Repubblica 13.5.18
Romano Màdera
Cattolico. Sessantottino.
Maoista. Junghiano. Poi il ritorno alla Bibbia attraversando a piedi la
Calabria. Un cammino di contraddizioni? “Anche Marx diceva di non essere
marxista”
colloquio con Antonio Gnoli
Si può
dire che ogni vita è un campo di battaglia: «Se alla fine ne ho avute
più d’una è chiara l’opportunità che mi è stata data di rinascere. E
allora viene in mente una vecchia frase. Non sento il rumore della
pioggia, disse l’allievo. Devi averla udita in un’altra vita, gli
rispose il maestro. Ora quel che senti è che stai nuovamente cambiando».
Anche nelle tre o quattro vite di Romano Màdera si avverte il
cambiamento. Dal suo racconto affiora il combattente interiore che nel
curare le proprie ferite ha imparato ad affrontare quelle degli altri.
Ci sono dunque storie che per trapassare devono essere smentite dalle
durezze della vita. Storie alle quali non daremmo particolare credito se
non fossero il frutto di una rinuncia piuttosto che di una conquista,
di un sacrificio che non la mera affermazione incisiva e squillante di
una vittoria. E poi: quale vittoria è mai così eclatante ed esaustiva da
apparirci definitiva? La testa di Màdera, gli occhi di Màdera, perfino
la bocca e le mani di Màdera sembrano concentrarsi in un punto
invisibile tra me e il piccolo vuoto della stanza che ci ricomprende.
Nella grigia penombra di un tardo pomeriggio milanese le parole di
Màdera sembra vogliano riscattare l’atmosfera soffocante del piccolo
studio. Noto un armadio, un divano, una poltrona, un tavolo, un
abat-jour acceso e una sabbiera con la quale egli esercita il ruolo di
analista junghiano. La sabbia, penso, come specchio di creatività e
infelicità altrui, è una tecnica che Màdera ha appreso alla scuola di
Paolo Aite: «Sono stato in analisi con Aite nel momento forse
mentalmente più eccitante e tragico per me. Avevo scoperto Jung e poi
Bernhard intuendo, come un naufrago, che una zattera mi avrebbe
trascinato su qualche lembo di terra ferma».
La sua crisi a quando risale?
«Forse
al 1976 o 1977. Insegnavo in una scuola tecnica. Italiano e storia. Nel
programma La Divina Commedia. Nell’aula gli studenti si nascondevano
sotto i banchi o dietro le colonne. Cominciai: “Nel mezzo del cammin di
nostra vita...”. Sentii un intruso tuffarsi nella mia testa, gli schizzi
si riverberavano nelle parole che pronunciavo, in quello che vedevo.
Crebbe lo smarrimento. Dove ero? Chi avevo davanti? Non lo sapevo più.
In termini tecnici potrei definirla una crisi di panico. Mi avviai
lentamente verso l’uscita. Le voci, prima distinte, divennero un brusio.
Lì in quel momento ebbi la nettissima sensazione che qualcosa stava
morendo; che un periodo della mia vita se ne stava andando. Non avevo
soldi per fare un’analisi. Pensai che la sola terapia a disposizione
fosse la scrittura. Mentre moriva una parte di me, stava nascendo il
primo libro».
Un libro che è stato appena ripubblicato da Mimesis: “Sconfitta e utopia”. Chi era lo sconfitto?
«C’era
un lato personale in quella sconfitta, per tutto quello che avevo fatto
e per ciò in cui avevo creduto. Scrissi il libro in gran furia e fu un
modo di fare i conti con la grande ignoranza giovanile che aveva
funestato il Sessantotto. Nella lettura che diedi di Marx scoprii
qualcosa di interessante».
Cosa esattamente?
«La sua teoria
del capitalismo impediva qualunque uscita da quelle regole economiche.
Può sembrare paradossale, ma se si esamina seriamente il suo pensiero ci
si accorge che non c’è spazio per la rivoluzione, non c’è nessuno
spazio per quel mito che noi ragazzi del Sessantotto avevamo inseguito».
Possibile che un tale abbaglio riguardasse proprio l’autore le cui tesi avrebbero dovuto cambiare il mondo?
«Il
Marx teorico della rivoluzione aveva tutt’altro fondamento rispetto
alla sua analisi economica. Nasceva dalle velleità della dialettica
hegeliana, dalla passione giovanile per Lutero, per San Paolo e per il
profetismo ebraico secolarizzato. Nella sua testa si profilavano due
scene totalmente diverse che non era in grado di fondere, ma tuttalpiù
di giustapporre».
Insomma, il capitalismo era più forte di ogni pretesa rivoluzionaria?
«Con
disperata lucidità giunse a questa conclusione: la funambolica capacità
del capitale di rendere perfettamente omogeneo a sé stesso ogni preteso
avversario. Non è casuale che, scrivendo a Engels, Marx ironizzava
dicendo “non sono marxista!” . Per me fu un modo di prendere coscienza
dei miei anni sbagliati».
Davvero lo furono in maniera così avvolgente?
«Se
mi guardo indietro, posso dire che tutto si tiene. Provengo da una
famiglia piccoloborghese con qualche ambizione culturale. Papà ispettore
scolastico, mamma maestra. Quattro fratelli e pochi soldi. Sono
cresciuto a Malnate, vicino a Varese. Un paese operaio dove c’era
un’industria tessile. La mia fu un’educazione cattolica, impartitami da
mia madre. Mio padre laureato in filosofia e gentiliano di vocazione
sembrava più tiepido in fatto di religione. Salvo notare sul letto
un’immagine della Sacra Sindone».
Cosa c’era di strano?
«Beh,
mi faceva un certo effetto da bambino. Forse le sue origini calabresi
lo spingevano a questa devozione, non lo so. Mia madre era veneta. Si
incontrarono a Roma. E l’altra cosa strana, almeno per quel tempo, è che
mia madre era del 1904 e mio padre più giovane di dieci anni. In
famiglia ero il più piccolo. Uno dei fratelli, legato a don Giussani, mi
fece leggere Kerouac. Seguivo impulsi diversi. Perpetuando certe
stranezze che solo dopo mi sarei accorto appartenere alla vita».
Come viveva quei contrasti culturali?
«Da
cattolico calato in una realtà operaia. Era l’Italia di quei tempi. Non
credo che la mia condizione fosse un’eccezione. Avevo appreso
un’educazione che non tollerava le ingiustizie; un sentimento per
intenderci comune a tanti ragazzi della mia generazione. Fu su questa
vaga consapevolezza che allora cominciò la mia seconda vita».
Verso quale direzione?
«Al
liceo incontrai un professore cattocomunista. Un lettore accanito dei
testi di Rosa Luxemburg ma, al tempo stesso, cattolico aperto alle
tematiche sociali. Fu allora che iniziai a fare politica. Era il 1967.
Poco dopo divenni maoista».
Per un ragazzo di formazione cattolica quasi un approdo naturale.
«Non
saprei dire. Per me fu la ribellione a un ordine che reputavo
repressivo e vecchio. Avevo già militato nella Gioventù Studentesca, un
gruppo dedito a iniziative caritatevoli, soprattutto in alcuni paesi del
Sudamerica. In particolare in Brasile. Mi accorsi che lì imperava la
dittatura e che bisognava fare la riforma agraria, altro che la carità! A
quel tempo cominciai a leggere alcuni testi di Giulio Girardi sui
rapporti tra cristianesimo e socialismo».
Quella di padre Girardi fu una figura molto particolare e in voga in quegli anni.
«Proveniva
dai fermenti sociali del cattolicesimo più aperto. Era un salesiano con
studi filosofici molto seri. Fu tra i primi ad accorgersi che c’era una
seria questione sociale per l’America Latina e averla posta senza
reticenze gli costò l’espulsione dall’ateneo salesiano di Torino. Anche a
Parigi dove andò a vivere subì la stessa sorte. Il dialogo che
auspicava tra cristiani e marxisti era indigesto per le gerarchie
ecclesiastiche. Ad ogni modo fu uno dei miei più importanti referenti
culturali».
L’adesione al maoismo?
«Capisco che oggi
apparirebbe una scelta insulsa; ma allora nei primi anni Settanta mi
sembrava che la rivoluzione culturale cinese fosse quanto di meglio un
giovane abbastanza ignorante e ingenuo potesse aspirare. Tanto era
insopportabile la ritualità e il dogmatismo con cui i maoisti italiani
si adeguarono a quel mondo, quanto eroico, per un ragazzo, poteva
apparire lo sforzo di emancipazione dalla povertà compiuto da un
miliardo di persone. Nessuno allora poteva immaginare che quella
“rivoluzione” era il combinato disposto di violenza politica e cecità
intellettuale. Ciò di cui mi resi conto quasi subito era il clima
asfissiante che il partito comunista d’Italia aveva creato. Con sollievo
me ne allontanai».
Per finire dove?
«La mia fortuna è stata
di conoscere Giovanni Arrighi. Quando mi sembrava di aver toccato il
punto più basso dell’involuzione mentale, comparve nel mio orizzonte
questa stranissima figura di studioso, una bellissima persona che aveva
fatto del rigore calvinista e dell’intelligenza le armi per combattere
l’ortodossia che dilagava a sinistra. Con lui fondammo il gruppo Gramsci
poi nel 1975 demmo vita alla rivista
Rosso».
Quella rivista fu soprattutto l’organo dell’autonomia operaia. Ancora una volta l’esaltazione dell’estremismo.
«L’intento
che avemmo con Arrighi fu di farne il laboratorio di un pensiero
politico non ancorato al marxismo-leninismo. Fu importante che quelle
pagine si aprissero alla controcultura e al femminismo. Non capimmo,
tuttavia, che essendo noi la “ destra” dell’estremismo di sinistra,
saremmo stati emarginati. Cosa che puntualmente avvenne. Ricordo i vani
tentativi di Elvio Fachinelli di continuare a scrivere per quella
rivista nella convinzione di poter contribuire ai movimenti
antiautoritari. Fu tutto inutile. La deriva ideologica stava avendo il
sopravvento. Pensai che la cosa migliore fosse uscire da quel delirio».
Cos’è che la spinse ad andar via?
«Mi
accorsi dell’assoluta incapacità di avere relazioni decenti con altre
realtà. Considerarsi diversi dagli altri e ritrovarsi peggiore degli
altri. Questo mi faceva star male. L’incapacità di ascoltare ci portò al
fallimento non solo politico, ma antropologico. Tutta quella roba che
stava accadendo mi crollò addosso con la morte di mio padre. Che era
stato, malgrado la distanza, un riferimento affettivo fondamentale. A
questo si aggiunse un disastro matrimoniale e la presenza di un figlio
da cui non potevo comunque prescindere. Fu allora che cominciai a
insegnare in un istituto tecnico di Seregno. Fu allora che si ruppe
qualcosa dentro di me».
È il punto su cui c’eravamo fermati dopo la lunga digressione.
«Scrissi
il libro su Marx e contemporaneamente iniziai a interessarmi di
psicoanalisi: Freud e Jung. Fu in quel periodo che mi imbattei in
Mitobiografia di Ernst Bernhard. Un libro per me fondamentale, dove
convivono le intuizioni più diverse dall’ebraismo chassidico alle
dottrine orientali, fino ovviamente alla pratica analitica junghiana.
Tutto sotto una luce di estrema originalità. Decisi di andare a trovare
la sua maggiore allieva Hélène Erba Tissot, che aveva curato il libro.
Fu lei, dopo vari incontri, a indirizzarmi su Paolo Aite. L’analisi che
intrapresi sarebbe stata propedeutica ai miei nuovi impegni».
Quando accadeva tutto questo?
«Tra
il 1978 e il 1982, in quel periodo andai a insegnare a Cosenza. Fu
un’esperienza intensa. Si viveva senza troppe divisioni né formalità il
rapporto tra allievi e insegnanti. Una delle cose più emozionanti fu per
me attraversare la Calabria a piedi insieme a un gesuita che mi insegnò
a interpretare la Bibbia. Attraversammo la Sila e l’Aspromonte,
accompagnati dalla lettura di Giobbe e del Cantico. Poi arrivarono gli
anni veneziani. Emanuele Severino mi chiamò all’università. Aveva creato
una scuola di allievi liberi ma altresì devoti al suo pensiero».
Cosa pensa delle sue tesi filosofiche?
«Le
trovo straordinarie per tutta la parte critica, meno nella proposta che
mi risulta poco convincente. La mia idea di filosofia è più una pratica
che non una mera speculazione. Voglio dire che non può essere solo una
professione, ma un impegno nella vita. È qualcosa che mi deriva da Jung
quando afferma che l’arte richiede tutto l’uomo».
Che cosa significa?
«Vuol
dire che se la filosofia è un impegno che serve a trasformare la
percezione del mondo, allora essa è soprattutto un “programma di vita”.
Trovo molto convincente Pierre Hadot quando dice che la filosofia era un
modo di vivere e di esercitare un pensiero in relazione con gli altri. E
allora cos’è la verità se non il riconoscimento che il proprio Io è
confronto e ascolto degli altri?».
Le interessa Lacan?
«Lo
conosco poco e quando lo leggo faccio fatica a capire cosa dice. Lo
ritengo un grande giocatore di parole. Ma questo non vuole essere una
critica, perché saper giocare è una questione fondamentale per
immaginare diversamente. Al “ reale” come lo istituisce Lacan preferisco
Jung quando dice che il reale è ciò che ha effetto e contemporaneamente
la nostra misura nelle cose».
In fondo tutta la sua storia si è svolta tra dismisura e misura. Cosa ha conservato delle precedenti vite?
«La
convinzione che ci sono molte cose oltre me e che questa non vuole
essere un’affermazione teorica; ma appunto una pratica. Quello che ho
cercato di conservare è una certa idea di utopia. Non come l’avrei
pensata sul finire degli anni Sessanta, ma come la vedo oggi dopo gli
errori, e le necessarie correzioni sopravvenute. L’utopia non è un sogno
che si deve realizzare; ma solo una stella polare che deve guidare il
nostro cammino. Coloro che hanno preteso di realizzare l’utopia hanno
soltanto bruciato il mondo».