domenica 13 maggio 2018

Corriere La Lettura 13.5.18
Ahmed Shaheed Il «rapporteur» Onu
«Io combatto l’analfabetismo religioso»
di Marco Ventura


Dal 2016 Ahmed Shaheed è special rapporteur Onu per la libertà religiosa. In quanto esperto indipendente, lo special rapporteur non ha potere sugli Stati. I suoi rapporti, tuttavia, non sono privi di peso culturale e politico.
Lo «special rapporteur» per la libertà religiosa è un diplomatico maldiviano musulmano. In esilio.
«Con il colpo di stato salafista del 2012 il rischio è diventato troppo grande. Ho ricevuto minacce di morte. I parenti di mia moglie sono stati aggrediti. Hanno saccheggiato per due volte la nostra casa».
Però crede nella diplomazia...
«Credo nella diplomazia della libertà religiosa».
Ci dia un motivo perché ci credano anche i lettori.
«C’è una crescente mobilitazione. Le cose si stanno muovendo. Cresce la consapevolezza di governi e istituzioni. La stessa Ue ha finalmente un inviato speciale per la libertà religiosa. Il problema maggiore è la paura. La paura dell’altro. È fondamentale parlarsi, conoscersi».
La libertà religiosa non è uguale per tutti. I cristiani sembrano più perseguitati di altri. È d’accordo?
«Come si misura chi soffre di più? Conta riconoscere la sofferenza, la grande sofferenza. E agire in difesa delle vittime, quale che sia la loro fede».
Vi sono priorità geopolitiche nella sua azione?
«I Paesi dell’Africa settentrionale e del Medio Oriente preoccupano particolarmente. Anche l’Iran…».
Lei è stato per sei anni «special rapporteur» delle Nazioni Unite per l’Iran.
«Appunto. Ma non dimentichiamo altre aree problematiche, come l’Asia centrale e l’Asia sud orientale, dall’India alla Cina e al Vietnam. E neppure l’Africa subsahariana, dove Senegal e Sudafrica sono l’eccezione».
Da dove viene la minaccia?
«Dal secolarismo antireligioso, come nei Paesi dell’Asia centrale ex sovietica. E dalle teocrazie».
Su quali problemi si sta concentrando?
«Sull’azione. I principi e le strategie ci sono. Dobbiamo compattare le forze, dentro e fuori le Nazioni Unite, nel dialogo attraverso le frontiere e le religioni».
È la sua diplomazia della religione.
«Dobbiamo alfabetizzare alla libertà religiosa. Far capire che noi non promuoviamo una religione. Questa è la differenza decisiva. Non il cosa ma il come: non promuoviamo una religione ma il diritto a una religione. Grande o piccola. Vecchia o nuova».
Le minoranze sono sotto pressione.
«Mi preoccupa l’antisemitismo. Anche per le nuove comunità religiose sono tempi difficili. E per i cristiani, e i musulmani dissidenti o in certi Paesi dell’Asia».
E gli atei e gli agnostici?
«Sono rapporteur per la libertà di religione “o di credo”, proteggiamo pure agnostici, atei, indifferenti».
Non sono certo gli agnostici che uccidono in nome di una fede. La sicurezza è un problema cruciale.
«In nome della sicurezza si minaccia la libertà religiosa. È un approccio che va rovesciato. La religione è una risorsa fondamentale per l’armonia sociale. L’ignoranza è il nemico. Se vogliamo lottare contro la radicalizzazione dobbiamo combattere l’analfabetismo religioso. È il tema del Rapporto che pubblicherò in ottobre. La lotta alla strumentalizzazione politica delle fedi è una mia priorità, il populismo religioso è un enorme problema. Non dobbiamo accontentarci dei bei discorsi di Ginevra».
Sul terreno c’è tanto su cui lavorare.
«Mi premono in particolare i diritti delle donne, dei minori, degli omosessuali. Poi ci sono le leggi che puniscono la blasfemia e la conversione».
La sfida riguarda in particolare i Paesi a maggioranza musulmana.
«Lì c’è davvero tanto da fare. Mi guidano quattro principi. Primo, l’educazione: basta col pregiudizio e l’intolleranza nelle scuole, ci vuole una seria educazione ai diritti umani e alla libertà religiosa ma anche alla religione. Secondo, l’inclusione: tante comunità si sentono escluse. Terzo, lo stato di diritto. Quarto la separazione tra Stato e religione: non è vero che sia impossibile per l’islam».
Lo dica ai sauditi.
«Chi non educa buoni cittadini e si crea mostri in casa, è destinato a esserne vittima».
I governi islamici più conservatori le metteranno i bastoni tra le ruote.
«Ci proveranno di sicuro».
Eppure lei crede nel cambiamento.
«Ho 54 anni. Ho visto crollare il Muro di Berlino. Ho visto che la trasformazione sociale è possibile».
Anche quella in peggio.
«Le mie tolleranti Maldive sono in mano ai salafisti».
Lei impersona un altro islam.
«Sono cresciuto in una famiglia di giudici. Fin da piccolo ho sentito parlare di circostanze, di prove, di procedure. Poi ho studiato diritto. Anche islamico».
Cosa le resta della sua formazione, del suo islam?
«La giustizia viene prima di tutto».