giovedì 17 maggio 2018

Il Sole 17.5.18
Le presidenziali di domenica. Un Paese devastato da iperinflazione, mancanza dei beni di prima necessità e tensioni sociali
Venezuela, il voto della disperazione
di Roberto Da Rin


Maduro favorito nella sfida contro un pastore evangelico e un «Chicago Boy»
Un po’ “dictadura”, un po’di “dictablanda”. Cosa prevarrà? È questa la domanda retorica che, con sottile ironia caraibica, ci si pone a Caracas, capitale di un Venezuela irriconoscibile. Chi vincerà alle presidenziali del 20 maggio prossimo? Il comunista, l’ultraliberista o “l’italiano”?
Il Paese è sull’orlo del baratro economico anche se il suo presidente, Nicolas Maduro, è deciso a restare in sella e si ripresenta alle elezioni. Inflazione al 1200% annuo, forse al 1400%, nessuno lo può dire con esattezza. Il socialismo del XXI secolo di Hugo Chavez, nel 1999, si è dissolto dallo stato gassoso dell’entusiasmo a quello liquido dell’intangibilità. Dei beni di prima necessità, che mancano.
Tre ipotesi sul tappeto: la riconferma di Maduro, la svolta del candidato ultraliberista Henri Falcon o il pastore evangelico di origine italiana Javier Bertucci.
Il tracollo economico
L’unico fatto certo è che per comperare un (introvabile) rotolo di carta igienica bisogna riempire di bolivares un carrellino della spesa. Il cambio, variabile ogni minuto, non è più controllabile; la spirale svalutazione-inflazione, pare inarrestabile. I prezzi delle poche merci disponibili nei supermercati aumentano mentre si è in coda per acquistarle.
Quella del Venezuela è una depressione economica drammatica. Ci si andava a cercar fortuna, fino agli anni Cinquanta. E di fortuna ancora oggi, ve ne sarebbe tanta; il Paese possiede le maggiori riserve provate di greggio. “Terra di grazia” , venne battezzato così il Venezuela da Cristoforo Colombo. Anche se cinquecento anni dopo quella “grazia” si è trasformata, secondo alcuni sociologi, in “maledizione delle materie prime”. L’economia potrebbe essere rianimata solo da un incremento del prezzo del petrolio, unica e fondamentale risorsa del Paese.
Il religioso nei Panama Papers
In questo vuoto pneumatico di proposte, idee, coesione, si fa largo Javier Bertucci, 48 anni, un pastore evangelico di origini italiane. È fondatore della Maranatha Church, chiesa dello Stato di Carabobo. Sposato, padre di tre figli e di uno recentemente adottato, Bertucci parla chiaro: «Non mi presento come un messia, perché credo che ce ne sia già uno, Gesù Cristo. Dico solo che vivo tra i poveri, conosco le loro necessità. Invece i politici arrivano al voto dopo aver annunciato promesse che non mantengono mai e poi scompaiono». Bertucci si oppone all’aborto e ai matrimoni gay. Molto meno all’evasione fiscale: il suo nome compare nella lista dei Panama Papers, quella degli elusori che hanno trovato riparo nei paradisi fiscali, Isole Cayman, Seychelles e Isole Vergini.
Difficile prevedere il seguito elettorale che otterrà ma di certo gli evangelici continuano a guadagnare terreno in tutti i Paesi latinoamericani. Il Venezuela, dopo la scomparsa di Chavez, leader controverso ma molto carismatico, non fa eccezione. «A fronte di un governo che non offre garanzie necessarie per assicurare elezioni presidenziali trasparenti - ironizza Laureano Marquez, intellettuale e saggista venezuelano - parte dell’elettorato venezuelano potrebbe affidarsi a un emissario divino».
Maduro ha ereditato la leadership da Hugo Chavez, senza lo stesso carisma e riconoscimento regionale. L’opposizione, divisa e litigiosa, ha deciso di non presentarsi alle elezioni: l’idea è di abbandonare il campo in un silenzio rumoroso da cui emerga la deriva dirigista di Maduro. Ciò conferirebbe, secondo molti analisti latinoamericani, un paradossale vantaggio al governo.
L’unica certezza è che gli oppositori di spicco, Julio Borges, Antonio Ledezma, Leopoldo Lopez e Maria Corina Machado rimangono divisi su piattaforme e contenuti. L’ultimo atto di questa mancata coesione è stata l’espulsione di Henri Falcón, ex governatore dello stato di Lara, decisa dalla Mesa de la Unidad Democrática (Mud, il polo dell’opposizione). Anche se poi qualche oppositore ha fatto marcia indietro.
La decisione è stata presa dopo che Falcón ha annunciato di volersi candidare contro il presidente venezuelano Nicolás Maduro alle elezioni di domenica; un voto che però il Mud vuole boicottare perché ritiene una “farsa”. Falcón, comunque, ha difeso la propria candidatura sostenendo che partecipare al voto di maggio sia l’unico modo per sconfiggere l’attuale regime. Falcòn si vorrebbe avvalere di Francisco Rodriguez, in qualità di super consulente economico. Rodriguez è un economista della scuola di Chicago e accarezza il sogno di una vera e propria dollarizzazione del Venezuela. In altre parole, la sostituzione del bolivar, (moneta venezuelana) con il biglietto verde. Un’operazione simile, adottata molti anni fa dall’Ecuador, costerebbe una cifra compresa tra 10 e 12 miliardi di dollari. Una cifra ingente che gli Stati Uniti finanzierebbero volentieri, non per mecenatismo ma per il valore economico presente e futuro del petrolio venezuelano. Intanto è stato introdotto il “bolivar sovrano”, una nuova moneta alla quale sono stati tolti tre zeri, per rispondere alla scarsità di contanti prodotta dall’iperinflazione. Forse nella speranza di recuperare un po’ di credibilità: il Paese, visto dalla comunità finanziaria internazionale, «in-investibile». Ne parla così, con un neologismo finanziario, Xavier Hovasse, analista di Carmignac risk managers, intervistato dal Sole-24Ore.
La “cubanizzazione”
La situazione delle opposizioni in Venezuela è complicata da tempo: il Parlamento uscito dalle elezioni del 2015, e controllato dai partiti che si oppongono al governo, è stato svuotato di poteri e sostituito con una Assemblea filo-governativa voluta da Maduro.
Oggi i problemi paiono insormontabili, la scarsità di cibo, l’iperinflazione e un ipotetico default, provocato da eventuali inadempienze nelle scadenze di tranche di debito venezuelano, in programma nel 2018, rendono ricco di incognite il futuro del Paese. È questa la conclusione su cui sono approdati vari esperti intervenuti al convegno “Dove va l’America Latina nel 2018”, organizzato da Roberto Montoya, direttore di Mediatrends.
La “Cubanizzazione del Venezuela” è la forma espressiva più diffusa tra gli avversari del governo di Caracas, soprattutto ora che è stato distribuito il Carnet della Patria, una sorta di tessera annonaria che dà diritto a piccole quantità di cibo a prezzi calmierati. Caracas conta su alleati di peso internazionale, la Russia e la Cina. Non solo. Anche il prezzo del greggio (attualmente attorno ai 70 dollari al barile), previsto in aumento dagli analisti, potrebbe conferirgli un insperato vantaggio. A 80 dollari al barile, il Venezuela di Maduro, Paese al mondo con il maggior numero di riserve provate, potrebbe consentire al presidente di restare a Palacio Miraflores per un altro mandato. Con il plauso di Mosca e Pechino e l’inquietudine di Washington.
Il 2018, in America Latina, verrà comunque ricordato come un anno vissuto pericolosamente. Oltre al Venezuela, vi saranno elezioni presidenziali in altri Paesi importanti: Brasile, Colombia e Messico. Ne scaturirà una tendenza verso il rafforzamento della democrazia o un dérapage verso quel populismo che già contagia vari Paesi europei. I governi uscenti versano in condizioni difficili: corruzione, illegalità e narcotraffico sono le criticità comuni. Problemi politici e istituzionali. Proprio 20 anni fa, l’ex presidente del Venezuela, Hugo Chavez, nella cerimonia di insediamento, pronunciò solennemente la frase di rito, modificandola beffardamente: «Giuro su questa moribonda Costituzione». Su questo, aveva visto lungo.