Repubblica 19.5.18
Lo scandalo pedofilia
La resa dei vescovi cileni
di Alberto Melloni
L’episcopato
cileno ha preso una decisione senza precedenti: l’intera conferenza dei
vescovi ha consegnato ieri a papa Francesco le proprie dimissioni. Un
gesto clamoroso di auto- decapitazione di una chiesa, che segna una
tappa drammatica nella vicenda che ha visto denunziare i crimini dei
pedofili preti e l’omertà dei vescovi.
Esplosa un quarto di secolo
fa, la crisi dei pedofili in talare ha visto cadere a fatica i
tentativi di minimizzare la cosa o di ridurla a casi confinabili alla
procedura penale canonica. È venuta poi la stagione della “vergogna” e
della “tolleranza zero”, affidata alla voce ferma e alle capacità di
empatia del papa: il che ha aiutato a scoperchiare un male, anche a
rischio di dare ansa a denigrazioni, che ha colpito diocesi, ordini,
movimenti. Solo in un caso, nel 2010, Ratzinger si scostò da questa
linea scrivendo una lettera alla chiesa di Irlanda che aveva come tema
la pedofilia. Fedele alla sua teologia, Benedetto XVI aveva indicato
nella presunta cedevolezza della chiesa irlandese davanti alla
secolarizzazione una delle ragioni di tanto vasta e inconfessata
tragedia. Un atto di accusa collettivo giustamente duro, ma che puntava
l’indice contro un episcopato che non si era nominato da solo, contro
una chiesa che non aveva mai domandato l’indipendenza da Roma.
Recentemente
la vicenda di un vescovo cileno ha riportato in discussione non solo il
comportamento di singoli religiosi, ma di un’intera chiesa nazionale.
Dove le violenze sessuali perpetrate da un religioso molto amato da
preti e presuli — padre Fernando Karadima — erano state denunciate
all’autorità ecclesiastica, che non aveva creduto alle vittime. Per le
coperture e le sordità, era stato sostituito l’arcivescovo di Santiago; e
Karadima fu condannato dalla giustizia canonica all’ergastolo canonico
perpetuo.
Nel frattempo l’ombra si allungava sui suoi più intimi
collaboratori: di uno di questi, monsignor Juan Barros — fatto vescovo
da Giovanni Paolo II e trasferito da Francesco a Osorio nel 2015 — sono
state chieste le dimissioni dalle vittime del prete-santone, che hanno
accusato Barros di aver saputo o di aver assistito agli stupri.
Francesco, convinto della sua innocenza, ha respinto le dimissioni
offertegli da Barros e ha domandato di fornirgli “le prove”. Una
richiesta che aveva sconvolto i sopravvissuti, che sanno benissimo che
lo stupratore scommette sempre sulla certezza che nessuno crederà alla
vittima.
Bacchettato dal cardinale O’Malley, resosi conto
dell’errore, Francesco ha chiesto il perdono delle vittime, ha ascoltato
gli esiti di un’inchiesta guidata da monsignor Scicluna, ha convocato i
vescovi del Cile per un incontro singolare, a metà fra il processo e il
ritiro, al termine del quale ha posto il nodo ecclesiologico della
questione in una densa lettera piena di citazioni. Non è una chiesa più
“rigida” o più “severa” o più “disciplinata” quella che può evitare i
delitti che hanno devastato persone e comunità: ma, sostiene Francesco,
solo una “ chiesa profetica” capace di rifiutare le “spiritualità
narcisiste”, di liberarsi dalla autoreferenzialità chiesastica e di
cercare la compagnia dei poveri.
Le dimissioni collettive sono
state la risposta dei vescovi. Un gesto mai visto. Un autodafé con il
quale un episcopato intero compie sì un atto di sottomissione al vangelo
così come Francesco lo ha personalmente predicato, ma in parte anche un
atto di sfida: perché potrebbe postulare una riconferma altrettanto
massiva, salva la sanzione di coloro che fossero platealmente
compromessi coi delitti. A Francesco il compito di decidere. Anzi
discernere; la cosa che un gesuita fa più spesso in vita sua; un atto
mai infallibile, mai sterile.