Repubblica 21.5.18
Gustavo Zagrebelsky è stato presidente della Corte Costituzionale nel 2004
“Il contratto è un patto di potere ma il Colle non è un notaio”
intervista didi Liana Milella
Si
sta configurando un governo a composizione predeterminata e il capo
dello Stato rischia di trovarsi con le spalle al muro Sulla sicurezza
emerge dal programma uno Stato dal volto spietato verso i deboli e i
diversi, non compatibile con i diritti umani Incostituzionale il
Comitato di conciliazione se facesse derivare obblighi di comportamento
per premier e ministri
Sono trascorsi due mesi e mezzo dal voto e ancora non abbiamo il nuovo governo. Lei, professor Zagrebelsky, che ne dice?
«Dal
4 marzo qualcosa di nuovo cerca di nascere. Che ci riesca, sia vitale,
sia davvero qualcosa di nuovo e, alla fine, sia bene o male, è presto
per dirlo. Ma non stupisce il lungo travaglio. Il voto ha detto una cosa
semplice e una difficile. Quella semplice è un desiderio di rottura;
quella difficile è il compito ricostruttivo. Si immagina il presidente
della Repubblica che, per tagliar corto, soffoca la novità con un
governo tecnico?».
Dunque, nessun problema?
«No! Ce n’è uno
grande. Sembra si stia configurando un governo a composizione e
contenuti predeterminati, totalmente estranei al Parlamento e al
presidente della Repubblica. Il quale rischia di trovarsi con le spalle
al muro per effetto di un “contratto” firmato davanti al notaio. Eppure,
la nomina del governo spetta a lui. Lui non è un notaio che asseconda
muto. È piuttosto un partner che può e deve intervenire per far valere
ciò che gli spetta come dovere istituzionale. Non si tratta di astratti
scrupoli di giuristi formalisti, ma di importantissimi compiti di
sostanza».
Lei pensa ad aspetti della procedura seguita che impedirebbero al capo dello Stato di intervenire come dovrebbe poter fare?
«Teoricamente, il presidente della Repubblica potrebbe respingere le proposte fattegli.
Ma,
se lo immagina il caos che ne deriverebbe? La prassi maturata in tanti
anni di governo repubblicano è questa. Prima, le consultazioni con i
gruppi parlamentari; poi, in base a queste indicazioni, l’incarico a una
persona capace di unire una maggioranza; infine, se l’incaricato
“scioglie positivamente la riserva”, la nomina a presidente del
Consiglio e, su sua proposta, la nomina dei ministri. La formazione del
governo è un atto complesso e, nei diversi passaggi che ho detto, il
presidente ha tutte le possibilità (in passato ampiamente esercitate)
per far valere i poteri che gli spettano. Se egli accettasse a scatola
chiusa ciò che gli viene messo davanti, si creerebbe un precedente verso
il potere diretto e immediato dei partiti, un’umiliazione di Parlamento
e presidente della Repubblica, una partitocrazia finora mai vista».
E quali passi, secondo lei, occorrerebbe fare per evitare questo esito?
«Il presidente, ricordando vicende del passato, ha detto con chiarezza ch’egli intende far valere le sue prerogative.
Potrebbe
procedere a nuove consultazioni, e poi conferire un incarico corredato
da condizioni che spetta a lui dettare, come rappresentante dell’unità
nazionale e primo garante della Costituzione. Per inciso, finora, non
esiste alcun “incaricato” e i due firmatari dell’atto notarile, dal
punto di vista costituzionale, sono soggetti privi di mandato.
Tutto potrebbe avvenire, se non sorgono problemi tra i partiti, in pochissimo tempo».
Lei parla di atto complesso e di condizioni poste dal presidente. Quali potrebbero essere?
«Ci
sono cose costituzionalmente “non negoziabili”. Innanzitutto, per ciò
che riguarda le persone chiamate al governo che devono portare la loro
carica con “dignità e onore”. Nelle scelte politiche, invece, il
presidente della Repubblica non può intervenire se non per rammentare
che ve ne sono, accanto alle libere, altre che libere non sono. La
Costituzione è un repertorio di scelte non “negoziabili”».
Vuole fare qualche esempio?
«Mi limito ad alcuni punti.
Innanzitutto,
i vincoli generali di bilancio. Mi pare che, sulle proposte che
implicano spese o riduzioni di entrate, si discuta come se non ci fosse
l’articolo 81 della Costituzione che impone il principio di equilibrio
nei conti dello Stato e limiti rigorosi all’indebitamento. Ciò non
deriva (soltanto) dai vincoli europei esterni, ma prima di tutto da un
vincolo costituzionale interno che non riguarda singoli provvedimenti
controllabili uno per uno, ma politiche complessive».
Sull’equilibrio dei conti finora molto si è detto, ma lei ha individuato altre “stranezze”?
«Sono
colpito dalla superficialità con la quale si trattano i problemi della
sicurezza. Dall’insieme, emerge uno Stato dal volto spietato verso i
deboli e “i diversi”: l’autodifesa “sempre legittima”; la “chiusura”,
non si sa come, dei campi Rom; la restrizione delle misure alternative
alla pena detentiva; perfino l’uso del Taser, la pistola a onde
elettriche che l’Onu considera strumento di tortura; le misure contro
l’immigrazione clandestina con specifiche figure di reato riservate ai
migranti clandestini; il trasferimento di fondi dall’assistenza dei
profughi ai rimpatri coattivi. Come ciò sia compatibile con i diritti
umani, con la ragionevolezza e l’uguaglianza, con il rispetto della
dignità e del principio di recupero sociale dei condannati, con
esplicite e puntuali pronunce della Corte costituzionale, non si
saprebbe dire. La “libertà di culto” è trattata come questione di
pubblica sicurezza, con riguardo alla religione islamica (controllo dei
fondi, registro dei ministri del culto, ecc.). Nelle 57 pagine del
contratto ci sono anche cose che possono considerarsi positive. Non ne
parlo, in quanto attengono a scelte discrezionali su cui il presidente
della Repubblica non avrebbe motivo di intervenire.
Ma su quelle
anzidette certamente sì, nella sua veste di garante della Costituzione
contro involuzioni che travolgono traguardi di civiltà faticosamente
raggiunti».
Come mai non ha parlato finora delle riforme istituzionali?
«Innanzitutto,
noto che non c’è parola circa la legge elettorale e l’esecrato (a
parole) Rosatellum. È poi caduta l’ipotesi di una nuova riforma di
sistema, per esempio in vista di qualche tipo di presidenzialismo.
L’esperienza ha forse reso cauti. Invece, si ragiona di interventi
puntuali. È prevista la riduzione del numero dei parlamentari, cosa da
gran tempo auspicata (a parole). Circa la democrazia diretta, si
prospetta l’introduzione del referendum propositivo accanto a quello
abrogativo, con l’abolizione della condizione della partecipazione della
maggioranza degli elettori: riforma molto democratica, a prima vista,
ma forse solo a prima vista. E poi c’è la questione del vincolo di
mandato».
Per l’appunto: mi meravigliavo che non arrivasse qui.
«La
discussione in proposito è legittima e la questione delicatissima. Ma
non possiamo soltanto deplorare il trasformismo di deputati e senatori
che passano dalla maggioranza all’opposizione o, più spesso,
dall’opposizione alla maggioranza cedendo a promesse e corruzione.
Questo è uno dei non minori mali del nostro sistema parlamentare. Il
“contratto”, in proposito, è generico, ma insiste su un punto che a me
pare rilevante: l’esigenza che, con “cambio di casacca”, non si
determini per interesse privato il tradimento delle aspettative degli
elettori rispetto al governo. Se la coscienza del parlamentare lo fa
stare stretto dove è stato eletto, lasci il suo posto in Parlamento.
La
libertà di coscienza, che il divieto di mandato vincolante vuole
proteggere, dovrebbe invece essere fermamente garantita in tutti gli
altri casi, in particolare nel procedimento legislativo. Piuttosto, a
meno di errore, non trovo nel contratto nulla a proposito della
questione di fiducia che tante volte il governo ha usato, per l’appunto,
per coartare la libertà di coscienza dei parlamentari».
Lei, nel corso di questo colloquio, ha sempre messo il “contratto” tra virgolette.
Perché?
«I
contratti sono sempre specifici. Così è, ad esempio, il
Regierungsvertag (contratto di governo) tedesco, al quale impropriamente
si è accostato il nostro che parla invece dell’universo mondo. Accanto a
cose precise (tasse e reddito di cittadinanza, ad esempio) abbondano
espressioni come: occorrerà, è necessario, si dovrà, è
imprescindibile... Questo non è un contratto ma un accordo per andare
insieme al governo.
Insomma, un patto di potere, sia pure per fare cose insieme.
Niente
di male. Ma chiamarlo contratto è cosa vana e serve solo a dare l’idea
di un vincolo giuridico che non può esistere. In politica, come
nell’amore, non si sta insieme per forza, ma solo per comunanza di
sentimenti o d’interessi».
Ma è previsto addirittura un organismo che dovrebbe garantire il rispetto del patto, il “Comitato di conciliazione”.
«È
una figura fantasmatica, solo abbozzata. Quando tra due parti nasce un
contrasto, è bene cercare di appianarlo (cabine di regia, consigli di
gabinetto, caminetti). Ma qui si immagina qualcosa di più, qualcosa di
formale pensato in termini privatistici. In coda ai contratti si indica
il “foro competente” in caso di lite. Qui c’è il “comitato di
conciliazione”. Cosa piuttosto innocua se rimane nella dinamica dei
rapporti politici tra i “contraenti”. Cosa pericolosissima, anzi
anticostituzionale, se dalle decisioni di tale comitato si volessero far
derivare obblighi di comportamento nelle sedi istituzionali, del
presidente del Consiglio, dei ministri, dei parlamentari».