Repubblica 24.5.18
Addio, maestro
Philip Roth. Lo scrittore esce di scena
di Nicola Lagioia
È
morto a 85 anni il profeta del grande romanzo americano Autore di oltre
trenta opere, da sempre candidato al Nobel, abbandonò la scrittura sei
anni fa. Aveva lasciato detto: “Distruggete i miei archivi”
Rimane
il fatto che capire la gente non è vivere. Vivere è capirla male,
capirla male e poi male e, dopo un attento riesame, ancora male. Ecco
come sappiamo di essere vivi: sbagliando». È a questo punto di Pastorale
americana, uno dei migliori romanzi del secondo Novecento, che Philip
Roth, se non il più grande in assoluto (come lui nati nei Trenta: Thomas
Pynchon, Toni Morrison, Cormac McCarthy) probabilmente il più robusto,
il più tenace, il più influente, il più completo scrittore americano
della sua generazione e di quelle a seguire, portava il suo alter ego
Nathan Zuckerman a nutrire i primi dubbi sulla propria ricerca e noi
lettori a morire di piacere tra le pieghe di una storia in cui nulla è
come sembra. Oggetto dell’indagine: Seymour Levov, lo “Svedese”, ex
atleta modello, simbolo di una presunta innocenza americana e vecchia
conoscenza dell’io narrante.
Addentrarsi nella vita di Levov ormai
anziano – scoprire, dietro la rispettabilità borghese, una tragedia
privata resa più insopportabile dal sale della commedia – porterà
Zuckerman a smantellare uno dopo l’altro (la famiglia, il matrimonio, il
patriottismo, il diritto alla felicità) tutti i pilastri su cui gli
Stati Uniti avevano creduto di reggersi.
Adesso che Philip Roth è
morto e Donald Trump non smette di twittare, guardiamo ammirati quel
formidabile libro come un’oasi di intelligenza in un deserto di
qualunquismo, un inno alla complessità scagliato contro un tempo che
punta tutto sulla semplificazione. Ma gli esseri umani non sono semplici
per niente, e su questo Roth ci ha impartito per mezzo secolo una
lezione magistrale. E modesta. Il suo addio alla scrittura annunciato
nel 2012 si accompgna alle sue ultime volontà: distruggere gli archivi
affinché nulla resti che non sia perfetto come ciò che ha pubblicato in
vita.
Pastorale americana è del 1997. Il romanzo lascia tutti di stucco.
Massimo
della complessità nel massimo della leggibilità. La cosa più
stupefacente è la serie di capolavori che Roth in quel periodo riesce a
licenziare uno dietro l’altro senza fermarsi un attimo. Operazione
Shylock è del 1993, Il teatro di Sabbath del 1995, Ho sposato un
comunista del 1998, La macchia umana del 2000, L’animale morente
dell’anno successivo. Quale altro scrittore americano – eccettuato forse
Faulkner nel decennio 1929-39 – era riuscito a dare così tanto in così
poco tempo? Aggiungete che lo scrittore sessantaquattrenne di Pastorale
era anche quello che, quasi trent’anni prima, aveva provocato già un
terremoto pubblicando Lamento di Portnoy, un magnifico gesto di
indipendenza e insieme un atto d’amore verso le debolezze della natura
umana (così ridicola, sconcia, imprevedibile) scambiato per oltraggio al
pudore. Certo Roth ha eccelso in ogni disciplina a cui si è dedicato. È
stato un ottimo autore di short stories (l’esordio di Addio Columbus),
ha raccontato mirabilmente la follia del sesso (da Portnoy in poi), si è
emancipato dalle proprie origini in modo pressoché istantaneo (indignò
l’ala più ortodossa della comunità ebraica dai primi racconti pubblicati
sul New Yorker) ma al tempo stesso ci ha regalato uno dei più alti
esempi di amore filiale e autofiction ante litteram con Patrimonio,
tutto incentrato sulla morte di suo padre. Ha inventato uno degli alter
ego più riusciti di sempre (il ciclo di Zuckerman, ma non dimentichiamo
David Kepesh), e ha reso omaggio ai suoi maestri senza lasciarsene
schiacciare (Saul Bellow) o arrivando quasi a parodiarli (probabilmente
c’è Bernard Malamud dietro Lo scrittore fantasma). Ha raccontato
divertendosi gli Stati Uniti di Nixon ( Cosa Bianca Nostra) e in modo
sublime l’America ai tempi dell’affaire Lewinsky ( La macchia umana).
Addirittura Roth si è cimentato in una distopia che rischia adesso di
apparire una premonizione ( Il complotto contro l’America è tornato tra
gli scaffali delle librerie americane dopo l’elezione di Trump).
Roth
il più grande naturalista del secondo Novecento? Nasciamo senza averlo
deciso, preghiamo un dio che non esiste, in una famiglia che amandoci
rischia di distruggerci, siamo schiavi del sesso, lottiamo per ottenere
un premio che non ci renderà felici, fraintendiamo ogni cosa quanto più
ci sentiamo vicini alla soluzione di un problema, a un certo punto
moriamo ed ecco tutto – sono questi pochi accordi che danno vita,
prodigiosamente, all’infinità di combinazioni capaci di far risplendere
da secoli l’arte di raccontare storie.
Questo per Philip Roth è
certamente vero, ma c’è altro. Se Pastorale americana e Lamento di
Portnoy sono i suoi libri più famosi, il più estremo e forse il più
bello è Il teatro di Sabbath. Qui il comico acquista una profondità
ulteriore, il sesso rima perfettamente con la morte, e attraverso
l’unico dei suoi campioni non borghesi, il burattinaio dissoluto Mickey
Sabbath, così vitale, disperato, violento, Roth riesce a ingaggiare a un
certo punto un dialogo con Shakespeare: il cimitero dove Sabbath si
masturba sulla tomba dell’ex amante Drenka è lo stesso in cui Amleto
vede il teschio di Yorick, un cimitero, un castello, la stanza di un
hotel, la dimensione altra in cui l’arte, mostrando le colonne d’Ercole
dell’uomo, lo scopre sotto una luce che in natura non esiste.