Corriere 22.5.18
Lo sberleffo di Socrate
Il filosofo provocò la giuria ateniese come se cercasse la condanna a morte
Un
saggio di Mauro Bonazzi (Laterza) sottolinea che la condotta
processuale del pensatore greco non era rivolta a ottenere un verdetto
di assoluzione. Si ha piuttosto la sensazione che intendesse lasciare
una testimonianza per i posteri
di Paolo Mieli
l tormento della democrazia vinta e umiliata dagli Spartani
Il
saggio di Mauro Bonazzi Processo a Socrate è pubblicato da Laterza
(pagine 172, e 18). L’autore, firma del «Corriere» e de «la Lettura»,
insegna Storia della filosofia antica presso l’Università di Utrecht e
l’Università Statale di Milano. Tra i libri dedicati al maestro di
Platone: Michela Sassi, Indagine su Socrate (Einaudi, 2015); Heinrich
Maier, Socrate. La sua opera e il suo posto nella storia (traduzione di
Giovanni Sanna, La Nuova Italia, 1943); Louis-André Dorion, Socrate
(traduzione di Giorgia Castagnoli, Carocci, 2010). Opere di carattere
più generale: Luciano Canfora, Il mondo di Atene (Laterza, 2011); Cinzia
Bearzot, Come si abbatte una democrazia (Laterza, 2013); Eva
Cantarella, I supplizi capitali in Grecia e a Roma (Rizzoli, 1991); Leo
Strauss, Atene e Gerusalemme (introduzione di Roberto Esposito, Einaudi,
1998).
E se fosse stato lui stesso a decidere di
morire? È la domanda che si pone Mauro Bonazzi nell’introduzione al
convincente saggio Processo a Socrate, pubblicato da Laterza. Domanda
legittima se si tiene conto della circostanza che Platone e Senofonte,
due allievi del filosofo che si sono soffermati su quell’ultima fase
della sua vita, concordano sul fatto che nel processo — 399 avanti
Cristo — Socrate tenne deliberatamente un atteggiamento di intransigenza
tale da rendere pressoché impossibile evitargli la condanna. Il
pensatore fu oltremodo rigido: se avesse rinnegato almeno una minima
parte delle sue idee, se avesse seguito «una linea più conciliante»,
avrebbe potuto ottenere l’assoluzione. Perché non volle salvarsi?
Bonazzi
ricostruisce il caso, che finì per diventare «uno scontro tra la
filosofia e la democrazia». Lettori e studiosi — ricorda l’autore —
hanno sempre cercato di sciogliere questo enigma prendendo le parti ora
di uno, ora dell’altro tra i due contendenti: più spesso in favore di
Socrate, a volte anche per Atene. Quelli che si sono schierati in difesa
di Socrate lo hanno fatto rivendicandone «la lezione di autonomia e di
indipendenza contro i frutti nefasti del conformismo e dei pregiudizi
che sempre rischiano di portare una società a chiudersi in se stessa»;
gli altri, per Atene, «contestando le posizioni più o meno espressamente
antidemocratiche del filosofo». Il Socrate di Bonazzi — al quale pure
va riconosciuto di non essersi macchiato di «colpe politiche» — avendo
l’opportunità di trovare infinite vie di fuga, «sceglie» di troncare la
propria vita costringendo praticamente la giuria a decretare la sua
morte.
Ma procediamo con ordine. All’epoca del dibattimento,
Socrate aveva circa settant’anni e in molti hanno ritenuto che quello
contro di lui sia stato un processo politico (ancorché non
esplicitamente tale) a causa del fatto che il filosofo aveva avuto
legami con i cosiddetti Trenta Tiranni (nonché con i gruppi oligarchici
della città). I Trenta — accolti all’inizio da quasi tutti come
pacificatori e restauratori di politiche basate sulla moderazione contro
sfrenatezza, corruzione e lussuria prodotte dal regime democratico —
avevano in seguito precipitato la città nel terrore. Socrate era stato
effettivamente in rapporti di amicizia con il loro leader, Crizia (che
pure talvolta il filosofo non esitò a criticare apertamente: in qualche
occasione, secondo Bonazzi, «sembra essere stato uno dei pochi a non
collaborare alla cattura e uccisione di cittadini innocenti»). È poi
sufficientemente provata una sua «distanza crescente rispetto alle
malefatte dei Trenta». Dopodiché, infine, quando la «tirannide» fu
abbattuta, Atene aveva scelto (nel 403) di darsi un’amnistia a norma
della quale — eccezion fatta per coloro che si erano provatamente
macchiati di delitti — nessun simpatizzante degli oligarchi poteva
essere perseguito. Anzi, era addirittura vietato rievocare il recente
passato. Sicché — secondo i sostenitori della tesi che quello contro
Socrate fu un processo politico — si sarebbe proceduto con capi di
imputazione fittizi proprio per non incappare in ciò che era
espressamente vietato dalla legge dell’oblio.
In realtà le norme
di cui qui stiamo parlando non erano state applicate fino in fondo.
Altro che oblio: dei trentacinque discorsi che costituiscono il corpus
di Lisia, nota lo studioso, almeno sei denunciano, più o meno
velatamente, gli avversari come «collaborazionisti». Nel complesso, è
vero, l’amnistia funzionò; per chi, però, aveva militato a favore
dell’oligarchia furono comunque anni «rischiosi». Eppure non fu per
questo che Socrate andò incontro alla morte. Anche se il suo prestigio
intellettuale ne risentì: nelle Nuvole di Aristofane (che fu uno dei
suoi nemici), Socrate rappresenta «il peggio della nuova cultura,
responsabile, secondo i tradizionalisti, della corruzione della città».
Gli si imputa di sostenere «bizzarre tesi scientifiche che servono in
realtà a celare maldestramente il suo ateismo»; di comportarsi come i
sofisti, cioè di usare le parole per ingannare. Ed è anche comprovato
che all’epoca dei Trenta Tiranni Socrate, «fece parte del novero di quei
pochi cittadini — circa tremila — che mantennero intatti i loro diritti
e poterono continuare a vivere in una relativa tranquillità». Ma
Bonazzi suggerisce grande cautela prima di trarre da ciò drastiche
conclusioni: gli indizi di cui siamo in possesso, sottolinea, «non
giustificano l’ipotesi di un processo politico». Né andrebbe dimenticato
che tra gli interlocutori del filosofo c’erano molti «simpatizzanti
della democrazia». Socrate, insomma, appare come «una figura
difficilmente riducibile negli schemi tutti politici dell’opposizione
tra oligarchi e democratici».
Sono tanti gli episodi, noti, che
suggeriscono l’idea di una sua «coerente equidistanza». Ed è chiaro che
ebbe sempre cura «di rivendicare una posizione di assoluta autonomia
rispetto alle diverse fazioni in lotta per il potere». E anche questo
particolare «mostra che una lettura troppo politica del processo rischia
di forzare le testimonianze». Contro l’ipotesi di un processo politico
depone il profilo degli accusatori, in particolare di quello più
importante: il politico Anito, che, esiliato dai Trenta, era rientrato
in città al seguito di Trasibulo e aveva conquistato una grande
influenza. Isocrate lo elogiò per «aver saputo resistere al desiderio
della vendetta». E a Bonazzi sembra improbabile che un personaggio della
sua caratura «fosse interessato ad attaccare Socrate per motivi
politici». Anche perché con persone come lui «siamo ben lontani da
quegli ambienti democratici oltranzisti che più sarebbero stati
interessati a continuare la battaglia» contro gli oligarchi e coloro che
li avevano sostenuti.
Ma veniamo al processo. L’uditorio era
composto da 501 giudici e da un folto pubblico. Socrate scelse di
preparare da solo i suoi due (forse tre) discorsi di difesa, rifiutando
l’aiuto del già citato Lisia, uno dei più celebri oratori dell’Atene
dell’epoca. Il processo poi aveva norme garantiste: se, ad esempio, un
imputato fosse stato assolto, gli accusatori rischiavano di essere
puniti. «A ulteriore conferma», nota Bonazzi, «del fatto che non
mancavano strumenti per impedire che si intentassero processi con troppa
disinvoltura». Ciò che in quel frangente il filosofo temeva di più era
il boato del pubblico, che effettivamente fu usato contro di lui (ne
parla Platone per stigmatizzarlo). Comunque la prima votazione si
risolse in favore sì dell’accusa, ma con uno scarto tutto sommato
ridotto: 280 voti contro 221, e Socrate si lasciò persino andare a
qualche dileggio nei confronti di chi lo aveva trascinato in giudizio.
Ma la seconda votazione, quella in cui si doveva decidere tra una
sentenza di morte e il pagamento di un’ammenda, si concluse con una
maggioranza a favore della pena capitale. Una maggioranza netta.
Così
venne il momento della sua morte. I due tipi di esecuzione più
praticati nell’Atene dell’epoca erano la precipitazione in un baratro e
una sorta di crocefissione che conduceva al decesso dopo una lunga
agonia. La somministrazione del veleno, una pratica di gran lunga e ad
ogni evidenza preferibile alle altre due, fu introdotta verso la fine
del V secolo. Ma, come ha messo in evidenza Eva Cantarella, era
considerata un privilegio, dal momento che la cicuta, estremamente rara
in Attica, aveva un costo molto alto e tale costo era tutto a carico del
condannato. Non sappiamo, dice Bonazzi, chi pagò per la dose di
Socrate, «se lui stesso o quegli amici che si erano offerti come garanti
in tribunale». Ma sappiamo che quello fu l’unico «lusso» che Socrate
volle concedersi al termine del dibattimento.
L’esito del processo
— torniamo a dire — non era affatto scontato, come sembrano credere sia
Platone che Senofonte. «Non si trattò di un processo sommario», scrive
Bonazzi; tutte «le procedure furono rispettate con grande attenzione»;
le accuse «erano meno assurde di quanto una lunga tradizione si ostini a
far credere»; alcune delle idee del filosofo, «se non adeguatamente
chiarite», potevano dare adito a «perplessità e dubbi»; i giurati erano
meno prevenuti di quanto sia stato tramandato, tant’è che nella prima
votazione fu condannato per il ridotto numero di voti di cui si è detto,
a dispetto del suo atteggiamento «poco accomodante», «del tutto
inadatto al contesto di un tribunale».
Praticamente Socrate si
rivolse ai giurati come se si trattasse di persone simili a lui, con la
sua stessa preparazione. Nel settimo capitolo del Trattato sulla
tolleranza, Voltaire metterà in risalto questa circostanza, scrivendo
che fu come se in quel momento il tribunale di Atene contasse 220
filosofi («Non è poco», ironizzò). È in effetti clamoroso che,
nonostante tutto, una parte significativa dei giurati si sia espressa a
favore di Socrate, il quale pure, torna a sottolineare Bonazzi, non
aveva dato prova di grande sensibilità nei loro confronti. A più
riprese, poi, Socrate non si limitò a negare l’accusa o a ridurne la
portata, ma la rovesciò.
Vista in quest’ottica, la vicenda del
processo (nel quale fu tutta l’esistenza del filosofo ad essere portata
in giudizio) è la storia di un «doppio fallimento»: il fallimento della
democrazia, «incapace di ascoltare il tafano che cercava di risvegliarla
dal torpore dei suoi pregiudizi», ma forse anche il fallimento del
filosofo, che non seppe (o non volle) trovare «le parole giuste per far
capire le sue ragioni».
Va ricordato che in gioco c’era appunto la
vita stessa di Socrate. E «la vittoria di misura nella prima
votazione», scrive Mauro Bonazzi riflettendo su come ne riferì Platone,
«lasciava immaginare che l’orientamento della giuria fosse quello di
stabilire una pena più leggera, se non un’ammenda pecuniaria,
eventualmente l’esilio».
Due eventualità che però Socrate «escluse
sdegnosamente, rifiutandosi di prenderle in considerazione», anche
perché, se lo avesse fatto, avrebbe mostrato di accettare la condanna,
una condanna «che non riguardava fatti specifici bensì la condotta di
una vita intera». Ma, prosegue l’autore, «per quanto comprensibile»,
questo rifiuto si tradusse poi nella «provocazione più estrema»: quando
arrivò il suo turno, Socrate propose come pena alternativa «di essere
mantenuto a vita nel Pritaneo a spese dello Stato, un privilegio
normalmente riservato agli orfani di guerra e ai vincitori delle gare
olimpiche». Stravagante. Quasi uno sberleffo. E successivamente lo
stesso Socrate avanzerà la proposta alternativa del pagamento di una
cifra irrisoria «che solo grazie all’intervento dei suoi amici divenne
più consistente».
Si può dunque ben comprendere l’irritazione dei
giurati i quali, nella votazione successiva, decisero, con una
maggioranza ben più consistente di quella del primo voto, di optare per
la pena di morte. A quel punto era incredibile che ci fosse ancora
qualcuno disposto a perdonare il filosofo. Ha acutamente osservato
Michela Sassi, che, se l’Apologia di Platone «riflette anche solo la
sostanza del discorso» pronunciato da Socrate, «dovremmo forse stupirci
dei 140 che gli avrebbero mantenuto il loro favore».
Socrate
adottò dunque una strategia che, nel contesto di quel processo, non
poteva che condurre alla sua condanna. Ma che «sulla lunga distanza era
in grado di rovesciare tutto». E infatti rivendicando la coerenza della
sua battaglia per la verità, «è riuscito nell’impresa di far finire sul
banco degli imputati Atene, la città che non aveva saputo accettare la
sua sfida e per questo aveva scelto di ripiegarsi su sé stessa e sui
propri pregiudizi». Condannato dal tribunale di Atene, Socrate è stato
«assolto e premiato da quello della storia».
«Per quanto sta in
noi giudicare», commenta Bonazzi, «la condanna di Socrate fu una
decisione profondamente sbagliata, che macchiò l’onore della città». Ciò
detto, prosegue lo studioso, «rimane difficile sottrarsi a una
sensazione d’amarezza di fronte a un conflitto che ha opposto il
filosofo e la sua città, tra una città che non ha saputo ascoltare e un
filosofo che forse non ha trovato le parole giuste per farsi ascoltare».
Ma esistevano queste parole? Probabilmente Socrate non ebbe alcuna
intenzione di cercarle. Forse perché non voleva trovarle. E voleva
vincere la partita per lui più importante, quella di come la sua
immagine sarebbe finita nei libri di storia.