Repubblica 17.5.18
Il personaggio. Lev Abramovic Dodin
“Ah, se Putin leggesse Vita e destino...”
Lev
Dodin è il regista russo che porta sulla scena il romanzo capolavoro di
Vasilij Grossman: un eterno atto d’accusa contro tutte le tirannie E lo
fa a Londra, nel pieno della nuova guerra fredda (e di spie) con Mosca
intervista di Enrico Franceschini
LONDRA
Non credo nella bontà universale, credo nei piccoli atti di bene
individuale». È il messaggio di Vita e destino, l’epico romanzo di
Vasilij Grossman sulla seconda guerra mondiale, rimasto proibito in Urss
fino a dopo la morte del suo autore, adattato per il teatro da Lev
Dodin, il più celebre regista russo, da trent’anni direttore del Malij,
il “Piccolo” di San Pietroburgo, leggendario teatro di prosa, e portato
in scena in questi giorni dalla sua compagnia all’Haymarket Theatre di
Londra. Lo spettacolo, in russo con sottotitoli in inglese, dura tre ore
e mezza. Alla fine, tripudio di applausi, attori in lacrime per la
commozione, Dodin sul palcoscenico a ringraziare.
Una tournée
finanziata da due miliardari russi residenti sul Tamigi, Roman
Abramovich e Leonard Blavatnik, che sembra arrivare in Gran Bretagna nel
momento sbagliato: dopo l’attacco con il gas nervino contro l’ex-spia
russa Sergej Skripal, mentre il capo del controspionaggio britannico
definisce Mosca “una forza maligna” e si parla di nuova guerra fredda.
Che effetto le fa, Lev Abramovic Dodin?
«Ovviamente
la tournée è stata organizzata con largo anticipo: non potevamo
immaginare che ci saremmo ritrovati in questa atmosfera. Da un lato, non
un buon momento per portare un teatro russo nella capitale britannica.
Dall’altro, il momento migliore, perché i rapporti culturali e artistici
non devono interrompersi e possono servire a comprenderci meglio, al di
là delle tensioni politiche».
Come è nata l’idea di un adattamento teatrale del romanzo di Grossman?
«Nel
1985 entrai in una libreria di Helsinki piena di libri di autori russi
dissidenti, da noi censurati. Ne presi in mano uno grosso come un
mattone e cominciai a leggere. Un’ora e mezzo dopo un commesso mi toccò
una spalla e disse che dovevano chiudere. Ero scioccato. Era come
leggere un Guerra e pace del ventesimo secolo. Grazie alla saggia
decisione di non portarlo subito con me in Russia, evitai di essere
arrestato. E vent’anni più tardi ho potuto metterlo in scena».
Lei
si considera seguace di Stanislavskij, il grande regista russo del
primo Novecento che diede il nome al metodo di recitazione, basato
sull’approfondimento psicologico dei personaggi, e che ha ispirato
l’Actors Studio di New York, da cui uscirono Brando e De Niro?
«Stanislavskij
era un genio unico. Io mi ritengo suo discepolo. Vita e destino è un
buon esempio. Le prove sono durate tre anni. Gli attori hanno letto 20
volte le 700 pagine del romanzo. Abbiamo visitato il gulag sovietico di
Norilsk e il lager nazista di Auschwitz. E all’inizio non c’era una
sceneggiatura.
Improvvisavamo, seguendo la trama del libro».
È un dramma sullo stalinismo, sul nazismo, sull’antisemitismo?
«Tutto
questo e di più. È un dramma su ogni genere di totalitarismo. Fenomeno
che oggi abbiamo di fronte, in diverse forme, in numerose nazioni.
Perciò è un dramma ancora attuale».
Cosa spera di avere comunicato agli spettatori di Londra?
«Che se al mondo esiste un solo ghetto, viviamo tutti nel ghetto.
Se
esiste un solo gulag, nessuno può sentirsi libero. Il problema non è
che Stalin e Hitler erano dei criminali: è che l’Europa ha permesso loro
di andare al potere. L’eterna verità della famosa frase di Hemingway:
non chiederti per chi suona la campana. Suona per te».
C’è abbastanza libertà oggi in Russia?
«Non
esiste il concetto di “abbastanza” libertà: la libertà c’è o non c’è.
Viviamo in un Paese irriconoscibile rispetto al giorno in cui presi in
mano Vita e destino in quella libreria di Helsinki. Sono stati fatti
molti passi avanti. Bisogna continuare, possibilmente facendo due passi
avanti e uno indietro. Non il contrario».
Putin ha visto questo spettacolo?
«Non mi risulta. Certo sarebbe interessante se lo vedesse».
Nel
dicembre 1991, nell’intervista che mi diede al Cremlino, il giorno del
crollo dell’Urss, Gorbaciov disse: “Noi russi non siamo né tartari né
tedeschi”. È un dilemma secolare. Per lei la Russia appartiene all’Asia o
all’Europa?
«Per me è europea. E i problemi della Russia odierna sono problemi dell’Europa intera.
D’altra
parte anche la nostra rivoluzione del 1917 ha avuto un immenso impatto
sull’Europa, contribuendo a cambiare la concezione di stato sociale, di
diritti dei lavoratori. Solo che siamo stati noi a pagarne le
conseguenze».
C’è differenza tra la gente di San Pietroburgo e quella di Mosca?
«Leningrado è più intellettuale.
Mosca ha più energia. Io amo entrambe».
L’ha chiamata Leningrado, non Pietroburgo.
«Le
vecchie abitudini sono dure a morire. Ma posso fare io una domanda?
Com’era Gorbaciov nel giorno delle dimissioni, nel suo ultimo giorno al
Cremlino?».
Sembrava sereno, tranquillo, riconciliato con l’idea
di avere svolto un ruolo storico ma di avere perso tutto. Lei lo vede
ancora?
«Lo incontro talvolta alle cerimonie ufficiali. Lo invitano sempre. Ma nessuno gli si avvicina. Viene lasciato solo».
Per concludere, Lev Abramovic, perché avete portato a Londra “Vita e destino” insieme a “Lo zio Vanja” di Cechov?
«Grossman
amava molto Cechov. Non a caso lo cita espressamente nel suo romanzo.
In Vita e destino, un personaggio dice: “Non credo nella bontà
universale, nel bene generato dal socialismo o dal cristianesimo. Credo
nei piccoli atti di generosità, nel bene fatto dai singoli individui”.
In fondo, una frase cechoviana».