Corriere La Lettura 13.5.18
L’Occidente è colpevole. Ma l’Occidente è la salvezza
Psichiatra e antropologa marocchina, Rita El Khayat parla in questa intervista di colonialismo, migrazioni e Primavere Arabe.
«In certi momenti storici è meglio un regime forte. Tra Assad e Isis scelgo Assad»
di Lorenzo Cremonesi
Non
si tira indietro nell’accusare «il colonialismo e i danni gravissimi
che ha causato ai Paesi arabi e nelle province del mondo islamico». Però
è anche profondamente innamorata della cultura occidentale, della sua
difesa per i diritti umani e delle donne in particolare. «La mia
salvezza intellettuale e civile è cominciata quando giovanissima ho
studiato la lingua francese», non si stanca di ripetere. E ai migranti
che attraversano il Mediterraneo per approdare in Europa non lesina
critiche. «Mi stupisce la caparbietà con cui restano attaccati ai valori
e alle tradizioni dei loro Paesi d’origine. Proprio non li capisco!»,
esclama. «Hanno rischiato la vita per venire in Occidente. Ma se non
vogliono cambiare ciò che hanno lasciato, allora perché non se ne
rimangono a casa loro? Se credono che a Roma o a Parigi si possono
uccidere le figlie che rifiutano di sposare i mariti scelti per loro
dalle famiglie non hanno compreso davvero nulla di questo nuovo mondo,
meglio che tornino da dove sono partiti».
Il coraggio
intellettuale di Rita El Khayat sta anche nella sua aperta disponibilità
ad affrontare la complessità delle contraddizioni di un pensiero libero
come il suo. Nata nel 1944 a Rabat, marocchina legata alle tradizioni
del Maghreb profondo, è scrittrice (ha pubblicato una quarantina di
saggi, di cui 14 tradotti in italiano), ma anche psichiatra,
antropologa, ha scelto di esercitare a Casablanca la professione di
«antropo-psichiatra». Il prossimo 18 maggio parteciperà a Milano a un
convegno promosso dall’Asla (Associazione studi legali associati) in un
seminario dedicato a Donne e potere.
Partiamo dal tema che tratterà in Italia: non crede vi siano ben poche differenze tra donne e uomini di potere?
«Assolutamente
sì. Non cambia niente. Le donne al comando si comportano esattamente
come hanno sempre fatto gli uomini, con le stesse ingiustizie, le stesse
prevaricazioni e nepotismi, lo stesso sistema di privilegi per chi
obbedisce e di punizioni per chi si oppone. Semmai le donne sono ancora
più dure, più spietate e più forti degli uomini, proprio per il fatto
che hanno dovuto faticare molto di più per imporsi. Lo noto in Francia
come in Marocco e nel resto del Maghreb. Ma sono in atto mutamenti
epocali. Dove le donne sono diventate economicamente indipendenti
avvengono importanti processi di adattamento reciproci tra i due sessi;
necessiteranno decenni per trovare nuovi equilibri».
In Medio
Oriente ci eravamo illusi che le Primavere Arabe portassero giustizia e
libertà. Ma alle vecchie dittature laiche si sono contrapposti i
radicalismi islamici oscurantisti e fanatici. Ci siamo trovati a dover
scegliere tra la repressione di Bashar Assad e gli orrori di Isis. Lei
cosa sceglierebbe?
«Nel 2011, all’inizio delle cosiddette
Primavere arabe, stavo con le piazze della rivoluzione. Consideravo
Assad uno spietato e sanguinario dittatore. Ma poi, quando ho visto cosa
Isis faceva alle donne, lo scempio dei diritti umani, le ragazze yazide
vendute in piazza come schiave sessuali, mi sono detta: “Mio Dio,
meglio Bashar. Se vince Isis torneremo al Medio Evo”. Ho scritto un
libro su questo mio ripensamento. Al caos preferisco un regime ordinato
che garantisca la crescita economica e la scolarizzazione diffusa. In
certi periodi storici un regime forte come quelli di Franco o Salazar
può rivelarsi utile. Più tardi potranno arrivare le riforme in senso
democratico ed emergere quelle che Karl Marx definiva le sovrastrutture
volte a migliorare la qualità della vita umana».
Dunque, in
Egitto, meglio Hosni Mubarak e il regime ancora più duro di Abdel Fattah
al Sisi? Un Libia meglio Gheddafi, meglio la vecchia nomenklatura
corrotta in Tunisia?
«Le Primavere arabe sono state un movimento
di protesta elitario esaltato dalla stampa occidentale, che però non era
una vera rivoluzione per il fatto che mancava di leader e di chiare
ideologie. Le minoranze che manifestavano in piazza sapevano cosa
volevano abbattere, ma non avevano alcuna idea su come e con cosa
sostituirlo. Così sono arrivati i movimenti islamici ben organizzati.
Alcune conseguenze sono stati i peggioramenti dei diritti civili,
inclusi quelli delle donne. Però poi ogni Paese va visto e compreso
nella sua storia particolare».
Per esempio?
«Molti anni fa
visitai l’Iraq di Saddam Hussein. Era una dittatura, certo. Ma il
livello delle scuole era buono, il Paese funzionava. Gheddafi però non
lo pongo sullo stesso piano: era un pazzo, uno psicopatico, una
personalità con gravissimi disturbi psichici. Aggiungo che il Maghreb è
una realtà diversa dai Paesi arabi. In Marocco, dopo gli attentati
terroristici di Casablanca nel 2003, abbiamo avuto riforme radicali, è
stato cambiato il diritto di famiglia. Nel 2012, dopo il caso di Amina
Filali, la sedicenne suicida perché secondo le nostre vecchie leggi
costretta a sposare il suo violentatore, abbiamo riformato ulteriormente
i nostri codici. Ora sono vietati i matrimoni ai minorenni e le ragazze
hanno diritto di scelta. Però resta il problema dell’ignoranza diffusa.
Per i poveri che non vanno a scuola in realtà cambia ben poco. Se non
conosci i tuoi diritti non sai neppure come difenderti. È una legge
universale. Noi oggi abbiamo una donna a capo del ministero della
Famiglia che ha avuto il coraggio di affermare che le famiglie che hanno
un reddito quotidiano pari a 1,80 euro non sono povere. Quando le è
stato chiesto cosa farebbe se sua figlia fosse violentata lei ha
risposto che la cosa è impossibile, lasciando intendere che le violenze
sessuali accadono solo tra poveri. Può anche essere vero. Ma i poveri
costituiscono la maggioranza della popolazione dall’India
all’Afghanistan al Medio Oriente allargato».
Nel suo libro «Il
complesso di Medea», dopo aver trattato delle ingiustizie subite dalle
donne nelle società mediterranee dove imperano le tre religioni
monoteiste, affronta anche un tema molto delicato: sovente sono le donne
anziane a comportarsi nel modo più duro e intransigente nei confronti
delle ragazze, specie se belle e vergini. Tra l’altro spesso nelle
società tribali sono le anziane a effettuare l’infibulazione sulle
bambine e sono prima di tutti le madri a costringere le figlie nei
matrimoni combinati. Donne vecchie contro giovani?
«In Marocco
diciamo che il paradiso è sotto i talloni delle madri. In un mio libro
del 1986 ho analizzato il vecchio sistema patriarcale giungendo alla
conclusione che senza un forte matriarcato non può esistere il
patriarcato. Parliamo di un sistema sociale che privilegia il gruppo, la
tribù, il nucleo familiare allargato. Il maschio anziano domina, ma
alle sue fondamenta sta la madre, la donna che da giovane ha rispettato
le regole, ha generato figli funzionali al gruppo e nella maturità
assurge a pilastro fondamentale della casa perpetuando le leggi che
stanno alla radice di quel modo di essere. In quel mondo gli anziani non
saranno mai abbandonati. I vecchi sono come i totem freudiani,
rappresentano il potere e la sua continuità. Si tratta di un sistema
sociale chiuso, assolutamente diverso dall’individualismo liberale
occidentale, dove le giovani donne devono stare in casa a generare e
curare i bambini. I figli maschi sono formalmente più liberi delle
sorelle, però la loro dipendenza dalla madre è molto più forte».
Ovvio che lei abbia sempre scelto l’individualismo occidentale al tribalismo orientale, vero?
«Sempre.
Non ho mai avuto dubbi! La mia libertà di donna, di intellettuale, di
individuo con diritti e doveri non poteva esprimersi in altro modo se
non nei canoni culturali e sociali occidentali. Mia madre non ebbe la
mia libertà, sognava di studiare francese, ma le fu vietato, fu una
vittima. Io amo scrivere negli aeroporti, viaggiare, essere sola a
pensare. Se avessi dovuto sacrificare le mie aspirazioni personali alle
regole sociali tribali non sarei mai diventata ciò che sono».