Repubblica 17.5.18
Maurizio Bettini. Contro il nozionismo
“Via il pensiero unico dai nostri licei classici”
di Raffaella De Santis
Giusto
difendere il liceo classico, a patto però che non si continui ad
insegnare il greco e il latino come si faceva cento anni fa. «È
disperante», dice Maurizio Bettini. Dopo l’intervista di ieri su
Repubblica al filologo Federico Condello, Bettini interviene per
ribadire quanto da anni scrive nei suoi libri e sperimenta sul campo:
«Il liceo classico deve fare i conti con la realtà. I ragazzi di oggi
vivono connessi ai social network. Più che insegnare la grammatica
antica dovremmo aprirci alla conoscenza delle altre civiltà».
Bettini,
professore di filologia classica a Siena e a Berkeley, è il fondatore
del centro senese Antropologia e Mondo antico, autore di testi come A
che servono i Greci e i Romani? (Einaudi) in cui ha analizzato proprio
il senso delle studio delle lingue classiche oggi.
Che cosa non la convince nella difesa del liceo classico di Condello?
«Credo
che il liceo classico debba orientarsi verso nuove possibilità di
insegnamento. Oggi i ragazzi vivono immersi nella Rete e il povero
insegnante ha di fronte giovani per i quali il libro stesso è diventato
un oggetto strano».
È vero però che studiare il greco e il latino è faticoso.
Sembra difficile alleggerirlo.
«Gramsci
nei Quaderni del carcere spiegava l’importanza di uno studio severo,
addirittura coercitivo, del latino. Ma il povero insegnante di oggi ha
di fronte ragazzi che vivono immersi in un’altra cultura. Inoltre
Gramsci si rivolgeva a un a élite intellettuale. Il nostro problema è
parlare a tutti».
Quali soluzioni propone per mantenere vivo l’interesse verso la cultura classica?
«Una
serie di esperimenti. Primo fra tutti l’esperienza teatrale: la mia
proposta è stimolare i ragazzi a tradurre un testo per poi adattarlo per
la scena e rappresentarlo».
Può bastare?
«Bisogna inoltre
spingere sull’antropologia, sulla storia della ricezione degli studi
classici (i cosiddetti reception studies) e sullo studio della retorica.
Leggere le opere antiche di Cicerone può aiutare i ragazzi a capire
come i comunicatori e i politici di oggi utilizzino gli strumenti della
retorica antica. Capirebbero che un’espressione come “stiamo facendo il
contratto di governo” è una metafora con la quale si vuole suggerire che
stavolta si fa sul serio, come quando si stipula un contratto
d’affitto. Chi ha studiato Cicerone ha un vantaggio cognitivo, sa
riconoscere la trappola retorica».
Che cosa intende per antropologia del mondo antico?
«Consiste
nel far vedere come i greci e romani siano “altri” da noi, come siano
“diversi”. Rimango convinto che approfondendo questi temi di civiltà si
possa riflettere meglio sul presente. Si tratta di mettere in
prospettiva se stessi attraverso l’alterità degli antichi. Si può
parlare dei migranti e degli immigrati anche attraverso l’Eneide. Un
approccio solo letterario e grammaticale a mio avviso non funziona».
In realtà Condello sostiene
che la traduzione non è mai un mero processo meccanico.
«Dovrebbe
essere così, ma in realtà non accade. Difficile immaginare che esistano
ragazzi talmente bravi da far convergere lingua e cultura».
Crede che la traduzione così com’è serva a poco?
«Ho
incontrato insegnanti aperti ad altri metodi, ma perlopiù l’esercizio
della traduzione è fermo a un secolo fa. Continuare a presentare un
brano in greco o latino senza contestualizzarlo, senza accompagnarlo
alla conoscenza della cultura antica, mi sembra incredibile. Col
risultato che la maggior parte degli studenti copia la versione da
internet».
Dati alla mano, dice Condello, il classico funziona. Chi lo frequenta eccelle all’università, anche nei corsi scientifici.
«Leggere
quei dati non è così automatico. Bisognerebbe tener conto che i ragazzi
che vanno al classico vengono da famiglie culturalmente attrezzate,
sono già selezionati alla base. Quando si proponevano certe percentuali,
Tullio De Mauro spingeva a considerare l’ambiente familiare di
partenza. A ragionare si impara soprattutto in famiglia, poi certo la
filosofia e le lingue antiche possono aiutare».
E cosa pensa dell’idea di esaltare la bellezza dell’inutilità degli studi letterari?
«In
questo sono d’accordo con Condello. Mi sembra una definizione un po’
snob. Credo però che Nuccio Ordine e Nicola Gardini la usino in modo
ironico per dimostrare in fondo che gli studi classici servono. Di una
cosa sono certo: tutti i libri scritti in questi anni, da quelli di
Gardini e Ordine a La scuola giusta di Condello, fino alla Lingua
geniale di Andrea Marcolongo hanno un’influenza positiva
sull’insegnamento delle lingue antiche, risvegliano il dibattito».
Tempo fa Mark Zuckerberg ha rivelato di amare il latino e l’Eneide. Detto dall’inventore di Facebook non fa sorridere?
«Eppure sentirlo è stato rassicurante. Se a dirlo è Zuckerberg, ci siamo detti, allora il latino deve essere davvero utile.
Noi
italiani siamo complessati, aspettiamo di essere rassicurati
dall’esterno perché viviamo il passato con senso di colpa, come se ci
vergognassimo di averne tanto alle spalle. Invece dovremmo farne un
punto di forza. Dovremmo rassegnarci all’idea che siamo il paese dei
musei e della tradizione classica, quello che gli americani chiamano The
Land of Culture ».
Quale cambiamento propone nell’immediato per il liceo classico?
«Riformare
la prova di maturità, affiancando la traduzione dal greco e dal latino a
una serie di domande che permettano allo studente un approccio
culturale e non solo linguistico. Lo propongo da anni e ho fiducia che a
breve ci arriveremo».