il manifesto 24.5.18
Philip Roth, le ossessioni che fecero grande uno scrittore per sempre nel canone
Protagonisti.
È morto a 85 anni per insufficienza cardiaca. Da sei aveva annunciato
il suo addio alla letteratura. Figlio di immigrati galiziani di origine
ebraica, era nato nel 1933 a Newark, luogo elettivo del suo sarcasmo
di Luca Briasco
Se
si vuole sintetizzare in una circostanza specifica la prodigiosa
carriera di Philip Roth, è probabile che la si debba individuare
nell’assegnazione del premio Pulitzer per la narrativa del 1998. I
giurati si trovarono a dover scegliere tra quelli che rimangono forse,
nella memoria collettiva, i due più grandi romanzi americani degli
ultimi vent’anni. A vincere fu Roth, con Pastorale Americana, mentre il
grande sconfitto fu Underworld, di Don DeLillo. Prescindendo da
qualunque valutazione di ordine qualitativo – probabilmente inutile, di
fronte a opere di questa portata – il successo di Roth ha tanto più oggi
il valore di un vero e proprio spartiacque: a perdere la contesa, con
Underworld, fu il romanzo-mondo, il megathon novel erede di una gloriosa
tradizione che include alcuni capisaldi del postmoderno come Le perizie
di Gaddis o L’arcobaleno della gravità di Pynchon; a prevalere, con
Pastorale americana, fu essenzialmente un romanzo di famiglia, nel quale
Roth si confrontava ad armi pari con l’amico e rivale John Updike ma
soprattutto inaugurava una vera e propria «nuova tradizione», che ha nel
Jonathan Franzen delle Correzioni e di Libertà o nel Jonathan Safran
Foer di Eccomi i suoi esponenti più convinti.
Pastorale americana
rimane oggi, a trent’anni da quel Premio Pulitzer, il libro più letto di
Roth – e il più amato, insieme a Lamento di Portnoy e (forse) a Il
teatro di Sabbath, anche se la fama dell’autore si era già consolidata
in precedenza, se è vero che nel 1994 Harold Bloom aveva incluso ben sei
suoi titoli all’interno del proprio Canone occidentale. Per comprendere
il fascino e la centralità di Pastorale, anche a prescindere dalla
«leva» immediata rappresentata dal conferimento del Pulitzer, è allora
necessario ripensarne la struttura, le dinamiche interne e la
collocazione all’interno della traiettoria dell’autore.
UN
PERCORSO NARRATIVO, quello di Roth, particolarmente complesso, segnato
da irrequietudini, spinte sperimentali e da un dialogo costante con la
cultura e le tendenze letterarie di un cinquantennio e più. Erede e al
tempo stesso decostruttore della tradizione ebraico-americana, Roth
aveva contribuito – soprattutto nella prima fase della sua carriera, o
quanto meno a partire da Lamento di Portnoy – a introdurre uno dei temi
fondamentali del dibattito sul nuovo sperimentalismo che avrebbe
dominato tutti gli anni Sessanta e buona parte dei Settanta. Il realismo
di maestri quali Bellow e Malamud gli appariva non tanto contestabile
per motivazioni formali, quanto superato e reso inattuale dallo sviluppo
stesso della società americana, contraddistinta da un’inarrestabile
velocizzazione delle relazioni come della trasmissione dei messaggi
culturali, e dalla conseguente frammentazione e dispersione
dell’identità. Identità che, in molti dei migliori romanzi di Roth, ci
viene presentata attraverso il filtro dell’ossessione erotica e del
sesso, in un percorso di indagine nel quale la polemica contro il
perbenismo della società americana, il perseguimento del piacere e la
scoperta di sé coincidono e si rafforzano a vicenda.
Questa
posizione critica si era tradotta nello slancio sperimentale che Roth
aveva introdotto progressivamente nella sua stessa opera, e che aveva
trovato nella tetralogia di Zuckerman – con il suo raffinato intarsio
tra fiction e autobiografia –, nella furibonda esuberanza de Il teatro
di Sabbath e nel folle gioco di doppi e sosia su cui è incentrato
Operazione Shylock i suoi momenti più intensi e convincenti.
In
Pastorale si respira invece un curioso sentore di classicità. Il romanzo
è prima di tutto la storia di una famiglia ebreo-americana e di un
predestinato: Seymour Levov, detto lo Svedese, un uomo che dovrebbe aver
avuto tutto, dalla vita. Alto, biondo, occhi azzurri: un aspetto fisico
che sembra negare la sua stessa origine ebraica e aprirgli la via di
una facile integrazione. Atleta impareggiabile, eroe del suo liceo, lo
Svedese eredita la fabbrica di guanti del padre e si sposa con la
reginetta del New Jersey, cattolica e irlandese.
UNA STORIA DI
SUCCESSO che va però a urtare contro un evento destinato a trasformare
la pastorale americana del titolo in tragedia: l’attentato a un ufficio
postale in cui un uomo perde la vita e di cui è responsabile la figlia
dello Svedese: Merry, una ragazza complessata, indocile e ribelle,
pronta a contestare alla radice il sogno integrazionista e democratico
che il padre era ormai a un passo dal consolidare.
Il conflitto
generazionale è l’unica chiave di lettura degli eventi: almeno dalla
prospettiva di Seymour, che mostra ben poco interesse per le ragioni e i
torti della protesta anti-Vietnam cui Merry aderisce, e legge
l’attentato come l’interruzione di una catena virtuosa, «la perdita
della figlia, la quarta generazione americana… La figlia che lo sbalza
dalla tanto desiderata pastorale americana e lo proietta in tutto ciò
che è la sua antitesi e il suo nemico, nel furore, nella violenza e
nella disperazione della contro pastorale: nell’innata rabbia cieca
dell’America.»
Ora, però, c’è un punto che spesso, e proprio per
l’intensità, la forza e la classicità della saga dei Levov, tende a
sfuggire, quando si parla di Pastorale americana: anche in questo caso,
il romanzo ha un narratore interno, e non uno qualsiasi, bensì quello
stesso Nathan Zuckerman che Roth aveva messo al centro di alcuni tra i
suoi libri più feroci e sulfurei, come Zuckerman scatenato e La lezione
di anatomia. Compagno di scuola di Jerry Levov, il fratello minore di
Seymour, Nathan è vissuto nel mito dello Svedese, ma è anche
terrorizzato dalla sua perfezione, dall’apparente assenza, nell’eroe, di
quella «macchia umana» (per citare il titolo del successivo romanzo di
Roth) senza la quale non si dà progressione narrativa, tanto meno
tragedia.
Per arrivare a raccontare «la tragedia dell’uomo
impreparato alla tragedia: cioè la tragedia di tutti», Zuckerman è
allora costretto a elaborare le poche informazioni raccolte sul conto
dello Svedese e trasformarle in una «cronaca realistica», rinunciando a
qualunque slancio metanarrativo. La soggettività dello Svedese,
inventata e creata a partire dall’illeggibilità della sua perfezione, si
apre al caos della storia, subisce la rivolta generazionale, vede la
sua pastorale trasformarsi in contro pastorale.
QUELLA DI ROTH si
configura dunque come una scelta deliberata: a partire da Pastorale (e
proseguendo con La macchia umana e Ho sposato un comunista) si compie
un’opera di sistematica ricodificazione dei temi già affrontati nelle
opere precedenti, nella quale all’esplorazione diretta della scena
contemporanea si sovrappone la rievocazione nostalgica di un tempo e di
un sistema di valori e sogni ormai irrecuperabili. Di questa
ricodificazione, che ha peraltro sancito in via definitiva l’ingresso di
Roth nell’Olimpo dei classici, è testimonianza una serie di romanzi
strutturalmente perfetti e sorprendentemente armoniosi, spesso
imperniati su una qualche forma di conflitto generazionale e lontani
dalla frenesia e dalla furibonda inventiva delle opere precedenti: serie
che trova nelle due ultime opere, Indignazione e Nemesi, e nel silenzio
che le ha seguite fino alla morte dell’autore, il proprio naturale
compimento.