Repubblica 13.5.18
Intervista a Amos Oz
“Il mondo ha voglia di fanatici Ma sono i coraggiosi a evitare le guerre”
di Juan Carlos Sanz
TEL
AVIV Sembra lo stesso di tre anni fa, ma la sua voce si perde spesso
nel registratore tra le fusa del suo gatto Freddie. «Le mie condizioni
di salute mi permettono di viaggiare solo con la mia immaginazione», si
scusa il più noto scrittore in lingua ebraica.
Amos Oz parla nella
sua casa di Tel Aviv sugli zeloti, gli estremisti e i settari che
preferiscono affrontare un mondo complesso nel modo più semplice, ma
finisce col riconoscere che il suo ultimo libro, “Cari fanatici”, è in
realtà un lascito: «L’ho dedicato ai miei nipoti. Ho concentrato ciò che
ho imparato nella vita, come una storia. La cosa più pericolosa del XXI
secolo è il fanatismo. In tutti i suoi aspetti: religioso, ideologico,
economico... perfino femminista.
È importante capire perché ritorna ora. Nell’islam, in certe forme di cristianesimo, nell’ebraismo... »
Lei scrive della tua terra. Il Medio Oriente è la culla del fanatismo?
«È
un’idea comune, ma non penso sia vero. L’ascesa del fanatismo e del
razzismo negli Stati Uniti è molto più pericolosa. C’è il
fondamentalismo in Russia e nell’Europa orientale. Ed è pericoloso anche
il fanatismo nazionalista nell’Europa occidentale».
Condividiamo questo peccato originale?
«Penso
che in ognuno di noi, forse, ci sia un gene di fanatismo. È la tendenza
dell’essere umano a voler cambiare gli altri. Diciamo ai bambini: “Devi
essere come me”. È una cosa molto comune».
Come si cura il fanatismo?
«Bisogna
essere curiosi. Mettersi nei panni dell’altro. Anche se è un nemico. La
ricetta è immaginazione, senso dell’umorismo, empatia. Ma non per
compiacere l’altro. Io cerco di immaginare che cosa fa sì che l’altro si
comporti in un certo modo».
Lei è fuggito dal clima che si
respira a Gerusalemme, la città dove è nato. È difficile non diventare
un fanatico in quella città?
«Amo Gerusalemme. Ma ho bisogno di
mantenere una certa distanza. È troppo conservatrice, in termini
ideologici e religiosi. A Gerusalemme quasi tutti hanno una loro formula
personale per ottenere la salvezza o la redenzione. Cristiani,
musulmani, ebrei, pacifisti, atei, razzisti, tutti.
Una caratteristica di Gerusalemme?
«Di
Israele in generale, anche se è più evidente a Gerusalemme. Una fermata
dell’autobus può diventare un seminario. Persone del tutto estranee
discutono di politica, morale, religione, storia o di quali sono le vere
intenzioni di Dio. Ma nessuno vuole ascoltare l’altro, tutti pensano di
avere ragione.
Nello Stato ebraico, dove la religione è un segno di identità, come vive un laico, un ateo?
«Il mio problema non è la religione, ma il fanatismo religioso. Non è il cristianesimo, ma l’Inquisizione.
Non è l’Islam, ma il jihadismo. Non è il giudaismo, ma gli ebrei fondamentalisti».
Un governo ultraconservatore in Israele, Trump alla Casa Bianca: un periodo storico favorevole all’intransigenza?
«La
maggior parte del mondo si sta muovendo velocemente da una prospettiva
complessa a una molto semplicistica. Succede anche nella sinistra
radicale».
Il nazionalismo, il conflitto palestinese, non hanno condizionato questa visione in Israele?
«È
naturale. Quando un conflitto dannato e crudele dura più di cento anni
ci sono ferite da entrambe le parti. Immagini cupe dell’altro. Ci sono
persone sentimentali in Europa che credono che si possa risolvere tutto
parlando e andando a prendersi un caffè. Una piccola terapia di gruppo e
amici più di prima. No. Ci sono conflitti che sono molto reali. Quando
due uomini amano la stessa donna. O due donne lo stesso uomo. C’è uno
scontro che non può essere risolto andandosi a bere un caffè. Il
conflitto tra israeliani e palestinesi è reale».
Ci vuole un divorzio: due Stati?
«Fondamentalmente, si tratta di questo. La casa è molto piccola.
Dobbiamo fare due appartamenti.
Israele
e, nella porta accanto, la Palestina. Poi dovremo imparare a dirci
“buongiorno” per le scale. Più avanti saremo in grado di farci una
visita. E perfino di cucinare insieme: un mercato comune, una
federazione o confederazione... ma prima bisogna dividere la casa. In
fondo, tutti sanno che l’unica soluzione possibile è quella dei due
Stati. Anche se non gli piace. Per i palestinesi e gli israeliani è come
un’amputazione, come perdere una parte del proprio corpo.
In Israele, c’è chi la considera un fanatico della formula dei due Stati.
«L’altra
soluzione funziona solo in Svizzera. In Jugoslavia finì in un bagno di
sangue. Ci fu un divorzio pacifico nell’ex Cecoslovacchia. Chi può
pensare che israeliani e palestinesi debbano andare a letto insieme e
fare l’amore e non la guerra? Dopo un secolo di massacri non è
possibile.
Non sembra che la leadership israeliana abbia fretta di trovare una soluzione.
«Questo è il cuore del conflitto, la mancanza di una leadership.
Nessuno ha il coraggio che ebbe De Gaulle quando concesse l’indipendenza all’Algeria».
Né gli israeliani, né i palestinesi?
«Nessun
leader del mondo. Per esempio non vedo leader coraggiosi a Madrid o
Barcellona. Una nuova frammentazione dell’Europa non mi fa piacere. Non
capisco perché, ma se in Catalogna c’è una maggioranza di cittadini che
vuole vivere per conto proprio, lo farà.
Può darsi che sia un grande sbaglio.
Ma non puoi forzare due persone a condividere un letto se uno dei due non vuole. Persino la Scozia vuole uno Stato».
Dunque, viviamo in un’epoca di vigliacchi e di fanatici?
«È
un’epoca di semplificazioni. La gente si aspetta risposte semplici e
non teme più di sembrare estremista. 80 anni fa avevamo paura di Hitler o
di Stalin».
Se l’immunizzazione provocata dalla seconda guerra mondiale non funziona più, ci vorrà un nuovo vaccino?
«Non
voglio un altro bagno di sangue. Ma il rischio c’è: il fanatismo porta
alla violenza. Il mio libricino contiene un milligrammo di vaccino:
tolleranza e curiosità.
Sorridere, anche ridere di se stessi.
Non ho mai visto un fanatico dotato di senso dell’umorismo».