domenica 13 maggio 2018

Corriere La Lettura 13.5.18
La geopolitica della Cina
La conquista dell’Africa, le nuove Vie della Seta: la «lunghissima marcia» di Xu Jinping crea un mondo globalizzato in cui tutte le strade portano a Pechino
di Guido Santevecchi


La Cina vuole dominare il mondo? O vuole «costruire felicità, pace e armonia» per chi la seguirà, come dice più o meno modestamente il suo presidente Xi Jinping? C’è un processo in corso e sul banco degli imputati ci sono la geopolitica di Pechino, la sua ascesa di potenza globale, i suoi metodi di espansionismo industriale, culturale e ora anche territoriale (le isole artificiali tra le Spratly e le Paracel), il suo soft power ispirato da un Partito comunista rigenerato dal nuovo uomo forte Xi. E già potere morbido nelle mani di un leader forte appare come una contraddizione e un sospetto. Una premessa: l’espressione soft power, coniata nel 1990 dal professore di Harvard Joseph Nye, riassume i mezzi con i quali un Paese ne convince altri a «volere quello che lui vuole». Nel 2017 Xi ha messo le carte sul tavolo: «Entro il 2050 la Cina sarà leader globale con la sua forza nazionale e la sua influenza culturale internazionale».
Quella cinese è una lunga marcia che ha seminato di tracce il pianeta. Le più innocenti sembrano gli Istituti Confucio, una rete che conta 1.500 centri in 140 Paesi. Sul modello del British Council ma inseriti in università e scuole straniere con le quali hanno stretto joint venture. E qui viene il dubbio che i cinesi si stiano infiltrando nel nostro sistema di istruzione. Gli insegnanti di mandarino offrono una visione propagandistica della loro patria? Una risposta dall’University of California: «Sappiamo che ai loro corsi non si discute di argomenti come il Dalai Lama o l’indipendenza di Taiwan». A proposito, diceva Confucio: «Se fai un piano di un anno, coltiva il riso; se ne hai 10, pianta alberi; se pensi a 100 anni, educa i bambini».
Nel mondo in via di sviluppo peraltro ci sono molte più infrastrutture costruite dai cinesi che Istituti Confucio. In Africa per esempio i tecnici e consiglieri di Pechino sono arrivati negli anni Sessanta, mentre gli imperi europei ammainavano le bandiere. Prima grande opera la ferrovia tra Tanzania e Zambia: 1.860 chilometri tra montagne, foreste, fiumi e sabbie mobili. Inaugurazione nel 1976. La diplomazia cinese corre ancora in treno: nel 2016 è stata consegnata la linea Addis Abeba-Gibuti, 760 chilometri finanziati al 70% dalla Repubblica popolare, prima tratta completamente elettrificata del continente. «Aspettavamo da cent’anni», ha detto il presidente di Gibuti.
L’Africa è strategica per Pechino: ci sono circa 2 mila imprese cinesi, con oltre un milione di manager, tecnici e lavoratori sbarcati dall’Impero di Mezzo. L’interscambio Cina-Africa è oltre i 210 miliardi di dollari, superiore a quello di Usa ed Europa, che si ritirano commercialmente (non militarmente) per i problemi di corruzione dei governi locali e le violazioni dei diritti umani. Salvo poi interrogarsi impotenti di fronte all’onda dei migranti. Xi non si fa scrupoli, ha stretto la mano al compagno satrapo Robert Mugabe fino a quando è stato al potere nello Zimbabwe (ha anche donato un’accademia di polizia chiavi in mano al suo governo). Oltre il 60% delle importazioni cinesi dall’Africa sono materie prime — petrolio, carbone, rame; in cambio il mercato africano riceve prodotti finiti made in China — macchinari e automobili, tessuti e abbigliamento. Lamido Sanusi, ex governatore della Banca di Nigeria, ha scritto al «Financial Times»: «Gli africani debbono abbandonare la loro visione romantica sulla presenza dei cinesi, sono qui per servire i loro interessi, non i nostri, e questa è l’essenza del colonialismo che l’Africa ha vissuto con gli imperi europei». Risposta dell’agenzia Xinhua: «Il termine neo-colonialismo è usato dai Paesi occidentali per alleviare il dolore di fronte ai loro interessi che svaniscono in un continente che avevano colonizzato; con la sua crescente presenza in Africa la Cina è divenuta il motore di una terra ignorata». Così Gibuti, dopo aver atteso cent’anni la ferrovia, ha concesso ai cinesi una base militare, proprio davanti all’analoga installazione americana. Espansionismo strisciante? O accuse prevenute di noi occidentali che per vergogna storica e disinteresse abbiamo lasciato l’Africa alla potenza in ascesa?
C’è un altro progetto cinese, immenso e immaginifico: la Nuova Via della Seta. Nella visione di Xi si tratta di rilanciare quel percorso millenario, costruire «lungo l’antica via delle carovane una cintura economica che aprirà un mercato di 3 miliardi di consumatori». Quelle parole in mandarino, yi dai yi lu, sono state tradotte in tutte le lingue del mondo, entrando nel linguaggio comune dei governi come One Belt One Road, «Una Cintura Una Strada». Meglio dire molte cinture e molte strade, perché ora la Cina lavora su 6 corridoi dove vuole costruire autostrade, ferrovie per il trasporto delle merci, gasdotti e oleodotti che attraverseranno l’Asia centrale, la Russia, il Medio Oriente per arrivare in Europa. E poi c’è la Via marittima che dai grandi porti di Shanghai e Canton scende lungo il Mar Cinese meridionale, l’Oceano Indiano, fa tappa in Kenya, risale il Mar Rosso, giunge nel Mediterraneo con scalo al Pireo e approda a Venezia. Storicamente affascinante. Ma,intanto, il porto greco è stato acquistato da un consorzio cinese e molti Paesi dell’Europa centrale e orientale si sono fatti attrarre nell’orbita commerciale di Pechino. La Cina, con l’arretramento dei ghiacci, pensa anche a una via artica.
Ci sono molti dubbi sulla sostenibilità economica dei piani e sui loro veri fini. Lo storico Niall Ferguson ha detto a «la Lettura» che nell’ipotesi migliore la Nuova Via della Seta è «un’idea romantica ma poco fattibile. Dubito che i percorsi terrestri siano praticabili, troppa instabilità politica. La via marittima invece è possibile, però resta da vedere se la Cina non la userà come copertura per dotarsi di una Marina militare capace di sfidare la supremazia americana». Una sola certezza: Xi ha lanciato un nuovo Grande Gioco geopolitico per creare un mondo globalizzato nel quale tutte le strade portano a Pechino. Sostiene l’accusa l’India, convinta che «Pechino sta cercando di creare, e in parte ha già realizzato, una psicologia internazionale che riconosca l’inevitabilità dell’egemonia cinese». Il Fondo monetario internazionale avverte che le infrastrutture sono vitali per lo sviluppo ma, investendo e prestando centinaia di miliardi sulla Via della Seta, Pechino crea una schiera di Paesi debitori che rischiano di essere schiacciati dal peso. Dei 68 Paesi nel progetto, 23 sono vulnerabili e tra questi Pakistan, Laos, Mongolia, Montenegro, Gibuti, Maldive e Sri Lanka.
C’è un problema di «rischio sociale», conferma Sameh El-Shahat, nato in Egitto, cittadino britannico, a capo dell’agenzia di risk management China-i. Sameh tiene seminari per i manager governativi a Pechino e spiega che «gli investimenti da soli non bastano, la popolarità dei cinesi all’estero è bassa perché la loro comunicazione non è mirata sulla gente, le imprese parlano con chi è già convinto, con i governi che hanno concesso la licenza di costruire. Così manca la “licenza sociale” e questo porta al “rischio sociale” che può minare progetti e collaborazione». Per El-Shahat non bisogna avere paura «perché i cinesi a differenza degli europei non sono mai stati colonialisti, per questo non li conosciamo; sono nuovi arrivati e così li temiamo». Ecco la necessità del soft power. Ma quando è la Cina a usarlo, si parla di sharp power, influenza aguzza, autoritaria. Mentalità da guerra fredda, noi non vogliamo governare il mondo, rispondono a Pechino. «Il problema è che la Cina ha scarsa propensione a mettersi in discussione, un atteggiamento che al contrario la farebbe accettare meglio da noi. Ha poca consapevolezza dell’importanza di saper ricevere critiche costruttive», dice a «la Lettura» Davide Cucino, sinologo, dirigente industriale e presidente della Camera di Commercio italiana a Pechino.
Tutto chiaro? Henry Kissinger, nel suo Cina (Mondadori, 2011)ha teorizzato che mentre la tradizione occidentale esalta gli scontri decisivi, la Cina privilegia le tortuosità, il paziente e graduale consolidamento delle posizioni di relativo vantaggio. Un concetto riassunto nel weiqi, gioco da tavolo con 180 pezzi per parte. Nel weiqi si perseguono diversi obiettivi contemporaneamente, non serve lo scacco matto, basta un vantaggio minimo, che l’occhio non esperto, non cinese, non saprebbe cogliere. Invasione morbida.