Repubblica 28.5.18
Corsi e ricorsi
Precedenti storici
Noi, turisti a Weimar aspettando la fine
Berlino 1993-1923
Sono gli anni della Repubblica più avanzata ma anche della grande crisi economica
Artisti e intellettuali trovano una patria
Subito dopo l’Europa piomba nella catastrofe
di Massimo Rizzante
L’epoca
della cosiddetta Repubblica di Weimar (1918-1933), che prende il nome
dalla città di Goethe – dove nel 1919 fu approvata la Costituzione che
istituiva un Parlamento eletto con sistema proporzionale e voleva un
presidente scelto direttamente dal popolo – si sviluppa tra la fine del
Reich guglielmino, sconfitto e umiliato dal trattato di Versailles,
attraverso la grave inflazione del 1920 e la Grande Depressione del
1929, che provocò sei milioni di disoccupati, fino all’ascesa al potere
del nazionalsocialismo. È in questo contesto, in cui nacquero e furono
soppresse le Repubbliche comuniste dei Consigli e si organizzarono i
putsch di destra a Berlino e a Monaco (dove Hitler fu arrestato nel 1923
e condannato a cinque anni), che bisogna leggere il succedersi delle
nove consultazioni elettorali dal 19 gennaio 1919 al 15 marzo 1933. Ma
Weimar non rappresentò solo conflitto politico e instabilità economica.
Fu il più grande periodo della cultura tedesca del XX secolo:
dall’Espressionismo al teatro di Brecht, Piscator e Reinhardt, dalla
musica dodecafonica di Schönberg alla Bauhaus di Gropius, dal cinema di
Fritz Lang alla pittura di Klee, Dix e Grosz, dalla Neue Sachlichkheit
ai romanzi di Döblin e a quelli della famiglia Mann. Berlino ne fu il
palcoscenico, dove gli attori non erano solo tedeschi, ma venivano da
tutta Europa: dalla Svizzera (Robert Walser), dalla Francia (Yvain Goll,
Jean Giraudoux, René Crevel), dall’Italia (Pirandello, Marinetti,
Borgese, Rosso di San Secondo, Alvaro), dall’Inghilterra (il trio di
amici Isherwood, Spender, Auden), dalla Russia (Belyi, Sklovskij,
Nabokov, Gorkij, Majakovskij) dall’Europa centrale (Kafka, Roth,
Canetti). Molti di loro erano ebrei. Berlino città d’altri (Neri Pozza),
titolo dell’ultimo saggio di Luigi Forte, germanista di lungo corso,
disegna un panorama ricco di nomi e sfumature della cultura tedesca
dell’epoca. Ma soprattutto mette in luce il contributo che molti
intellettuali, scrittori e artisti di altri paesi diedero nel dipingere
l’atmosfera berlinese «ruggente e cosmopolita» di quegli anni che
coincisero con la metamorfosi della città da vecchia provincia imperiale
a simbolo, dopo la Parigi “capitale del XIX secolo”, della modernità.
Se Baudelaire fu il grande annunciatore dell’individuo alle prese con il
contingente e il transitorio dell’esperienza moderna, i pensatori e gli
artisti dell’epoca di Weimar furono i fenomenologi più acuti – e
tutt’ora insuperati – del nostro modo di vivere: radicato «nell’economia
del denaro, nel carattere di massa, nel livellamento dell’esistenza»,
ma anche «in un’inquietudine e in una nostalgia che si affiancano alla
consapevolezza della fugacità e all’eterno divenire». Simmel, Benjamin,
Bloch, Kracauer, non meno di autori oggi poco frequentati come Hans
Oswald, Egon Erwin Kisch ed Erich Kästner gettarono, alle prime luci
della modernità, il loro sguardo tragico e irriverente su una città dove
le meraviglie del progresso e la degradazione delle relazioni umane,
frutti entrambi della Zivilisation, non erano più distinguibili. Si
scopriva che tutto ciò che sembrava inconciliabile fino a un decennio
prima, ora poteva coesistere e che l’arte se non poteva del tutto
arrendersi a un mondo sociale in preda a quella che Broch chiamava in
quegli anni «disgregazione dei valori», allo stesso tempo, come
Baudelaire aveva annunciato, non poteva neppure sottrarsi all’obliquo
splendore delle merci.
Come essere umani in un mondo di merci?
Come esplorare artisticamente un mondo di merci? Tutti, intellettuali
tedeschi ed europei, nomadi e stanziali, ebrei e goijim, di sinistra e
di destra, politici e impolitici cercarono, attraverso la topografia
reale e immaginaria di Berlino di trovare una risposta. Ci fu chi, come
scrive l’autore del libro, fu «sedotto e abbandonato» dalla città (Kafka
e Walser). Chi ne fece un trampolino di lancio (Nabokov). Per molti,
autoctoni o turisti (Turismo intellettuale nella Repubblica di Weimar è
il sottotitolo del libro di Forte), Berlino fu «una vera scuola dei
sensi e dell’istinto storico». E, aggiungerei, una scuola di
provvisorietà, in cui, come afferma Fabian, il protagonista dell’eponimo
romanzo di Erich Kästner, gli abitanti di Berlino si ritrovavano
costantemente in una sala d’aspetto chiamata Europa senza sapere cosa
sarebbe successo. Non potevano che esclamare: «Viviamo alla giornata, la
crisi non finisce mai!». La crisi alla fine terminò con l’avvento del
nazismo e molti di coloro che aspettavano l’Europa si ritrovarono a
essere perseguitati e condannati dal Terzo Reich, mentre le loro opere,
contrarie ai modelli estetici nazionalsocialisti imposti da Hitler,
venivano bruciate. Si parlò di Entartete Kunst (arte degenerata)… Walter
Laqueur in conclusione al suo classico saggio La repubblica di Weimar
(1974) afferma che «tutti i periodi storici infausti hanno qualche
tratto comune, come l’hanno tutti i matrimoni mal riusciti». Forse per
questo si sente ripetere che il nostro presente ha diversi tratti in
comune con quell’epoca. Tuttavia, sembra che oggi sia l’Europa intera a
stare seduta in una camera d’attesa, rinviando ogni dovere, impaurita
dall’inferno che la circonda, in un limbo. Dell’epoca di Weimar abbiamo
conservato solo il senso di provvisorietà di fronte a una crisi eterna:
«Viviamo alla giornata!». Non sembra, infatti, che le nostre metropoli
rappresentino, come quella Berlino, una “scuola dei sensi” e
dell’“istinto storico”. Il nostro è un altro turismo, è un altro
declino, a cui non corrisponde l’esplosione artistica di Weimar, e dove
le parole di Ernst Bloch, che affermava che «la contemporaneità non è
niente se non supera ciò che è contemporaneo», stentano a risuonare.