giovedì 17 maggio 2018

La Stampa 17.5.18
Migranti d’Italia
Il millennio medievale un turbinare di popoli che si spostavano lungo l’asse della penisola
di Alessandro Barbero


Viste le polemiche politiche suscitate dal tema dell’immigrazione, potrebbe sembrare strumentale ricordare che anche in altre epoche l’Italia è stata terra di approdo, e che gli italiani di oggi sono il frutto di imponenti rimescolamenti di popoli. In realtà rievocare quel passato non significa sdrammatizzare le emergenze attuali, perché nessuno degli episodi di immigrazione, di colonizzazione o di conquista che hanno avuto come teatro la Penisola è stato indolore: ovunque ritroviamo la fatica degli emigranti, l’angoscia dei profughi, lo spavento degli indigeni, la dura disciplina imposta dai governi. Ma è altrettanto vero che ognuna di quelle ondate è stata assorbita, che il Paese ha continuato a vivere e a lavorare, e che via via nuove preoccupazioni sono venute a far dimenticare quelle vecchie, secondo il ritmo implacabile della vita e della storia.
Migrazione, in realtà, è una parola che può voler dire tante cose diverse: e infatti la diversità del fenomeno migratorio nella storia della Penisola è sbalorditiva. Limitiamo lo sguardo al millennio medievale: vedremo alternarsi stanziamenti di popolazioni barbariche, pianificati dalle autorità imperiali romane con metodi che ricordano irresistibilmente le deportazioni staliniane; invasioni guidate da élites guerriere che s’impiantano stabilmente nel Paese, dai franchi di Carlo Magno ai normanni di Roberto il Guiscardo; insediamenti di profughi da cui nascono minoranze stabilmente inserite nel panorama italiano, dai greci agli albanesi, dagli ebrei agli zingari; migrazioni di massa dalla campagna alla città, senza le quali il comune medievale non avrebbe potuto nascere, e migrazioni stagionali di muratori, spaccapietre e ambulanti dalle valli alpine verso Milano, Genova o Marsiglia, antesignane di un modo di vita di cui i vecchi montanari hanno ancor oggi il ricordo.
A colpire di più l’immaginazione, ovviamente, sono i trasferimenti di interi gruppi umani. Come i Sarmati, abituati a vivere da nomadi nelle steppe oltre il Danubio, e che Costantino trasferì in massa in Italia, trasformandoli in contadini. Una deportazione così massiccia che nella Penisola bisognò creare ben quattordici prefetture per gestire il loro insediamento, di cui sei nell’attuale Piemonte, a Torino, Acqui-Tortona, Novara, Vercelli, Ivrea, Pollenzo; e che oggi ha lasciato tracce soltanto in certi nomi di luogo, come Salmour. Oppure i greci che il governo bizantino trasferì in massa in Sicilia e in Calabria, per consolidare quella che era diventata una frontiera dell’impero, dopo la conquista longobarda dell’Italia. Un vero e proprio piano preordinato di colonizzazione etnica, che permise anche di mettere in salvo la marea di profughi, per lo più di lingua greca, che l’invasione araba aveva cacciato dalla Siria, dalla Palestina e dall’Egitto.
Intorno all’anno Mille l’Italia, dal punto di vista etnico e linguistico, era divisa in due. La schiacciante maggioranza della popolazione, fino alla Puglia e alla Basilicata, si considerava longobarda, e i suoi preti pregavano in latino. Già, perché sbaglieremmo di grosso a credere che l’impronta longobarda si sia limitata a quel Nord padano che più tardi, in età comunale, si chiamerà appunto Lombardia: a Bari, ancora nel Rinascimento s’incontrano matrimoni celebrati secondo le norme dell’editto di Rotari. E poi c’era l’estremo Sud, governato in parte da Costantinopoli, in parte da Tunisi: la Sicilia, la Calabria, il Salento. Lì la popolazione cristiana era greca e i suoi preti pregavano in greco; ma accanto ai cristiani viveva anche una consistente popolazione araba musulmana, oltre a fiorenti comunità ebraiche.
Forse l’Italia non era mai stata così lontana dal costituire un unico Paese. I secoli successivi vedranno la comparsa di nuove diversità, ma anche il venir meno dell’opposizione linguistica e religiosa tra il Nord e l’estremo Sud. Federico II, mitizzato oggi come simbolo di tolleranza, sradicò la popolazione araba dalla Sicilia, ne trasferì una parte in Puglia, disperse o sterminò il resto. A riempire i vuoti paurosi creati nell’isola dalla pulizia etnica, d’accordo con i suoi parenti piemontesi trasferì contadini da quella che allora, appunto, si chiamava Lombardia, cioè soprattutto dall’area monferrina; pochi sanno che uno dei luoghi interamente ripopolati grazie all’afflusso di immigrati dal Nord fu l’araba Corleone. Intanto, il Comune di Siena importava manodopera dalla Corsica per ripopolare la Maremma, dove nessuno riusciva a resistere alla malaria; i pastori del Vallese, che parlavano tedesco, colonizzavano gli alti pascoli del versante valdostano e valsesiano, dando origine alle comunità walser; dall’altra parte d’Italia, coloni bavaresi si stabilivano sull’altipiano d’Asiago, ignari che di lì a poco qualche erudito credulone avrebbe creduto di ritrovare in loro i discendenti dei Cimbri sfuggiti a Caio Mario.
E ancora: arrivavano ebrei dalla Germania, e si stabilivano a Venezia, a Ferrara, ad Ancona. Sloveni, croati, albanesi attraversavano l’Adriatico sbarcando nelle Marche e nelle Puglie, per sfuggire all’avanzata turca, o semplicemente alla povertà di una società arcaica, cercando lavoro in quello che era allora il Paese più ricco d’Europa. E nel 1422 un cronista bolognese registrava l’arrivo in città di «un duca d’Egitto», con una carovana di gente del suo paese: chiedevano l’elemosina, commerciavano in cavalli, le loro donne erano bravissime a leggere la mano. Benché sostenessero di venire dall’Egitto, si portavano dietro il nome che li designava in Grecia, zingari, ed è quel nome che attecchì in Italia; altri popoli più ingenui li credettero egiziani davvero, e li chiamarono così, gypsies. La gente li trovava divertenti e li applaudiva; poi qualcuno notò un aumento di furti, e l’accoglienza divenne meno entusiastica, anzi ci furono Comuni che proibirono loro di entrare sul proprio territorio. L’Italia, fra tanti sconvolgimenti, cominciava pian piano ad assomigliare a quella di oggi.

«Gramsci nei Quaderni del carcere spiegava l’importanza di uno studio severo, addirittura coercitivo, del latino. Ma il povero insegnante di oggi ha di fronte ragazzi che vivono immersi in un’altra cultura. Inoltre Gramsci si rivolgeva a un a élite intellettuale. Il nostro problema è parlare a tutti»