lunedì 21 maggio 2018

Repubblica 21.5.18
La crisi dei democratici
I due pd e la rinascita della sinistra
di Emanuele Felice


Emanuele Felice, economista e storico, è professore associato all’Università “G. D’Annunzio” di Chieti-Pescara. Il suo ultimo libro: “Storia economica della felicità” (Il Mulino, 2017)

La politica non è solo personalismi e tattica. Ma visione strategica, cultura, capacità di leggere l’economia e la società. Forse è ora che il campo riformista ricominci a parlare di idee, se vuole sperare di recuperare il terreno perduto. Oggi nel Pd si confrontano due visioni diverse: sembrano antitetiche, ma a ben vedere non lo sono. I riformisti all’opposizione dovranno riuscire a coniugarle, se vogliono offrire un’alternativa credibile al governo populista.
Da un lato l’area renziana intende seguire le orme di Macron: puntare sulle riforme istituzionali, per rendere l’Italia più competitiva. La vocazione rimane quella centrista, nonostante l’idea di base (l’importante è crescere, poi i benefici arriveranno per tutti) si sia dimostrata alquanto ottimistica nel mondo avanzato.
Sull’altro versante, il resto del Pd invita a tornare a porre con forza il tema delle disuguaglianze: di reddito, di genere, territoriali (fra Nord e Sud, fra aree interne e centrali), come pure fra le generazioni. A tratti il modello sembra essere piuttosto quello di Corbyn, in Inghilterra: passa per la messa in discussione delle politiche neo-liberali degli ultimi tre decenni e per l’ambizione di tornare a governare la globalizzazione.
Chi ha ragione? La seconda strada è quella certo che meglio prova a fare i conti con la sconfitta storica del 4 marzo.
Si fa carico di preoccupazioni reali, sottovalutate finora: la crescita delle disuguaglianze all’interno dei paesi ricchi, e in Italia, i rischi che tutto ciò comporta anche per la democrazia.
Nondimeno, questa strada si può seguire senza abbandonare alcuni punti della prima prospettiva. Anzi, se riuscisse a incorporarli ne verrebbe rafforzata.
Prendiamo il miglioramento delle istituzioni: l’Italia continua ad avere bisogno di regole più semplici, efficaci, e non si vede perché queste debbano essere in contraddizione con incisive politiche sociali. Il superamento del bicameralismo paritario, la ridefinizione del rapporto stato-regioni erano i due principi cardine, formulati male, dell’ultima riforma costituzionale. Quella riforma fu bocciata dagli elettori soprattutto perché identificata con Renzi. Ma andava nella direzione giusta, così come la riforma amministrativa, scritta (quasi) altrettanto male e anche per questo implementata quasi per nulla. Oltralpe, Macron non sta affatto improvvisando nella sua riforma dello Stato, avvalendosi di tecnici competenti: tanto più necessari quando si scrivono leggi ambiziose.
Secondo, e ancora più importante: l’europeismo. Non è affatto detto che la lotta alla disuguaglianza debba entrare in rotta di collisione con la sfida, difficile e decisiva, per cambiare l’Europa. Al contrario. Si noti che su questo le proposte di Macron non sono più avanzate di quelle dei Socialisti e democratici, presentate al Parlamento europeo: queste aggiungono alla piattaforma di Macron i diritti sociali e l’idea di un welfare comune. Piuttosto, il presidente francese ha il merito di aver portato il tema della riforma dell’Unione al tavolo intergovernativo, che (purtroppo) oggi conta molto più dell’Europarlamento. L’Europa, la riforma dello Stato, le politiche sociali, ma anche i diritti civili (forse il lascito principale dei passati governi alla storia): sono questi i temi su cui il Pd, se ritroverà orgoglio e ambizione, potrà sperare di aprire contraddizioni nel fronte populista.