Repubblica 25.5.18
Donne sospese tra due mondi
Islam a testa bassa
La
vita delle ragazze musulmane, cresciute in Italia ma costrette a
fronteggiare le loro famiglie, pronte alla violenza per imporre la
tradizione: dai vestiti fino ai matrimoni combinati.
Una sfida che può avere un prezzo altissimo. Che però molte riescono a vincere. Ecco le loro storie
di Francesca Caferri
Già
da piccola, Alison non amava i vestiti lunghi. «È uno dei miei primi
ricordi. Con la mamma andavamo dal sarto e gli chiedevo di accorciare i
miei shalwar kameez, le lunghe tuniche che in Pakistan donne e bambine
indossano sopra i pantaloni. Lui diceva sempre che avevo un bel
caratterino, poi ci mettevamo tutti a ridere e mi accorciava gli abiti.
Ero una bambina, mi lasciavano fare». Afgana, gli occhi a mandorla
tipici degli hazara, la minoranza sciita del Paese, Alison, 20 anni,
parla dell’infanzia senza troppi rimpianti. «Ricordo solo Peshawar: era
orribile». Come tanti altri afgani in fuga dalla guerra visse anni nel
limbo della città pachistana approdo di migliaia di profughi: poche
scuole, pessimi servizi, razzismo.
Cui si aggiunse la morte del
padre: non stupisce che non abbia voglia di ricordare: «La mia vita,
quella vera, iniziò quando avevo 12 anni e con mamma venimmo in Italia
per raggiungere mio fratello». Alison non poteva di certo immaginare che
da quel momento la passione per gli abiti le sarebbe quasi costata la
vita. «Arrivai nel 2010. Portavo il velo e lo shalwar kameez: quando
vidi le ragazze italiane, i loro vestiti colorati e i capelli al vento
tutto mi parve bellissimo. E iniziai a sognare: volevo studiare,
lavorare, avere la mia macchina un giorno. Come loro». Lentamente, la
ragazzina prese a portare i jeans insieme al velo e ad uscire con le
amiche. Cambiamenti innocui, che però non sfuggirono al fratello:
«Cominciò a farmi il lavaggio del cervello. Dovevo portare il velo,
pregare e non mettere piede fuori di casa da sola». Passarono anni
carichi di tensione: quando Alison iniziò a lavorare la situazione
esplose: «Mi disse che mi dovevo sposare, che non potevo vivere così. Ma
io non facevo niente di male: non frequentavo nessun ragazzo, nessuna
cattiva compagnia. Lavoravo e basta. Provai a parlare con mia madre, ma
lei non diceva nulla. A mio fratello consentiva tutto: l’alcool, le
droghe. Due o tre volte prese il coltello e disse che voleva ammazzarmi:
mi misi tantissima paura. Poi una sera tornai in ritardo dal lavoro:
lui era fuori di sé, mi disse che mi avrebbe rispedito a Kabul per farmi
sposare. O che mi avrebbe bruciata viva: era pronto a farlo, era solo
questione di tempo, glielo lessi negli occhi. Il giorno dopo presi il
telefono, i pochi soldi che avevo, lo zaino e invece di entrare a scuola
andai via, con l’aiuto di una assistente sociale.
Avevo appena compiuto 19 anni. E non sono più tornata».
Il
destino a cui Alison (il nome è di fantasia) fuggì quella mattina
avrebbe potuto essere simile a quello di altre donne e ragazze di fede
musulmana nate o cresciute in Italia che per ragioni simili a quelle di
questa giovane afgana sono state punite, a volte con la morte: Hina
Salem, 21 anni, origini pachistane, accoltellata nel 2006 dal padre a
Sarezzo, in provincia di Brescia, per punirla di uno stile di vita
troppo indipendente.
Begm Shnez, pachistana, 46 anni, uccisa a
bastonate a Novi di Modena nel 2010 per aver cercato di difendere la
figlia da nozze combinate. Sana Cheema, cittadina italiana di origine
pachistana sgozzata qualche settimana fa da padre e fratello, in una
vicenda ancora piena di punti da chiarire. O Jessica – un altro nome di
fantasia – ventenne arrivata a Roma quando aveva pochi mesi e cresciuta
qui, oggi tenuta prigioniera a suon di botte e frustate a Dacca, in
Bangladesh, dalla famiglia che non vuole che torni in Italia: su
Facebook posta le foto dei lividi e disperate richieste di aiuto, ma
finora nessuno è riuscito a fare nulla per lei.
LE storie di
queste ragazze non sono certo una fotografia esaustiva dell’Islam
italiano: una comunità composta, fra l’altro, da migliaia di giovani che
studiano, lavorano e vivono senza problemi in questo Paese, spesso da
cittadine. Ma sono un angolo della fotografia: quello che racconta della
parte minoritaria della comunità che fatica ad integrarsi in una
società con regole diverse da quelle a cui è abituata. Così, se è
sbagliato puntare il dito contro un intero gruppo, è un fatto che negli
ultimi anni il fenomeno delle violenze, anche mortali, contro le donne
di religione musulmana sia arrivato sotto i riflettori anche qui. «Il
problema è molto più esteso di quanto non si creda», sostiene Tiziana
Del Pra, presidente dell’associazione Trama di Terre di Imola, che si
occupa di sostegno alle donne vittime di violenza. « Le bambine arrivate
quando l’onda migratoria era al picco sono diventate grandi. Tante
altre sono nate qui. Sono ragazze diventate adulte in un Paese che non è
quello dei genitori, dentro a una cultura diversa, con sogni differenti
da quelli delle madri o dei padri. Non tutti sanno accettarlo».
Secondo
gli ultimi dati, in Italia ci sono circa 150mila musulmani fra i 15 e i
24 anni: più di 300mila sono gli under 15. La metà sono ragazze. «È
impossibile dire quante di loro entreranno in conflitto con la famiglia.
Tantomeno capire che risposta potranno avere questi conflitti: dipende
dalle famiglie, dai Paesi di origine, dal modo in cui si è inseriti
nella comunità qui in Italia», spiega Renata Pepicelli, docente di
Storia dei Paesi islamici all’università di Pisa e una delle maggiori
esperte della questione in Italia. « Non si può generalizzare, ma è un
dato di fatto che le Seconde generazioni oggi pongano delle questioni.
Siamo di fronte a giovani donne piene di sogni, di speranze e di
aspirazioni: che risposte troveranno?».
Le aspirazioni di cui
parla Pepicelli hanno diverse facce, ciascuna potenzialmente portatrice
di tensioni: proseguire o no lo studio, indossare o meno il velo, quali
luoghi e quali compagnie è lecito frequentare, chi scegliere come
compagno di vita. Una risposta univoca su questi temi non c’è, neanche
nei Paesi di origine: il Marocco non è il Pakistan, il Bangladesh non è
l’Egitto, solo per citare i luoghi di provenienza di alcune fra le
comunità più numerose. E anche lì la vera questione non è tanto la
religione — che sulle donne dice molte cose e molto diverse, anche
all’interno dello stesso Corano — quanto il modo in cui viene
interpretata: la tradizione, dunque. Ma è innegabile che in alcuni casi a
queste domande nelle società di origine degli immigrati musulmani si
diano risposte considerate inaccettabili nel mondo occidentale. E che
spesso la diaspora complica ulteriormente il quadro, spingendo le
comunità a chiudersi in se stesse per paura di perdere la loro identità.
«Dici
che la mia voce è haram (proibita ndr) perché ti eccita. Ma forse sei
tu quello che ha bisogno di calmarsi, forse sei tu quello che ha bisogno
di rileggersi il Corano. Io ho il velo in testa: tu sei l’assetato, tu
sei l’eccitato, tu nel tuo completo da signore importante. Pensi che
solo tu puoi dirmi cosa fare. Pensi che solo tu sai cosa è giusto: ma
sei solo un cane», canta in Dog (Cane), singolo da milioni di hit su
YouTube, Mona Haydar, 28 anni, rapper siriano-americana, velata e
femminista: uno dei simboli di una generazione di ragazze poco disposte a
sentirsi dire in silenzio cosa dovrebbero e non dovrebbero fare.
Una nuova vita
Dal
giorno in cui si è chiusa la porta di casa alle spalle, tutto nella
vita di Alison è cambiato. Ha lasciato la città dove viveva, non ha
potuto dire a nessuno dove si trova né contattare la famiglia. Le
operatrici cui è stata affidata le hanno tolto il cellulare: il rischio è
che in un momento di debolezza possa inviare un messaggio, fare una
telefonata o postare sui Social network una foto che faccia capire dove
si trova. Allora l’incubo tornerebbe: « Mio fratello vuole ancora
uccidermi, ne sono certa — dice mentre si tormenta le mani — ogni volta
che prendo il treno ho paura di trovarmelo davanti». Incontriamo Alison
in un luogo segreto: a prima vista sembra una ragazza come tante, ma
appena parla il suo bagaglio di dolore torna a galla: « Vorrei sentire
mia madre, spiegarle: ma non posso chiamarla. Ho scritto una lettera
alla mia migliore amica: solo per dirle che non deve preoccuparsi per
me. Spero glielo abbia detto».
Oggi Alison vive con una famiglia
italiana. Con il nome falso, è tornata a scuola: i nuovi amici non sanno
nulla della sua storia. «Quando guardo la famiglia in cui vivo e la
normalità del loro affetto, come si parlano, come si trattano, mi torna
in mente tutto. E sono triste. Ma poi penso ai pigiama party, che avevo
tanto sognato nella mia vecchia città e a cui ora posso andare: sono
bellissimi!». Non fa in tempo a terminare questa frase che le lacrime le
salgono agli occhi.
A passarle un fazzoletto è una ragazza poco
più bassa di lei, vestita in jeans e maglietta, con lunghi capelli neri.
Per raccontare la sua storia sceglie il nome di Zoya: come Alison è una
fuggitiva, come lei ha scelto un nome falso per parlare con noi. Fino a
qualche mese fa le due non si conoscevano nemmeno: ma il fatto di
condividere la stessa sorte le ha unite al di là dei caratteri diversi.
Anche
Zoya ha vent’anni: nata in Pakistan, è arrivata a Roma quando ne aveva
tre. È una ragazza sveglia, si capisce subito, e non c’è da dubitare
quando dice che sin dai primi giorni di scuola ha capito di essere
diversa dalle altre bambine. « Ero costretta a indossare il velo e gli
abiti pachistani, non potevo giocare con i maschi né uscire: nessu na
festa, nessun parco giochi — racconta — Non facevo che chiedere perché a
tutti: maestre, bidelle, amici».
Jeans strappati, unghie laccate,
voce decisa, Zoya ha un look da ribelle: o forse solo da una che è
diventata brava a mascherare quello che ha vissuto. «Ho preso tantissime
botte. Sono cresciuta in un clima di oppressione: se infrangevo le
regole mi picchiavano, minacciavano di uccidermi, di darmi fuoco. Ma non
non mi sono mai arresa: odiavo essere presa in giro per i miei vestiti,
volevo essere libera».
Dai sei anni in su, la sua vita è tutta
uno stratagemma: un trucchetto per poter restare fuori un po’ di più, un
altro per fare quello che fanno le altre ragazzine. Essere brava a
scuola è fondamentale: le fa conquistare un po’ di spazio, qualche
libertà in più. E a 15 anni, in un momento di gloria scolastica, un
cellulare. «Me lo comprò mio padre — racconta — mio fratello lo
controllava ogni sera, ma i nomi degli amici maschi erano salvati al
femminile e i messaggi cancellati. Così nessuno poteva dirmi nulla. Non
si accorsero neanche quando mi iscrissi a Facebook: passavo dal motore
di ricerca e cancellavo la cronologia » . Sul Social network Zoya
incontra un ragazzo di origini pachistane che abita in Italia: iniziano a
parlare, a flirtare, poi lui prende un treno e va a trovarla. La loro
storia inizia quel giorno. «Veniva quando poteva: io fingevo di andare a
scuola, ma passavo la giornata con lui. Durante una di queste fughe
incontrai mia cugina: quella che rispettava sempre le regole, era devota
e veniva additata ad esempio per tutte noi. Anche lei era in giro con
il suo fidanzato clandestino, un ragazzo che mai la nostra famiglia
avrebbe accettato. Le dissi che se non mi copriva avrei detto tutto agli
zii. Da allora tutto fu più semplice: mia madre era felice che passassi
del tempo con lei, pensava che mi avrebbe fatto bene. Invece quando
uscivamo lei era con il suo fidanzato e io con il mio».
La vita di
Zoya andò avanti così per anni, fino all’appuntamento che nella vita di
altre ragazze, per ultima Sana Cheema, si è rivelato decisivo: una
vacanza nel Paese di origine, il Pakistan per entrambe. Lì la giovane si
trova di fronte ad un matrimonio organizzato dalla madre: uno zio che
arriva a casa con il cugino per chiederla in sposa e un corredo che
conteneva « tutte le cose bellissime che mia madre non mi aveva mai
comprato: trucchi, gioielli, abiti » . Zoya disse no, davanti a tutti,
in modo plateale. «Mi presentai di fronte a mio zio senza velo e senza
trucco. Presi a urlare contro mia madre. Fu un dramma: lei mi diede due
schiaffi e mi trascinò in camera. Mi conficcò le unghie nel viso. Mi
picchiava e gridava: “ Parla, parla! Se c’è qualcuno ti ammazzo”. Quando
venne a sapere del mio fidanzato prese un bastone e iniziò a picchiarmi
così forte che alla fine il bastone si spezzò. Avevo sangue sulla
schiena, non riuscivo a muovermi, ma lei prese un altro bastone e
ricominciò. Nessuno faceva nulla. Mio fratello di dieci anni pur di
fermarla mi si gettò addosso. Lei lo colpì e lui svenne: dovettero
portarlo in ospedale. Solo così la violenza cessò. Anche io avrei dovuto
essere curata, ma mi rinchiusero in camera per una settimana. Quando la
porta si aprì mia madre mi disse che ero la vergogna della famiglia.
Che avrei dovuto sposare subito il mio fidanzato visto che era chiaro
che non ero più vergine. E che comunque per lei ero morta. Io ero
vergine: provai a dirlo, ma lei non volle neanche ascoltarmi. Alla fine
celebrammo le nozze per procura: lui era in Italia, io in Pakistan. La
famiglia di mia madre si presentò in lacrime e vestita di nero ».
Il
rientro in Italia non fu semplice: dopo qualche mese di serenità il
matrimonio si trasformò in un incubo fatto di violenza e di tradimenti.
Senza possibilità di chiedere aiuto alla famiglia, Zoya fuggì. Solo
l’incontro fortuito con una ufficiale di polizia le permise di entrare
nello stesso percorso di accoglienza che ha salvato Alison.
Come
la sua amica, ha cambiato tutto. E come lei sta cercando di ricostruirsi
la vita con un nome falso e in una città lontana. Ma le conseguenze
delle sue scelte non le danno pace. « Nessuno nella mia famiglia ha
davvero capito perché ho fatto quello che ho fatto, nessuno ha ragionato
sugli errori che hanno commesso. Mia sorella, che ha 12 anni, ha
qualche libertà più di me. Non è obbligata ad indossare abiti
pachistani, per esempio. Studia moltissimo, vorrebbe diventare
dottoressa: ma mia madre l’ha già fidanzata con il fratello minore del
cugino che avrei dovuto sposare io, per cancellare l’onta. E le dice
sempre che se la scopre a parlare con dei ragazzi la farà infibulare.
Lei mi chiama disperata, è in trappola: e io non so come aiutarla. Mia
cugina è stata scoperta e rispedita in Pakistan: non è mai più tornata».
È
solo a questo punto che la voce di Zoya si incrina: lo smalto sulle
unghie è rovinato, da quando ci siamo sedute non hai mai smesso di
giocarci. « Dicono che l’Islam impone tutte queste regole ma non è così.
L’Islam dice che non puoi forzare tua figlia a sposare una persona
senza il suo consenso. L’Islam non dice che le donne sono merce. Io sono
orgogliosa di essermi ribellata, di aver lottato. C’è stato tanto
dolore, ma spero che mia sorella possa avere una vita più facile della
mia».
Alison e Zoya sono un’eccezione: protette dalla promessa di
non rivelare dove vivono e chi le ha aiutate, hanno accettato di
raccontare la loro storia. Ma trovare donne disposte a parlare per
questa inchiesta è stato difficilissimo. Come la maggior parte delle
vittime di violenze e di soprusi in qualunque parte del mondo, le
musulmane italiane preferiscono rimanere in silenzio. Per paura e anche
per solitudine. È un silenzio comune a tante donne abusate, qualunque
religione pratichino, in qualunque Paese vivano. Una realtà che in
Italia, dove i tassi di violenza sulle donne sono altissimi, conosciamo
bene. Ma è anche una realtà che in questo caso si carica di un peso
maggiore, quello legato alla religione e allo stigma che — a torto —
l’Islam si porta dietro. « Avrei voluto morire piuttosto che esporre la
mia famiglia alla condanna pubblica. Anche quando mi picchiavano — ha
detto una ragazza di origine siriana — non avrei sopportato un solo
sguardo in più su di loro: ci giudicano già abbastanza perché siamo
musulmani, perché mamma è velata».
Più delle italiane doc dunque,
le figlie della migrazione rischiano di sentirsi sole: per questo anche
quelle di loro che a un certo punto trovano il coraggio di denunciare
rischiano di non farcela, di tornare indietro. È quello che è accaduto a
Nosheen, 28 anni, che otto anni fa vide la madre massacrata a colpi di
bastone a Novi di Modena perché voleva salvarla da nozze combinate. Quel
giorno anche lei fu ferita gravemente: ma dopo i due processi in cui
padre e fratello sono stati condannati è rientrata nella comunità con
cui aveva tagliato i ponti.È tornata a indossare il velo che aveva tolto
uscita dall’ospedale e ha chiuso i rapporti con l’avvocato che l’aveva
rappresentata.
In un contesto così difficile, gli “angeli
custodi”, le figure incontrate lungo il percorso che offrono sostegno e
aiuto alle ragazze, hanno un ruolo fondamentale. Naima Daoudagh è una di
loro: in 17 anni di lavoro non ricorda neanche quante donne ha aiutato.
«A un certo punto ho smesso di contare » , dice di fronte a un caffè
nella sua Brescia. « Alcune neanche le conosco di persona. Ricevo
telefonate dalla Calabria, dal Veneto, dal Piemonte. Io faccio quello
che posso: ma il passo più grande, dire basta, spetta a loro».
Nata
in Marocco, Naima è arrivata in Italia quasi 30 anni fa, quando ne
aveva 16. «Eravamo i primi marocchini a stabilirsi in Sardegna — ride —
ci guardavano come qualcosa di raro. Ma furono tutti molto gentili » .
Qui si è trasferita nel 1995, per seguire il marito, bresciano doc. Dopo
poco ha iniziato a lavorare come mediatrice transculturale, poi si è
specializzata nell’ambito sanitario e ha cominciato a lavorare in
ospedale. «Ho aiutato a partorire donne con mutilazioni genitali.
Assistito signore che hanno abortito a causa delle botte ricevute dai
mariti. E tenuto per mano adolescenti con il naso e le costole spaccate
da padri- padroni che le picchiavano per punirle di uno stile di vita
“troppo occidentale”. Quando dico che siamo di fronte a un problema in
aumento parlo per esperienza. C’è una questione aperta nella comunità
musulmana in Italia oggi. Nei Paesi di origine delle migrazioni si
discute sull’interpretazione storica del Corano, di come sposare le
regole della religione e quelle della vita contemporanea: qui non si
parla, e chi solleva questi temi viene accusato di offrire il fianco
agli islamofobi».
Più si passa del tempo con Naima più diventa
chiaro che quello di cui discute non è solo il suo lavoro, ma la sua
vita: l’amore per un uomo italiano e cristiano che ha rifiutato
l’ipocrisia di una conversione finta per sposarla. La difficoltà di
crescere la figlia in una famiglia con due culture e due religioni,
l’inflessibile volontà di parlare a nome di un Islam che, rivendica con
forza, «non è fatto solo di donne con il velo. Non ha una visione unica »
. « Non mi si può tacciare di ignoranza perché non mi sono mai coperta
la testa: sono musulmana anche io. Prego anche io. E conosco il Corano»,
spiega.
«Se dico che c’è un problema — insiste — è perché lo
vedo. Queste ragazze sono straniere per legge ma italiane nei fatti:
nate e cresciute qui, nelle nostre scuole, accanto ai nostri figli.
Molte di loro conducono un’esistenza tranquilla, in armonia con il mondo
esterno e con la famiglia. Ma per altre la storia è diversa. I genitori
vogliono che mantengano l’identità delle origini, ma le loro origini
sono qui: non hanno ricordi dei Paesi di origine delle famiglie, ma di
Brescia. Siamo nella città di Hina, la ragazza uccisa nel 2006. Noi
abbiamo ben presente dove può portare la tensione».
Parole
profetiche: qualche settimana dopo questa conversazione, c’è stata la
morte in Pakistan, presumibilmente per mano di padre e fratello, di Sana
Cheema, che a Brescia era cresciuta e viveva, apparentemente felice. La
notizia ha devastato Naima: «Siamo sotto choc: dodici anni dopo ci
ritroviamo allo stesso punto. È il segno di un fenomeno che è stato
sottovalutato. Non sto dicendo che va tutto male: ci sono giovani
realizzate e famiglie felici. Ma c’è anche altro: e non bisogna
vergognarsi a dirlo, non bisogna essere buonisti. C’è una zona grigia e
va affrontata: perché se non lo facciamo crescerà».
In teoria
Naima e Amina Alzeer stanno dalla stessa parte: entrambe combattono
contro la violenza, entrambe si spendono anima e corpo nel loro lavoro,
entrambe sono diventate un punto di riferimento nazionale. Eppure
rappresentano due mondi che si guardano da lontano, a tratti con
diffidenza. «Nei confronti di noi donne con il velo c’è un certo
pregiudizio » , sospira Amina. « Le femministe e le laiche spesso non ci
apprezzano perché proponiamo un approccio anche religioso alla
questione della violenza. Allo stesso tempo alcuni esponenti della
comunità musulmana ci danno addosso perché dicono incoraggiamo le donne a
ribellarsi. Ma se tutti ci criticano, vuol dire che stiamo facendo
bene».
Quarantadue anni, italopalestinese, madre di sei figli,
Amina è la vicepresidente di Aisha, un progetto che prende il nome dalla
moglie preferita del Profeta Maometto il cui scopo è contrastare la
violenza e la discriminazione contro le donne. Aisha è un’iniziativa
unica in Italia, nata a Milano due anni fa: le donne che vivono una
violenza possono rivolgersi al gruppo e avere consulenza legale, terapia
di coppia e individuale e, se richiesta, assistenza religiosa. La sua
peculiarità è quella di operare all’interno delle comunità, coinvolgendo
Imam e moschee. «Tutto nasce da una constatazione semplice: noi
musulmane non siamo esenti dal problema della violenza » , dice Amina.
Che rifiuta con forza di etichettare la questione come un problema
religioso. «È una questione trasversale. Certo da noi c’è da fare uno
sforzo in più, quello della consapevolezza: parliamo spesso con donne
che non conosco i propri diritti, giuridici, personali e anche sessuali.
E per questo sono passive di fronte alla violenza. Ma la religione non
c’entra nulla: al massimo, viene usata come scusa».
Il progetto
Aisha non è il mio primo impegno pubblico di Amina: da tempo nel Caim —
il coordinamento delle associazioni islamiche di Milano e Monza — è
abituata a dover difendere le sue scelte. «Sono stanca di ripetere
sempre le stesse cose: che velo non vuol dire sottomissione, che chi
dice che l’Islam autorizza la violenza sulle donne mente, che siamo
parte della società come gli uomini. Uno si aspetterebbe che dopo tanti
anni il dibattito in Italia si fosse un po’ evoluto. Ma così non è».
Dopo un lancio un po’ faticoso, finora Aisha ha aiutato una ventina di
donne: «Parlando anche con i mariti quando abbiamo potuto.
Accompagnandole ai centri anti-violenza pubblici quando necessario. E
facendole parlare con un imam, quando ce lo chiedono».
« Non
discuteremo di velo, vero? » . Mohammed Ben Mohammed accompagna la frase
con un sorriso bonario. Nato in Tunisia, dopo più di venti anni in
Italia e alla testa di una comunità, come quella di Centocelle a Roma,
che ha attraversato diverse tempeste, l’Imam vorrebbe davvero parlare di
qualcosa che non fosse polemico. Se accetta di discutere della
questione della violenza di genere è perché la considera «un problema
vero». Ma prima di rispondere alle domande ci tiene a chiarire un punto.
« L’Islam sta attraversando una fase delicata. La gente fatica a capire
come vanno applicate le regole del Corano. Continuo a ripetere che
conservare la visione del Profeta non significa vivere come ai suoi
tempi, ma nel tempo le diverse interpretazioni della parola sacra hanno
creato tradizioni che non rispettano i veri valori. Questo è valido in
particolare per la situazione della donna. Con Maometto, le donne
avevano un ruolo di primo piano nella società, a cominciare dalle sue
mogli. Avevano anche massima libertà nella scelta dello sposo. Adesso
siamo lontani anni luce da tutto questo, molto spesso le ragazze non
possono dire “no”. Sono tradizioni difficili da cambiare. Ma non è la
religione a prescrivere tutto questo».
L’Imam di Centocelle sa per
esperienza che quella di cui parliamo è una sfida centrale per il
futuro: sua figlia, Takoua Ben Mohammed, 26 anni, vignettista, è uno dei
volti emergenti della comunità. Intraprendente, articolata, spiritosa.
Una delle poche in grado di raccontare, con la leggerezza del suo tocco
di matita e la profondità di chi ha respirato religione e politica sin
da bambina, il complesso rapporto fra i giovani musulmani e la società
italiana.
«Gestire i ragazzi e le ragazze al crocevia fra due
mondi e due culture è difficile», sospira l’uomo. «Nascono, crescono,
studiano qui ma i genitori spesso insegnano loro un’altra cultura.
Bisogna capire e aiutare. Capita che le famiglie vengano a chiedere
aiuto: cerco di spiegare che non si possono imporre cose ai figli.
Spesso i genitori restano in silenzio: non sanno affrontare tutto
questo. C’è chi non capisce che si possono conservare i nostri valori e
vivere nell’Europa di oggi. È la nostra sfida».
Davanti alle
storie di Alison e Zoya, di Jessica e a ai racconti delle tante altre
donne con cui abbiamo parlato, Ben Mohammed stringe gli occhi e per la
prima volta sembra perdere la serenità: «Non si può imporre la
religione. E neanche il velo. Sono scelte. Chi sarà costretto a subirle
non sarà coerente né sereno. Non è questo che ci ha chiesto il Profeta».
La scuola
Dalla
moschea di Centocelle al quartiere di Torpignattara ci vogliono circa
20 minuti: quattro fermate del tram che attraversa via Casilina, zona
popolare della città, portano nei pressi della Pisacane, la scuola che è
uno dei cuori pulsanti del quartiere. Qui gli insegnanti si trovano di
fronte a problemi simili a quelli che affronta l’imam Ben Mohammed.
Torpignattara è una delle zone con il tasso di immigrati più alti di
Roma: da anni fra i banchi del suo istituto ci sono allievi di origine
bengalese, egiziana, marocchina, ma anche dell’Europa dell’Est.