Repubblica 20.5.18
Il momento del Pd
Un partito lontano dal suo popolo
di Stefano Cappellini
Se
ai tanti inutili sondaggi che i leader del Pd compulsano
settimanalmente per registrare scostamenti dello zero virgola
sostituissero un più urgente studio sul sentimento del popolo della
sinistra — esiste ancora, eccome! — scoprirebbero che è l’impotenza lo
stato d’animo dominante. Degli elettori ancora fedeli, di quelli persi
per strada e di quelli rimasti alla finestra.
Impotenza che deriva
dalla sensazione, del tutto corretta, di non avere una rappresentanza
politica degna della propria missione in un passaggio storico cruciale,
segnato dalla imminente nascita di un governo la cui cifra politica, al
di là delle dissimulazioni grilline e leghiste, è il populismo nella sua
versione più destrorsa e reazionaria.
Fate caso alle parole più
usate nel lessico che ha accompagnato l’assemblea nazionale del Partito
democratico: congelare, rinviare, mozione, tregua. Un partito che
dovrebbe sentire su di sé tutto il peso di incarnare un’opposizione che
sappia in tempi rapidi proporsi come alternativa alla deriva
grillo-leghista è invece oggi impegnato in una stucchevole coreografia
utile solo a mascherare uno scontro di potere nella sua versione
peggiore, quella priva di contenuti contrapposti e caratterizzata dalla
guerra di cordate. Poco conta essere l’unica forza che ha ancora
organismi dirigenti veri e una dialettica interna non sottomessa
all’autocrazia del leader o dell’azienda madre, se questa prerogativa
viene spesa tutta per discutere di astratte formule: congresso subito o
tra due mesi ovvero tra sei, leader a tempo, reggente vero, reggente
dimezzato. Un dibattito astruso che non ha nulla più a che fare con
l’esercizio della democrazia di partito. Conta o mediazione, compromesso
o scontro, nulla di ciò che in questo momento anima la discussione del
Pd ha un impatto sul corso politico del Paese e, tanto meno, sulla vita
reale delle persone.
A più di due mesi dalle elezioni non c’è mai
stato modo di assistere a una seria analisi delle ragioni di una
sconfitta epocale, che non ha risparmiato né il Pd né chi lo ha
abbandonato scoprendosi ridotto a percentuali di mera sopravvivenza. In
questi anni la preoccupazione principale del Pd è stata sempre prorogare
una riflessione sul restringimento del consenso. Ogni volta c’è una
scusa buona per parlarne più avanti. Nel frattempo, non si parla di
nulla.
Tutto sembra complicato e contorto.
Eppure le regole per
impostare una ripartenza politica sono le stesse da sempre, almeno nei
partiti uniti ancora da un vincolo politico e non solo burocratico:
occorre aver chiaro perché si è perso, costruire un programma che sani i
difetti di quelli precedenti, attrezzare un campo di rappresentanza
congruo e dotarsi di un leader vero, riconosciuto e che, possibilmente,
sia in campo non per interposta persona.
Il Pd invece è fermo, come
il semaforo di Prodi nella famosa scenetta di Corrado Guzzanti. Matteo
Renzi continua a restituire l’impressione di volerlo eterodirigere
paralizzandone ogni funzione vitale. I suoi avversari, perlopiù tutti
suoi alleati nella stagione precedente, devono ancora dimostrare di
avere idee per sostituire Renzi in base a una strategia e non solo a un
rovescio di potere. Il popolo della sinistra assiste attonito e, avanti
così, c’è il rischio che non coltivi più nemmeno la speranza di
investire nel Pd la possibilità di non restare in balia per anni dei
contratti giallo-verdi.