venerdì 25 maggio 2018

il manifesto 25.10.18
Irlanda, la ferocia dell’ottavo emendamento sulle donne migranti


Quando si pensa al referendum sull’aborto del 25 maggio, si pensa e si sente parlare di come le donne irlandesi debbano recarsi in altri paesi per avere accesso all’interruzione di gravidanza. Quello a cui spesso non si pensa però sono le centinaia di donne che non possono viaggiare per restrizioni economiche e/o di visto e che sono quindi costrette a portare a termine la gravidanza. Le richiedenti asilo e le cittadine non europee o non possono lasciare l’Irlanda, o possono farlo ma a rischio di non potervi far ritorno.
Nella coalizione pro-choice, chiamata Together for Yes, c’è un gruppo che dà loro visibilità, enfatizzando l’impatto ‘speciale’ che l’Ottavo emendamento ha su di loro. Si tratta di Merj (Migrants and Ethnic Minorities for Reproductive Justice). L’approccio di Merj è più ampio rispetto alla battaglia per il diritto all’aborto. «L’Ottavo emendamento non è esclusivamente connesso all’interruzione di gravidanza, ma all’accesso alle cure durante la gravidanza e alla maternità più in generale», dice Cristina. «La salute delle donne è spesso pensata in termini di gravidanza e parto, e questo porta il personale medico a ignorare le altre dimensioni della salute delle pazienti».
Merj combatte su più fronti, uno dei quali è il razzismo presente tra il personale medico verso donne migranti, nere o provenienti da minoranze etniche, come ad esempio le persone travellers. Eileen Flynn, donna traveller, ha raccontato durante un workshop organizzato da Merj e intitolato «Imparare dalle migranti e dalle minoranze etniche» tenutosi il 12 maggio a Dublino, che, a causa della discriminazione subita, molte donne della sua comunità non hanno fiducia nel servizio sanitario. Non stupisce se si pensa al trattamento riservato alle persone traveller in Irlanda, stesso trattamento che ricevono le donne migranti e/o nere, come ad esempio Bimbo Onanuga, cittadina nigeriana. A causa di una gravidanza extra-uterina, a Bimbo fu praticato un aborto (rarissimo caso in cui l’aborto è legale) nel 2010. Un violento sanguinamento interno seguì l’operazione e Bimbo chiese aiuto più volte al personale medico finché non morì. Secondo l’Aims, l’Associazione per il miglioramento dei servizi alla maternità, si trattò di un episodio di discriminazione operato contro una donna a cui non si sono prestate cure perché non creduta. Un’indagine non è stata aperta, ma sono diverse le attiviste di MERJ che raccontano come sia difficile farsi credere dai medici, convinti che le donne di colore abbiano una resistenza superiore al dolore.
Non è una coincidenza che i casi più famosi legati all’Ottavo emendamento siano di donne migranti o minoranze etniche: Ms. X, Ms. Y e Savita Halappanavar. Ms. X era una minorenne di origine traveller a cui, in seguito a uno stupro, fu negato il diritto di viaggiare per abortire in Gran Bretagna nel 1992. Ms. Y era una richiedente asilo che, arrivata nel 2014 incinta dopo uno stupro, tentò di raggiungere la Gran Bretagna, meta più accessibile dall’Irlanda, per abortire. Fu arrestata perché in violazione delle leggi sulla migrazione e rimandata in Irlanda dove, intrapreso uno sciopero della fame, fu nutrita a forza e costretta a portare avanti la gravidanza. Savita, indiana, morì nel 2012, dopo tre giorni in setticemia all’ospedale di Galway. «Questo è un paese cattolico», fu risposto al marito che chiedeva un aborto per salvare la moglie.
L’Ottavo emendamento colpisce sproporzionatamente le donne più vulnerabili. Per Merj la battaglia non sarà finita il 25 maggio. «Ci sarà ancora da combattere il razzismo e la discriminazione nei servizi medici», dice Emily.
*** Migrants and Ethnic Minorities for Reproductive Justice