La Stampa 20.5.18
Balcani, oltre il confine del fiume Evros
Si riapre la porta orientale dell’Europa
Tra i profughi siriani e iracheni in marcia anche i primi cittadini turchi che fuggono dal governo di Ankara
di Mariangela Paone
Gli
 unici suoni che si sentono in lontananza sono i clacson e il rumore dei
 camion che provengono dalla strada che porta a Edirne. La città turca è
 lì, a una manciata di chilometri, dietro gli alberi che costeggiano il 
fiume Evros, la frontiera naturale che segna il confine tra la Grecia e 
la Turchia. Sono le cinque, comincia ad albeggiare e vicino alle rotaie,
 nel passaggio a livello del paesino di Marasia, appaiono i segni di chi
 è passato da qui. Un paio di scarpe da tennis femminili, una maglietta.
Il fiume-confine
Questo
 è uno dei punti da cui negli ultimi mesi migliaia di persone sono 
entrate dalla Turchia in Europa. La vecchia e pericolosa rotta 
dell’Evros sembra essersi riaperta. Ad aprile, secondo i dati dell’Alto 
Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unhcr), sono passate 
da qui circa 3000 persone, più di quante ne siano arrivate sulle coste 
delle isole dell’Egeo settentrionale e metà di quelle registrate su 
questa frontiera in tutto il 2017.
Il primo rifugio
La caffetteria
 di Popi Katrivessi si trova a pochi metri dalla linea di confine. Dalla
 terrazza si vedono i binari del treno che costeggiano il fiume e poco 
dopo il cartello rosso che indica in greco e in inglese il divieto 
d’accesso. «Arrivano qui. Si cambiano nel bagno e cerchiamo di aiutarli 
come possiamo», racconta la proprietaria del bar, stringendosi nelle 
spalle. Tra tutte le persone che sono passate nell’ultimo periodo, 
Katrivessi ricorda una famiglia di siriani, padre, madre e quattro figli
 a cui hanno offerto del tè prima di vederli riprendere il cammino. Ad 
arrivare sono soprattutto famiglie con bambini dalla Siria, dall’Iraq e 
dall’Afghanistan ma negli ultimi mesi anche cittadini turchi. «Passano 
anche molti giovani ben vestiti. Uno di loro, un poliziotto, ha detto 
che scappava dalla dittatura di Erdogan e ha lasciato il suo tesserino a
 mia figlia», racconta Katrivessi , prima di ricordare le centinaia di 
cadaveri che negli anni sono stati ritrovati nel fiume.
La fuga da Afrin
L’aumento
 degli arrivi negli ultimi mesi è anche coinciso con l’offensiva turca 
nell’enclave curda in Siria di Afrin. Da lì viene Amman. Agli agenti che
 pattugliano la stazione di Orestiada, la cittadina più grande della 
zona, mostra il documento che gli permette di rimanere temporaneamente 
in Grecia. L’orologio della stazione è fermo all’una meno venti, ma sono
 le 9 del mattino. «Oggi non si è visto nessuno», dice uno dei 
poliziotti. A pochi metri, dentro a dei vecchi vagoni arrugginiti fermi 
sui binari ci sono i segni dei recenti arrivi: due zaini e due giubbini 
seminuovi in mezzo ad altri vestiti impolverati.
Amman chiede 
informazioni per il treno per Salonicco ma il servizio sulla linea è 
sospeso. In sostituzione c’è un autobus che costa 40 euro a persona. A 
lui, che viaggia con la moglie e un bambino di 2 anni, in tasca ne sono 
rimasti 50. Sono arrivati un mese fa e sono stati prima ad Atene e poi a
 Salonicco. «Ma tutto è pieno», dice. «Siamo tornati qui perché era 
l’unico posto che conoscevano ma ora vorremmo tornare a Salonicco», 
aggiunge Amman, che ad Afrin lavorava in una fabbrica tessile.
Strutture al limite
Ma
 a Salonicco le strutture di accoglienza sono al limite. «Per questo 
chiediamo alle autorità di fare qualcosa per aumentare la capacità di 
accoglienza», spiega Liene Veide, della delegazione dell’Alto 
Commissariato. Nelle ultime settimane c’è stato chi, tra gli ultimi 
arrivati nella seconda città della Grecia, è stato costretto a passare 
almeno una o due notti all’aperto. «Chi arriva dall’Evros o rimane in 
strada o è ospitato da famiglie che già hanno una sistemazione grazie al
 programma dell’Unhcr o va verso i campi, senza essere registrati e 
senza i servizi previsti per gli altri che sì lo sono», afferma Eleni 
Stamatoukou, dell’organizzazione Solidarity Now.
«Negli ultimi giorni
 gli arrivi sembrano diminuiti. La situazione cambia di giorno in 
giorno», aggiunge la portavoce di Unhcr a Salonicco. Nel centro di 
accoglienza e identificazione di Fylakio, vicino al confine con la 
Turchia, giovedì c’erano 250 persone per una capienza di 240, e 110 
erano minori non accompagnati. Da fuori, oltre le due barriere di ferro e
 filo spinato che circondano il campo, si vedono bambini correre tra i 
prefabbricati.
Il sole è già alto e inizia a fare caldo. Sulle strade
 sterrate che attraversano i campi dei paesini che si snodano lungo la 
frontiera, non si avvista nessuno. Ma i segni degli arrivi degli ultimi 
giorni sono lì, in un vecchio magazzino con le saracinesche mezze alzate
 e i vetri delle finestre rotti, a pochi metri dalla stazione di 
Didimotiko, uno dei punti di arrivo più a sud: zaini, coperte, scarpe, 
pantaloni, magliette ,mutande, calzini, due piumini da bambino, uno 
verde e uno azzurro e una sciarpa blu a poca distanza sembrano essere 
stati lasciati lì da poco.
Chi arriva, dopo aver attraversato il 
fiume a piedi nei punti in cui l’acqua lo permette o su piccoli gommoni,
 lascia i vestiti zuppi e si cambia per poter continuare il cammino 
lasciandosi alle spalle questa porta orientale dell’Europa.
 
