Repubblica 22.5.18
Diderot-Scalfari dialogo a distanza su eros e Lumi
L’intellettuale contemporaneo riprende da quello settecentesco l’idea di una ragione non assoluta
di Roberto Esposito
Da
domani col nostro giornale il libro che unisce “Il sogno di
d’Alembert”, scritto dal grande promotore dell’Encyclopédie, a “Il sogno
di una rosa” del fondatore di Repubblica, che ne costituisce il seguito
ideale
Non poteva essere più tempestiva la riedizione
de Il Sogno di d’Alembert di Diderot, che ritorna in edicola con
Repubblica insieme al testo di Eugenio Scalfari Il sogno di una rosa,
sempre a cura di Daria Galateria e con una nuova prefazione di Scalfari.
Nel momento in cui si addensano intorno a noi ombre sempre più cupe e
ritornano gli antichi fantasmi della chiusura e dell’intolleranza, il
nome del «più illuminato degli illuministi» è come una boccata di
ossigeno.
Diderot — dopo Montaigne e prima di Kant — ci ricorda
che il tessuto della convivenza umana è un bene fragile. Che basta poco a
strapparlo e travolgerlo quando gli uomini cedono al ricatto della
paura e spezzano il vincolo della solidarietà. Proprio Kant aveva
affermato che l’Illuminismo non è solo un’epoca, ma il momento in cui
per prima volta gli uomini si pongono una domanda radicale sul proprio
presente, chiedendosi cosa significa essere uomini e donne oggi. Qual è
la nostra natura? Da dove proveniamo e verso dove, rischiosamente,
c’inoltriamo?
L’Illuminismo che ci è necessario non è quello della
ragione spiegata che inonda di luce la vita fino ad accecarla. Ma
quello che ne conosce il limite e la finitezza, affermando, tuttavia,
che proprio essi ritagliano l’eccezione della specie umana all’interno
dell’universo naturale.
Sono precisamente i motivi intorno ai
quali ruota il Rêve de d’Alembert di Diderot e su cui ritorna Scalfari,
una volta indossati i suoi panni nello straordinario pastiche narrativo
che lo vede dialogare con Mademoiselle Julie de Lespinasse — amica del
cuore dello stesso Diderot. Chi conosce l’opera saggistica di Scalfari —
adesso riunita nel Meridiano di Mondadori a lui dedicato, con un’ampia
introduzione di Alberto Asor Rosa — sa della sua propensione per questo
Illuminismo non euforico, e anzi radicato in un’antropologia realistica
che riconosce quanto gli istinti e le passioni appesantiscano le ali
della ragione. Ciò spiega la sua diffidenza nei confronti di Rousseau,
troppo incline a un’utopia destinata a rovesciarsi in distopia, e la
presa di distanza anche da Voltaire, con cui Scalfari dialogava in Per
l’alto mare aperto. Non a caso, in quel libro, per farsi guidare come da
un Virgilio settecentesco nel periplo attraverso la modernità, egli
aveva scelto proprio Diderot — forse colui che più si spinge verso
l’altro nume tutelare scalfariano che del Moderno segna invece la fine,
cioè Nietzsche. Entrambi, Diderot e Nietzsche, ovviamente da prospettive
ben diverse, inseriscono la vita umana nell’orizzonte della natura,
vietandosi non solo l’afflato religioso di Rousseau, ma anche il deismo
di Voltaire.
La lettura del Sogno di d’Alembert, scritto da
Diderot nel 1769 — poi bruciato dall’autore per volontà dello stesso
d’Alembert e riemerso solo nel 1830 dalla biblioteca di San Pietroburgo,
dove lo aveva portato Caterina di Russia — ne costituisce acutissima
testimonianza. Innanzitutto il dialogo, che vede confrontarsi
d’Alembert, la de Lespinasse e il medico-filosofo Théophile Bordeu, come
forma espressiva di quella civiltà della conversazione di cui ha
trattato splendidamente Benedetta Craveri, autrice della recensione alla
prima edizione italiana del Sogno. Conversazione che non è solo salotto
mondano animato dalle celebri salonnières francesi, ma anche luogo
genetico di quell’opinione pubblica che, a un certo punto, porterà alla
fine dell’Antico Regime. Ma soprattutto la vertiginosa risalita alle
fonti della vita che, tra metafore mirabolanti e immagini dirompenti,
vede l’organismo umano scaturire dalla materia inorganica per passaggi
continui che escludono l’intervento del soffio divino. Sorpassando di
slancio la prudenza del “geometra” d’Alembert — che aveva da anni
abbandonato il progetto visionario dell’Encyclopédie, diretto invece
fino all’ultimo da Diderot — questi elabora una visione del mondo
rigorosamente materialistica, anche se non deterministica. Contro il
dualismo cartesiano di ragione e corpo, segnato dal dominio sovrano
della mente, Diderot innerva l’Io nella corporeità dell’organismo vitale
nello stesso modo cui radica questo nel ciclo della natura.
Naturalmente
le ipotesi scientifiche di Diderot ci appaiono oggi fantastiche. Ma,
come osserva Daria Galateria, c’è qualcosa, nel suo sfrenato vitalismo,
che precorre non solo l’evoluzionismo, ma anche l’embriologia e la
genetica.
Proprio su questo punto — il rapporto tra l’Io e gli
organi del corpo che questi abita — si sofferma Scalfari, conferendo
un’inattesa pregnanza politica al racconto di Diderot. Da un lato
concentrando il fascio di luce decisamente sull’uomo e dall’altro
penetrando nella relazione tra la funzione cardinale del Cogito e il
suoi organi corporei. Delle due grandi metafore naturalistiche di
Diderot — quella del grappolo delle api e quella del ragno — Scalfari si
sofferma in particolare su quest’ultima. Come il ragno, la mente umana
si collega al mondo esterno attraverso mille fili che al contempo lo
illuminano e lo catturano nella propria rete. Eppure il suo dominio è
limitato, il suo regno non è assoluto ma, come con un’ardita metafora si
esprime Scalfari, costituzionale. Il re-ragno ha un compito tutt’altro
che facile, perché non soltanto gli organi cui intende comandare non
sempre gli ubbidiscono, ma lo condizionano, indebolendone le pretese
“monarchiche”. La stessa memoria, a cui pure un filosofo come Locke
condiziona la tenuta dell’identità personale, è qualcosa
d’intermittente.
Come del resto la volontà, spesso in contrasto
con se stessa, secondo le tesi di Schopenhauer. Certo, l’uomo, a
differenza della bestia, può decidere di fare o meno qualcosa,
sottraendosi al cerchio ripetitivo stimolo-reazione che imprigiona il
mondo animale nel proprio ambiente naturale. Eppure anch’egli soggiace
agli istinti, a partire da quello di sopravvivenza, che consente al
corpo umano di non disgregarsi, fino a quello di sopraffazione cui
spinge, inesorabilmente, la volontà di potenza che tutti, in vario modo,
ci muove, come Nietzsche ha definitivamente certificato.
Ma c’è
un altro tratto che separa la natura umana da quella animale, su cui già
Diderot, ma ancora di più Scalfari, si sofferma. Si tratta dell’eros.
Non la sessualità, ovviamente praticata da ogni animale, ma l’eros, come
componente specifica dell’animale umano.
Già un capitolo di Per
l’alto mare aperto (2010) era intitolato La potenza di Eros. Ma a essa è
specificamente dedicato il terzo volume della trilogia di Scalfari
Scuote l’anima mia Eros del 2011 (il primo dei tre, L’uomo che non
credeva in Dio, è del 2008).
Questo ci riporta alle relazioni
pericolose, e anche ai passaggi più audaci, del Rêve — libertinaggio,
onanismo, accoppiamenti multipli. Ma con una differenza non da poco.
L’amore è altro — qualcosa che rovescia la monarchia dell’Io in travolgente anarchia.
Esso
oltrepassa, non certo l’esperienza reale, ma la cultura del
libertinismo, orientata più al divenire che alla permanenza di un
sentimento che si promette eterno.
Anche un attimo, se vissuto
intensamente, può avere il sapore dell’eternità. Il richiamo della rosa,
che chiude il dialogo di Scalfari, rimanda, nell’eterno ritmo del
fiorire e dello sfiorire, alla fugacità senza fine dell’esistenza.