), formazione dei medici, linee guida professionali per il personale sanitario e per i notai. Sono i tre tasselli mancanti per completare l’operatività della legge 219/2017 sul “testamento biologico”, in vigore dal 31 gennaio.
Il bilancio dei primi quattro mesi di applicazione evidenzia che nei Comuni c’è un aumento delle dichiarazioni depositate dai cittadini, ma che sul fronte dei professionisti coinvolti resta ancora molto da fare.
Oltre che per atto pubblico o scrittura privata autenticata (quindi tramite un notaio), le Dat si possono redigere per scrittura privata “semplice”, da consegnare all’ufficio di stato civile del Comune di residenza o alle strutture sanitarie, se la Regione adotta il fascicolo sanitario elettronico (Fse), o altre modalità informatiche di gestione dei dati degli iscritti, e regolamenta la raccolta delle dichiarazioni.
La cornice “rassicurante” della legge e il lavoro di informazione delle associazioni e fondazioni impegnate sul tema hanno diradato molte nebbie attorno ai cittadini interessati a indicare i trattamenti sanitari da ricevere o da rifiutare, in caso di perdita dell’autonomia di scelta. La strada della “carta semplice” e dello sportello comunale pare aver ricevuto maggiore impulso rispetto all’alternativa del ricorso allo studio notarile. «Ma mentre lo sportello comunale, come chiarito dal Viminale, deve limitarsi a ricevere il documento, il notaio offre un dialogo e una possibilità di riflessione, per questo – commenta Enrico Sironi, consigliere nazionale del Notariato – ci stiamo muovendo in collaborazione con medici e bioetici per disegnare delle linee guida e avviare un canale di confronto stabile, affinché l’atto contenente le Dat sia idoneo a documentare un’effettiva informazione medica preliminare».
Una criticità rilevante, al momento, è l’assenza di un Registro nazionale delle Dat, che – in caso di emergenza – aiuterebbe a conoscere in tempo le disposizioni lasciate dal cittadino e a individuare la persona nominata come fiduciario, per rappresentarlo nel rapporto con il medico e con le strutture sanitarie. L’istituzione del Registro è già prevista dalla legge di Bilancio 2018, che ha stanziato a questo scopo due milioni di euro. Ed entro fine giugno un decreto del ministero della Salute dovrebbe stabilire le modalità per inserire le Dat in questa banca dati. Ma i tempi, con i passaggi legati all’insediamento del nuovo Governo, potrebbero allungarsi, penalizzando così i cittadini. «In questo senso – aggiunge Sironi – abbiamo indicato al ministero della Salute la possibilità di mettere gratuitamente a servizio le strutture informatiche del Notariato, nel rispetto della privacy».
Sul fronte della formazione dei medici e del personale sanitario, che secondo le norme sul testamento biologico dovrebbe comprendere la comunicazione con il paziente, la terapia del dolore e le cure palliative, non sono state avviate iniziative su larga scala. «Siamo appena all’inizio», spiega Filippo Anelli, presidente della Federazione nazionale degli Ordini dei medici. «L’applicazione della nuova normativa non è uniforme sul territorio nazionale e siamo ancora in attesa delle linee guida del ministero della Salute. Non abbiamo un osservatorio che monitori l’attuazione della legge – continua – e sul fronte della formazione sono stati avviati per ora solo congressi».
Eppure, come puntualizza Anelli, il ruolo del medico è fondamentale, dato che alla base delle disposizioni anticipate di trattamento dovrebbe esserci il consenso informato del paziente. «Vedo il rischio di una certa semplificazione nei modelli che i cittadini possono compilare per le Dat», aggiunge il Presidente della Fnomceo. «Si può rinunciare a determinate cure barrando una serie di caselle – prosegue – ma non è prevista l’assistenza del medico nella compilazione. Questo può creare da un lato una mancanza di consapevolezza nel redigere le Dat, dall’altro una conflittualità con il personale medico in futuro».
La legge prevede che le Dat siano redatte in forma scritta, ma è ammessa la registrazione video delle volontà del paziente, se le sue condizioni fisiche non gli permettono di scrivere. Nello stesso tempo, però, è imposto che non ci siano nuove spese per lo Stato, quindi non sono stati previsti fondi per dotare le Asl e gli ospedali di strumenti che consentano di registrare e conservare questi video-documenti.
Già prima che entrasse in vigore la legge 219, nell’azienda sanitaria Toscana Sud-est, che comprende Arezzo, Grosseto e Siena, è stata avviata una collaborazione con l’ufficio del giudice tutelare, che in 24 ore consente di nominare un amministratore di sostegno per persone incapaci o minori, nel caso sia necessario prendere rapidamente decisioni su cure e trattamenti medici, in assenza di disposizioni anticipate o di un fiduciario. «Questa collaborazione, in corso da cinque anni – spiega Pasquale Macrì, direttore medicina legale della Asl Toscana Sud-est e segretario nazionale della Melco, la società interdisciplinare di medicina legale contemporanea – continuerà anche nell’applicazione della legge 219, nel caso di contrasti sull’applicazione delle Dat o sulla loro interpretazione. Il ricorso al giudice tutelare – aggiunge – è un momento non contenzioso e una forma di tutela per i soggetti più fragili».

Il Sole 28.5.18
I modelli. L’arrivo della legge ha dato impulso alle scritture presentate e alla ricerca degli schemi fai-da-te
Dichiarazioni in crescita nei Comuni
di D. Aq., V. Me.


In attesa che il gruppo di lavoro istituito dal ministero della Salute definisca contenuti e modalità della banca dati nazionale, diversi Comuni hanno già scelto di creare un proprio registro informatico delle Dat. Pur non avendone necessità, visto che sono tenuti solo a raccogliere «un ordinato elenco cronologico delle dichiarazioni presentate», assicurandone «la loro adeguata conservazione», come chiarisce la circolare 1/2018 del ministero dell’Interno.
Secondo la ricognizione (in progress) dell’Associazione Luca Coscioni, i Comuni che hanno istituito il registro sono 410: inclusi quelli partiti già prima del varo della legge 219/2017 sul biotestamento. Comuni che si troveranno favoriti quando verrà attivata la banca dati nazionale, che metterà in rete tutte le amministrazioni. «In ogni caso – sottolinea il segretario dell’associazione, Filomena Gallo – i singoli enti non possono rifiutarsi di ricevere le Dat, perché sarebbe un’omissione di atti d’ufficio».
Quanto alla forma delle dichiarazioni, la legge parla di «scrittura privata» e non indica uno schema preciso, motivo per cui alcuni soggetti impegnati sul tema (ma pure alcune amministrazioni locali) hanno predisposto dei moduli-base. «Quello dell’Associazione Luca Coscioni, realizzato con il contributo di medici ed esperti legali, da gennaio è stato scaricato 14.850 volte. Dopo il picco iniziale – prosegue Gallo – siamo su una media di 1.500 al mese».
La spinta arrivata dalla legge, insomma, si traduce anche così. La Fondazione Umberto Veronesi, che da tempo ha predisposto anch’essa un modulo ad hoc, ora ulteriormente aggiornato in virtù delle nuova normativa, ha visto 1.176 download: di cui 630 negli ultimi cinque mesi. «È importante che il modulo sia semplice e fruibile, che offra solo una traccia e sia modificabile», osserva Marco Annoni, ricercatore e segretario scientifico del Comitato etico della Fondazione. «Il cardine - continua - è infatti la possibilità di nominare un fiduciario e un suo sostituto. Da questo punto di vista pesa l’assenza di un Registro nazionale, perché in molti casi non c’è tanto tempo per decidere e il fiduciario deve essere facilmente reperibile».
Le Dat presentate ai Comuni e compilate con il fai-da-te sono dunque in crescita, come testimonia la verifica del Sole 24 Ore del Lunedì sulle principali città (tra le prime dieci per popolazione, solo Roma non ha fornito i dati richiesti).
A Milano, per esempio, dal 31 gennaio sono state raccolte 697 Dat, in confronto alle 858 ricevute dal 2013. A Genova negli ultimi quattro mesi ne sono giunte 93: un quarto di tutte quelle registrate negli otto anni precedenti. E a Bologna, dove le Dat registrate dal 2012 al 2017 sono state 264, nel 2018 ne sono finora pervenute 158: quattro volte in più rispetto all’anno scorso. Le ragioni di questa crescita? «Il contesto di garanzia offerto dalla legge e la maggior consapevolezza dei cittadini», chiosa l’assessore ai servizi demografici del capoluogo emiliano, Susanna Zaccaria.

Corriere 28.3.18
L’Antifascista in Vaticano
De Gasperi fu sempre avverso al regime nel diario criticava anche i vescovi
Gli appunti dello statista trentino tra il 1930 e il 1943, ora pubblicati dal Mulino a cura di Marialuisa Lucia Sergio, dimostrano che non si allineò alla posizione prevalente nella Chiesa cattolica, assai benevola verso la dittatura di Mussolini
di Paolo Mieli


Susciterà interesse il Diario 1930-1943 di Alcide De Gasperi, curato da Marialuisa Lucia Sergio, che è stato dato adesso alle stampe per i tipi del Mulino. Riferisce, nella prefazione, la figlia dello statista trentino, Maria Romana, che negli anni Venti, quando «il potere fascista» era agli inizi, un ex deputato del Partito popolare, Giovanni Maria Longinotti, accompagnandolo a San Pietro, aveva domandato a suo padre: «Quanto credi che durerà questo regime?». E lui, senza esitazione, gli aveva risposto: «Venti anni». Colui che nella seconda metà degli anni Quaranta e nei primi Cinquanta avrebbe guidato la ricostruzione in Italia da presidente del Consiglio, due decenni prima era stato dunque tra i pochi a non farsi illusioni circa una breve durata del regime mussoliniano. E ad azzeccare la previsione. Durante gli anni Trenta, dopo aver conosciuto il carcere, De Gasperi era stato impiegato alla Biblioteca apostolica vaticana; apparentemente si era appartato dalla politica, ma aveva preso nota di quel che andava leggendo e aveva annotato su un taccuino incontri, conversazioni, riflessioni. Taccuino che adesso viene pubblicato nella sua integrità e con il corredo di un apparato scientifico (a cura della Sergio) davvero eccellente. Con il risultato, scrive Marialuisa Lucia Sergio, di far emergere quanto fosse in errore «la storiografia costruita sul paradigma togliattiano della fondamentale adesione di De Gasperi alla posizione della Chiesa che non rifiutava in blocco il fascismo e non ne condannava i connotati antidemocratici». Viene così smentito «il luogo comune di un De Gasperi in stato d’isolamento, relegato al catalogo stampati della Biblioteca apostolica vaticana, o — al contrario — di un protégé dell’autorità ecclesiastica». De Gasperi, come emerge nitidamente dal diario, non fu né una cosa né l’altra.
Il politico di Pieve Tesino all’epoca in cui iniziò a scrivere il diario era già adulto: un uomo che dai 49 anni fino ad oltre i sessanta dovrà «arrangiarsi con lavori modestissimi», ha notato Alberto Melloni. Ma aveva una notevole esperienza politica alle spalle: era stato un parlamentare di rilievo del Partito popolare ed aveva raccolto l’eredità di don Sturzo quando, nel 1924, quest’ultimo era stato costretto ad emigrare. Nell’estate di quello stesso 1924, dopo l’uccisione di Matteotti, all’epoca dell’Aventino aveva caldeggiato un’alleanza con i socialisti di Filippo Turati e per questo era stato duramente redarguito dall’organo dei gesuiti, «La Civiltà Cattolica». Il suo riferimento era stato all’epoca il partito Zentrum tedesco del teologo Heinrich Brauns. In ciò sostenuto dal nunzio apostolico a Berlino Eugenio Pacelli (futuro Papa Pio XII) che nel 1925, proprio al fine di non destabilizzare lo Zentrum, aveva sconsigliato al pontefice Pio XI di pronunciarsi apertamente contro il socialismo (salvo poi doversi scusare con il capo della Chiesa indispettito per quella sollecitazione). Successivamente De Gasperi è presente all’ultimo congresso del Partito popolare (giugno 1925), subisce lo scioglimento del partito (novembre 1926), viene rinchiuso a Regina Coeli per un presunto tentativo d’espatrio clandestino (a Trieste).
Uscito di prigione, De Gasperi giustifica i Patti lateranensi del 1929, ma solo perché chiudono una volta per tutte la «questione romana». Spesso, soprattutto nel 1931 al momento del contrasto tra fascismo e Azione cattolica, si trova ad essere polemico con Giuseppe Dalla Torre direttore dell’«Osservatore Romano» per quelli che considera come «cedimenti al regime». Regime che lo tiene d’occhio e in più di un’occasione chiede a Pio XI di intervenire per metterlo in riga. Finché il Papa, proprio nel 1931, trasmette a Mussolini il seguente comunicato: «Il S. Padre non si pente e non si pentirà di aver dato ad un onesto uomo e onesto padre di famiglia un poco di quel pane che voi gli avete levato. Dell’azione antifascista di lui risponde il S. Padre; tanto è sicuro che non farà nulla di meno censurabile a questo riguardo». In quello stesso anno — se ne trova conferma nel diario — Pio XI ha frequenti scatti contro il regime mussoliniano. Contro il «negoziatore», padre Pietro Tacchi Venturi: il Papa gli avrebbe risposto battendo il pugno sul tavolo per poi esclamare «Mussolini è il demonio!». E contro padre Agostino Gemelli che gli propone di stringere un rapporto con il fratello del Duce, Arnaldo Mussolini (il quale morirà alla fine del 1931): «Quegli è Tartufo», avrebbe detto il Pontefice. Non mancano, nelle annotazioni degasperiane, giudizi poco lusinghieri (ancorché riferiti a terzi) nei confronti dello stesso Tacchi Venturi — «fuori dei libri non capisce niente»; «accetta cospicue elemosine per messe» — o di qualche eminente prelato come monsignor Enrico Pucci, definito «figura miserabile».
«L’Osservatore Romano», a suo avviso, è eccessivamente corrivo, nel 1932 con le celebrazioni del decennale della marcia su Roma; «rifrigge incontrollate affermazioni sul crocifisso nelle scuole». C’è una reazione indignata a padre Gemelli che ha accompagnato gli studenti della Cattolica ad una Mostra della rivoluzione fascista al Vittoriano e ha reso omaggio al re e al Duce. De Gasperi, nota Marialuisa Lucia Sergio, «censisce gli interventi più plateali dei vescovi locali a favore del fascismo». De Gasperi se la prende con l’arcivescovo di Napoli, cardinale Alessio Ascalesi, che nel settembre del 1932 ascrive alla protezione divina l’invulnerabilità di Mussolini di fronte ai vari attentati contro la sua persona, a suo dire investita di un’ «alta missione» per il bene del «mondo intero». È infastidito dall’amministratore apostolico della diocesi di Velletri, monsignor Giuseppe Marrazzi, il quale ricorda di essere stato tra coloro che applaudivano in piazza all’epoca della marcia su Roma e sostiene essere Mussolini un «uomo mandato da Dio». E anche dall’arcivescovo di Torino, cardinal Maurilio Fossati, che parla del Duce come di qualcuno «messo da Dio a reggere questa nostra cara Patria, con saggezza, prudenza e fortezza».
Secondo De Gasperi, né Pio XI né il cardinal Pacelli gradiscono le manifestazioni di consenso al fascismo tant’è che, nel maggio del 1933, Pacelli interviene per correggere il discorso d’ insediamento del nuovo arcivescovo di Firenze Elia Dalla Costa perché eccessivamente filofascista. Allo stesso modo viene mal considerato un intervento del cardinale Schuster al Duomo di Milano nell’ottobre 1935. All’epoca della guerra d’Etiopia poi le lodi degli alti prelati alla missione civilizzatrice del fascismo si moltiplicano mettendo in imbarazzo la Santa Sede. De Gasperi riferisce di una confidenza di Bernardo Mattarella secondo cui l’arcivescovo di Palermo Luigi Lavitrano nel settembre 1935 avrebbe ricevuto dal Papa la seguente ingiunzione: «Tacere, tacere, tacere!».
Tutti questi cedimenti della Chiesa al regime provocano a De Gasperi acuta sofferenza. Come quando nel 1932 le suore della scuola Pio X a cui sono iscritte due sue figlie pretendono che le ragazze prendano la tessera del Partito fascista: lui non accetta e le sposta all’Istituto francese delle suore di Nevers («lacrime», appunta sul diario). Nel 1934 annota sconsolato: «L’adattamento ha fatto passi da gigante. Nessuno si pone più la domanda di nuovi o possibili rivolgimenti. Lo stato d’animo di opposizione va tramutandosi in rassegnazione». Nell’inverno del 1935 scrive delle «grandi umiliazioni sofferte» e aggiunge: «Se un giorno le mie figliuole leggeranno queste righe, sappiano che ho sopportato soltanto per la famiglia e per loro».
Pio XI, però, nelle pagine del diario degasperiano resiste (e con lui il cardinale Pacelli) a questo «codinismo» dei vescovi e della stampa cattolica. «Sì, sì, il fascismo è il nemico», avrebbe detto il pontefice dispiaciuto perché l’arcivescovo di Firenze Dalla Costa aveva «esagerato in prudenza»: «non mi stanco di ripeterlo da mesi a quanti lo vogliono sentire».
Però il Papa delude De Gasperi per il rifiuto di appoggiare lo Zentrum tedesco ancora all’inizio degli anni Trenta che vedono l’avvento di Hitler al potere (1933). Qui, nota la Sergio, De Gasperi salva solo Pacelli, che detta all’«Osservatore Romano» una nota in difesa del partito cattolico centrista. Nota che però, a limitarne l’effetto, compare sul giornale della Santa Sede «come corrispondenza da Karlsruhe». E, in quanto tale, anonima. Pio XI avrebbe detto in quei giorni: «Hitler è il primo e unico uomo di Stato che parla pubblicamente contro i bolscevichi. Finora era stato unicamente il Papa». De Gasperi che pure da giovane era stato affascinato dal cristianesimo sociale (e antisemita) di Karl Lueger appare sconcertato e segnala la «meraviglia» del cardinale Michael von Faulhaber per la circostanza «che nei circoli ecclesiastici di Roma si comprendesse così poco la perniciosità del movimento hitleriano». Secondo voci riferite da De Gasperi, Pio XI avrebbe confidato all’ex cancelliere della Repubblica di Weimar Heinrich Brüning la propria intenzione di condannare sia il fascismo che il nazismo (quasi un’anticipazione dell’enciclica Mit Brennender Sorge). Ma Brüning, come nota la Sergio, non menziona quest’episodio nelle proprie memorie pubblicate nel 1977.
Quando nel 1938 la Germania nazista annette l’Austria, De Gasperi annota il proprio stupore al cospetto di una dichiarazione dell’episcopato austriaco in favore dell’intervento hitleriano. E condivide questa sua ansia con «il solo cardinale Pacelli» e con Montini (futuro Papa Paolo VI) che gli confida: «Così va perso il senso della Chiesa!». Poi, nel 1938, scrive che Pio XI avrebbe avuto parole di fuoco sia contro Mussolini che contro Hitler.
Secondo la Sergio il diario di De Gasperi «non ci consegna alcun verdetto su Pio XI». Trattandosi di «annotazioni giornaliere, con un carattere di spontaneità e di immediatezza», esse «hanno il vantaggio di accompagnare il lettore l’ungo l’itinerario del pontificato di Papa Ratti senza la tentazione di tracciare una linearità prestabilita che razionalizzi la complessità di quell’epoca storica riportandola a uno schema interpretativo». Ciò che da queste pagine sembra emergere con chiarezza «è piuttosto l’identikit della vittima del conflitto regime-Chiesa, ossia un laicato cattolico posto nella condizione quotidiana di dover chiedere alla gerarchia il permesso di pensare».
Poi verranno il pontificato di Pio XII, la Seconda guerra mondiale e, a seguito dell’intervento degli Stati Uniti nel conflitto (fine 1941), De Gasperi riprende fiducia. Anche se compare qualche sconsolata allusione alla sua anzianità (l’uomo aveva all’epoca poco più di sessant’anni): «Inverno lungo, 1941-1942; per la prima volta sento gli attacchi dell’età e mi spavento degli anni, perché tutti, parlando d’altri sessantenni, dicono spesso: è un uomo finito, troppo vecchio». Accenna anche a un «esaurimento nervoso che mi durava da quindici giorni», ma subito si rinfranca: «Va migliorando con iniezioni, uova, riposo». Si compiace di alcune (riservate) prese di posizione di Pio XII ostili a Hitler, nota che il cardinale Pacelli fin dal 1942 è favorevole ad una soluzione repubblicana dal momento che non ha alcuna fiducia in casa Savoia. Si accorge che lo stesso Pacelli in qualche modo protegge l’amendoliano Meuccio Ruini. Adesso, avvicinandoci al 1943, De Gasperi non è più un isolato, anzi è l’uomo cardine della ricostituzione politica postfascista e antifascista. Nello stesso tempo si comprende come ritenesse già allora indispensabile, osserva Marialuisa Lucia Sergio, «l’alleanza con i partiti laici, indipendentemente dalla maggioranza di governo, come condizione per impedire al Paese fratture di tipo confessionale e per resistere alle pressioni della destra cattolica». Pagine preziose che contengono una lezione su come sia possibile mettere a frutto gli anni in cui si è costretti alla marginalità e al silenzio per riproporsi in tempi migliori come fulcro di un grande rinnovamento politico.