venerdì 25 maggio 2018

Repubblica 25.5.18
Leo Varadkar Oggi il referendum
La sfida d’Irlanda sulla legge anti aborto più dura della Ue
“Libertà e salute” contro “licenza di uccidere”. In testa i sì all’abrogazione
intervista di Enrico Franceschini


DUBLINO «Dignità, salute, libertà di scelta», si legge sul manifesto affisso sul lato destro della strada. «Licenza di uccidere», si legge sul lato di sinistra, sullo sfondo della foto di un bambino insanguinato. Basta poco per capire su cosa si gioca il referendum di stamane in Irlanda sull’aborto: parole contro immagini, ragionamento contro emozioni, dati di fatto contro slogan. Una sfida che si è già svolta con argomenti simili altrove, dalla Gran Bretagna della Brexit all’America di Trump. In teoria, la consultazione irlandese dovrebbe premiare il raziocinio sulla retorica. Quello che un tempo era il paese più cattolico d’Europa ha già percorso un lungo cammino sulla strada della modernizzazione. Nel 1995 ha legalizzato il divorzio. Tre anni fa ha approvato il matrimonio fra persone dello stesso sesso, dopo una campagna referendaria in cui Mary Robinson, la prima donna eletta presidente della repubblica nell’Isola di Smeraldo, affermava: «Ho due figli, uno eterosessuale, uno omosessuale, voglio che abbiano esattamente gli stessi diritti». E a schierarsi ora per il diritto d’aborto è un primo ministro irlandese, Leo Varadkar, dichiaratamente gay.
Politicamente, Varadkar non è solo: tutti i partiti irlandesi sono favorevoli ad abrogare l’articolo 8 della Costituzione (introdotto a sua volta da un referendum, nel 1983) che riconosce il “diritto alla vita dei non nati”, imponendo il divieto d’aborto più restrittivo di tutta l’Unione Europea. La gravidanza non può essere interrotta neanche in caso di stupro, incesto o anomalie fetali che porteranno alla morte del neonato. La campagna per abrogare il divieto è nata da un episodio clamoroso: la morte di Savita Halappanar, una donna di 31 anni a cui fu impedito di abortire nonostante fosse in corso una grave infezione. Ma l’unanimità della classe politica ricorda quella dei partiti britannici, dai conservatori ai laburisti ai liberaldemocratici, nel referendum del 2016 sull’uscita dalla Ue. Non servì a niente. La “vox populi” smentì quella che sembrava l’opinione dominante.
Succederà anche in Irlanda?
I sondaggi non lo escludono. Fino a sei mesi or sono, il “sì” all’abrogazione del divieto di aborto era in netta maggioranza.
Negli ultimi giorni le distanze si sono ridotte. L’ultimo rilevamento dà ancora i “sì” in testa, 44-34 per cento, ma il fronte del “no” appare fiducioso di una sorpresa: esattamente come accaduto con la Brexit nel Regno Unito.
Affiorano altre similitudini. Nelle città e tra i giovani, stravince il diritto all’aborto. Nelle zone rurali e tra gli anziani, è in vantaggio il diritto alla vita del feto. E il web svolge anche qui un ruolo chiave.
Gruppi anti-abortisti americani hanno finanziato una campagna di martellante propaganda online che, come nei manifesti affissi nelle strade, punta tutto su immagini estreme. «Ho dodici settimane, respiro e scalcio, non uccidetemi», recita lo slogan messo in bocca ad un feto.
Il dilemma irlandese, aborto sì o no, contiene un’ipocrisia di fondo: abortire in realtà è possibile, a condizione di andare all’estero.
Come fanno circa 3500 donne l’anno, recandosi nella vicina Inghilterra. In sostanza, il divieto colpisce soltanto le donne più povere, le immigrate, non in condizioni di viaggiare. «A differenza del matrimonio fra persone dello stesso sesso, l’aborto mette totalmente in discussione il controllo della società sulle donne», aggiunge Laura Fano Morissey, italiana sposata con un irlandese e madre di due figli, impegnata nella campagna per il sì. «Sotto questo aspetto è molto più simile alla campagna del ’95 per il divorzio, perché anche in quel caso veniva avvertita una perdita di potere da parte degli uomini». Il diritto di aborto sarebbe dunque l’ultimo atto di un graduale affrancamento da una società patriarcale e tradizionalista. Su cui pesa naturalmente l’influenza della Chiesa cattolica. La quale ha avuto due punti di forza in Irlanda. In primo luogo, è stata un bastione dell’indipendenza, dopo la secessione dalla Gran Bretagna di un secolo fa: non per nulla, nell’Irlanda del Nord rimasta sotto il controllo di Londra, i cattolici sono indipendentisti e i protestanti anglicani sono fedeli alla monarchia britannica. E in secondo luogo il cattolicesimo ha offerto conforto a una piccola nazione per lungo tempo in miseria. Ma poi è emerso il lato oscuro di questa pia assistenza: le “lavanderie” delle Magdalene Sisters, gli orfanatrofi religiosi dove si consumavano abusi sessuali e umanitari.
Contemporaneamente, negli ultimi vent’anni, l’Irlanda ha vissuto un prodigioso boom, che — a dispetto di un paio di drammatiche crisi — ha sviluppato benessere e secolarismo. Al resto provvedono i controversi benefici fiscali che hanno attirato a Dublino il quartier generale europeo di tante multinazionali, comprese quelle della rivoluzione digitale. L’Emerald Island è irriconoscibile rispetto al passato.
E tuttavia, gli espatriati che ieri affollavano l’aeroporto della capitale, di ritorno in patria per votare nel referendum, erano accolti all’uscita da una scritta su una torre: God is love, Dio è amore. Come un monito che, equiparando il diritto d’aborto con il contrario dell’amore, li rincorre stamane nelle urne.