il manifesto 24.5.18
La scomparsa di Philip Roth. Sfila il corteo delle sue incarnazioni, fantasmatici eroi del nostro tempo
Protagonisti. Alex Portnoy, David Kepesh, Peter Tarnopol, Nathan Zuckerman: tutte le anime del grande scrittore
di Francesca Borrelli
Ora
che l’addio alla letteratura di Philip Roth è senza possibilità di
ripensamenti, i suoi alter ego sfileranno, fantasmatici eroi dei nostri
tempi, davanti alla sua bara nell’ordine con cui sono apparsi via via
nei romanzi in cui hanno preso vita: per primo Alex Portnoy, che forse
cambierà per l’occasione la natura del Lamento di cui Roth lo aveva reso
protagonista nel 1967 e, balzato fuori dal romanzo, si materializzerà
davanti al suo creatore. Certo, oggi è un po’ invecchiato, ma quando
fece la sua entrée sulla scena del mondo editoriale Portnoy vestiva con
una certa sfacciataggine i panni dell’ebreo erotomane e ipocondriaco,
impegnato a raccontare nel suo incontenibile monologo indirizzato a un
analista, le frustrazioni della sua miserevole vita, passata a inseguire
ragazze gentili sulle quali riversava, senza mai appagarle, le sue
smodate esigenze sessuali. «Dottore – gli fece dire Philip Roth – forse
gli altri pazienti sognano le cose…a me succedono. Ho una vita senza
contenuti latenti». Povero Portnoy, che avrebbe concluso la sua
esistenza rappresentandosi a se stesso come il degno «protagonista di
una barzelletta ebraica».
Dopo di lui, ancora animato da una certa
baldanza, sfilerà a dolersi della scomparsa di Philip Roth la più
lasciva delle sue ombre, David Kepesh, che esordì all’avventura
letteraria trasformandosi… in un seno. Il fatto, increscioso per quanto
corrispondente a desideri reconditi, avveniva nel corso di un racconto
datato 1972, quando una «esplosione ermafroditica di cromosomi» aveva
mutato l’esimio professor Kepesh in una enorme mammella: un metro e
ottanta di stazza trasformati in una montagna adiposa, come la si
potrebbe immaginare su una tela di Dalì. Cinque anni più tardi,
recuperata la sua fisionomia umana e un certo status sociale, David
Kepesh sarebbe tuttavia tornato a ribadire la natura del proprio animo
in un romanzo non a caso titolato Il professore di desiderio, che Philip
Roth dedicò alla sua compagna di allora, Claire Bloom, l’attrice resa
celebre da Chaplin in Luci della ribalta.
Tra quelle pagine Kepesh
compariva come il protagonista di un lento apprendistato che avrebbe
dovuto portarlo a coniugare appetiti erotici e sentimenti, finché Roth,
abbandonato il suo smagliante sarcasmo, si era preso l’estrema
soddisfazione di regalare al suo alter ego il lusso della felicità
domestica. Ma non durò a lungo, e presto Kepesh si ricongiunse al
destino malevolo che Philip Roth aveva predisposto per lui. Dopo avere
esordito nel ruolo di una mammella, avrebbe concluso la sua parabola
come protagonista di un romanzo, L’animale morente, in cui ormai
ultrasessantenne si innamorava di una magnifica ragazza cubana di
ventiquattro anni, che si sarebbe ammalata di un cancro al seno. Ora che
le sue tribolazioni sono finite, Kepesh sfilerà davanti a Roth per
ricevere dal suo cadavere l’ultima virtuale benedizione, poi si ritirerà
tra le pagine dei libri di cui è protagonista, quei libri in cui ha
tante volte trovato soddisfazione ai suoi desideri.
TERZO TRA GLI
ALTER EGO, piegato sotto il peso di sofferenze che non erano le sue,
comparirà davanti alla salma dello scrittore americano la figura di
Peter Tarnopol: verrà fuori dalle pagine di un romanzo del 1974 titolato
La mia vita di uomo, dove Roth lo aveva incastrato nel ruolo di marito
di una donna persecutoriamente bugiarda, una certa Maureen che con le
sue gelosie, le scenate, le menzogne, i raggiri più vergognosi, gli
aveva reso la vita insopportabile. Più Tarnopol si indignava e soffriva,
più Philip Roth sentiva alleggerirsi il suo animo, perché quella moglie
che ora scaricava al fianco di Tarnopol un giorno era stata sua:
«Probabilmente nient’altro nella mia narrativa riproduce con maggiore
esattezza un fatto autobiografico», confidò quattordici anni dopo lo
scrittore americano, quando si premurò di convalidare come proprie le
avventure di Peter Tarnopol, e rivelò che nei comportamenti di Maureen
erano esemplificati quelli della sua prima moglie.
Naturalmente,
questo era niente altro che il suo punto di vista, ma tanto Roth lo
riteneva insindacabile che si premurò di titolare la sua pretesa
autobiografia I fatti e finse di affidarne il vaglio a Nathan Zuckerman,
nel frattempo salito al rango di ombra prediletta del suo Io. È lui,
solenne e rancoroso, già da tempo congedato e forse mai davvero
riconciliatosi con il suo creatore, che sfilerà per ultimo al funerale.
Chissà se nella decisione di non scrivere più Philip Roth sia stato
inonsciamente condizionato dalla malinconia del legame perduto con il
suo doppio prediletto.
Nathan Zuckerman era entrato in campo nel
ruolo dello Scrittore fantasma nel 1979 e venne congedato brutalmente da
Roth nel 2007, dopo un trentennio di onorati servizi, distribuiti lungo
una decina di romanzi, l’ultimo dei quali era stato eloquentemente
titolato dallo scrittore americano Il fantasma esce di scena. All’epoca
della sua comparsa, Zuckerman era un giovane entusiasta, focoso
esploratore di mete sessuali e ardente neofita in ambito letterario,
pendente dalle labbra del suo scrittore preferito, E. I. Lonoff, perché
gli elargisse quella «convalida patriarcale» che il padre non sarebbe
stato in grado di dargli: non solo perché altri non era se non un
modesto pedicure, ma anche perché non aveva apprezzato il fatto che il
figlio avesse trasferito una poco nobile storia di famiglia nel suo
esordio romanzesco, compromettendo per sempre il loro buon nome e quello
di tutti gli ebrei.
Quando Roth lo fece uscire di scena,
Zuckerman era ormai un attempato, famoso scrittore, che i postumi di una
operazione per un cancro alla prostata avevano reso incontinente e,
quel che è peggio, ridotto all’impotenza. Disilluso e solitario,
Zuckerman viveva allora in una casetta sui monti dei Berkshire, estraneo
alle contingenze e proiettato nel passato, quel passato che gli
rimandava i pochi ricordi dell’unica visita al maestro Lonoff. Ma le
prospettive di una operazione che gli restituisse le funzioni perdute lo
portarono a Manhattan, dove insieme alla speranza e a dispetto del
disincanto si rianimarono i sensi tacitati, e insieme a questi le
antiche insofferenze, la nostalgia, i ricordi.
NATHAN ZUCKERMAN
era ormai un uomo che aveva finito da un pezzo di recitare «il dramma
della scoperta di se stesso», ma ciò nonostante avrebbe finito con il
precipitarsi nella direzione contraria a quella che la prudenza gli
indicava. Aveva alle spalle un lungo a faticoso passato di alter ego, la
cui performance più elaborata era stata probabilmente quella consumata
tra le pagine di un romanzo del 1986, La controvita, nel quale era voce
narrante e alternativamente oggetto del racconto di altri, creatura
esemplarmente artificiosa e quindi convinta del fatto che tutt’al più
possiamo fidarci delle interpretazioni, ma che la verità non esiste.
«Essere Zuckerman è una lunga recita» – si lamentava – «esattamente
l’opposto di ciò che si intende con l’espressione essere se stessi».
È
PROBABILE CHE, in quanto cultori della materia, chiamati a scegliere le
pagine migliori di Philip Roth, i suoi alter ego estrarrebbero dai
libri di cui sono loro stessi protagonisti le pagine in cui risuona più
forte il sarcasmo del loro creatore, e insieme tutte quelle in cui egli
ha riversato le sue più private ossessioni: lo stereotipo dell’ebreo
piccolo borghese di miserabili vedute, la cupidigia sessuale, il terrore
della malattia e della morte. Eppure il talento di Philip Roth non
risalta solo in virtù dei suoi eccessi. Nessuno meglio di Nathan
Zuckerman potrebbe testimoniarlo, ricordando una delle stagioni
narrative più felici di cui fu protagonista: quella che si era
inaugurata con Pastorale americana ormai quindici anni fa. Qui, l’alter
ego di Roth ripercorreva la vita di un uomo che tutti chiamavano lo
Svedese, apparentemente così sicuro di sé nella sua mediocrità da far
sospettare di non essere «incrinato dal pensiero». Niente di più
sbagliato: quello stesso uomo, in realtà, viveva tormentato dalla
responsabilità di una figlia che nel 1969, in piena guerra del Vietnam,
aveva interpretato la sua protesta politica facendo scoppiare una bomba e
uccidendo, così, un passante. «La gente pensa che la storia abbia il
respiro lungo, ma la storia in realtà, ti si para davanti
all’improvviso», aveva commentato Zuckerman. Che appena un anno dopo
tornò a imporre la sua voce in un altro romanzo magistrale, Ho sposato
un comunista, le cui vicende sono ambientate nell’America del
maccartismo e riprendono il titolo del libro in cui la protagonista
femminile, l’ex diva Eva Frame, racconta il suo matrimonio con Ira
Ringold, attore radiofonico di umili trascorsi ma soprattutto
simpatizzante comunista.
TRE ANNI DOPO, con le trecentosessanta
pagine titolate La macchia umana, Philip Roth chiudeva la sua fortunata
trilogia facendoci piombare nel cuore del feuilleton che vide
protagonisti Clinton e Monica Lewinsky. Ma l’affaire non costituisce che
lo sfondo: la scena principale, invece, è occupata da un ex docente
universitario costretto a lasciare la sua cattedra in ragione di una
pretestuosa accusa di razzismo. Nel raccogliere la rabbia di Coleman,
nel risalire le tappe della sua vita già di per sé intricata quanto un
romanzo, Nathan Zuckerman aveva scoperto che quella vita gli era
diventata «più cara della sua»: era la vita di un uomo che nascondeva
antenati di colore, un uomo mai rassegnato alla sua origine e dominato,
perciò, dal risentimento.
Forte di queste sue performances alle
spalle, ora Zuckerman potrebbe a buon diritto contestare a Philip Roth
la decisione di averlo estromesso da alcuni romanzi che, infatti, orfani
della sua voce hanno rivelato una insolita debolezza. Everyman, per
esempio, che sostenuto da una scrittura veloce e da una trama essenziale
ripercorre la decadenza fisica di un uomo senza nome: one of us, o
meglio di quei personaggi che lo scrittore americano immagina insidiati
dai fantasmi della malattia e della morte. E Indignazione, che racconta
la storia di Marcus Messner ripercorrendo i passaggi tipici della vita
di uno studente in attesa di unirsi alle migliaia di ragazzi americani
che andarono a farsi ammazzare nella guerra di Corea, finché l’emozione
seguita all’incontro con la prima ragazza significativa non lo induce a
rivelarci che la sua voce è quella di un morto, e il suo racconto la
ricapitolazione di una giovane vita, stroncata da un colpo di baionetta
sulle colline assaltate dalle armate cinesi.
Naturalmente, non è
un caso, e se lo è sembra un caso di finzione, che l’ultimo tra i
romanzi licenziati da Philip Roth si intitoli Nemesi, quasi a sigillare
preventivamente una stagione che già denunciava sintomi di stanchezza.
Sinistro e dotato di risonanze tragiche, il titolo del romanzo evoca gli
arbitrii della dea dispensatrice di giustizia e allude al risentimento
per una disgrazia immeritata, l’epidemia di poliomielite che si abbatté,
nell’estate del 1944, sulla cittadina di Newark, teatro consueto dei
romanzi di Philip Roth.
E COSÌ, CON QUESTO BREVE romanzo tratto
dalle memorie di una estate infantile, si è chiusa la carriera di quello
che è stato forse il più dotato tra gli scrittori contemporanei,
solipsisticamente concentrato sulle ossessive proiezioni del proprio Io,
e perciò giudicato immeritevole di guadagnarsi il Nobel che, da anni,
assume le virtù letterarie quali trascurabili effetti collaterali di non
si sa bene quale geopolitico principio redentore.
Ora, forse
sussurrando melliflue formulette d’antan sulla morte dell’autore, i suoi
alter ego si prenderanno una rivincita sulle perfidie di cui Roth li ha
resi protagonisti, sebbene alla fin fine toccherà loro rassegnarsi al
ruolo di testimoni di una inappellabile volontà che tutti li trascende:
la volontà dell’autore, appunto.