domenica 13 maggio 2018

Corriere La Lettura 13.5.18
Decidi tu o i tuoi neuroni? Il declino del libero arbitrio
Dilemmi. La difficoltà di conciliare il concetto tradizionale di giustizia con le acquisizioni della ricerca sui meccanismi del cervello
di Patrick Haggard e Sofia Bonicalzi


Nella nostra esistenza quotidiana abbiamo la sensazione di poter scegliere liberamente che cosa fare e che queste scelte ci permettano di controllare le nostre azioni. Pensiamo a quale film vogliamo vedere, e l’intenzione che ne risulta guida le nostre azioni. Sperimentiamo una catena ordinata di decisioni che scegliamo ed eseguiamo. L’interazione con l’esterno dipende dallo scambio tra le previsioni delle conseguenze del nostro comportamento e la risposta dell’ambiente: quando premo l’interruttore, mi aspetto che la luce invada la stanza. Ciò che accade subito dopo conferma o smentisce la previsione, influenzando il mio comportamento successivo. L’associazione mentale tra un’azione e il suo esito è un elemento chiave della capacità di scegliere che fare, e sta alla base delle interazioni sociali. Quando ci relazioniamo con gli altri, assumiamo che le loro azioni siano egualmente basate su decisioni coscienti e riflettano obiettivi consapevoli. In questo senso, la libertà personale consiste nella capacità di produrre i risultati desiderati, esercitando la capacità di scelta.
La psicologia sperimentale e le neuroscienze si occupano da tempo di studiare i meccanismi cognitivi alla base delle azioni volontarie e hanno avuto un notevole successo nell’indagare come il cervello associ le azioni agli esiti. Tuttavia, queste scienze faticano a fornire una spiegazione riduzionista di come eventi chimici ed elettrici producano le azioni volontarie che percepiamo come «dipendenti da noi». I neuroscienziati mostrano un certo scetticismo circa il ruolo delle decisioni coscienti nel controllo dell’azione. I pionieristici esperimenti di Benjamin Libet negli anni Ottanta e una serie di studi successivi hanno suggerito che le decisioni coscienti di agire sono precedute da processi neurali inconsci che potrebbero rivelarsi determinanti nell’innescare le azioni. Come scrive Daniel Dennett, l’idea che le azioni volontarie siano guidate da decisioni consapevoli potrebbe non essere altro che «un’illusione dell’utente». Inoltre, le azioni volontarie sono di solito accompagnate dalla sensazione di «stare compiendo un’azione». Eppure, esperimenti effettuati durante interventi di chirurgia cerebrale hanno mostrato come i due elementi, che paiono strettamente intrecciati, possano essere dissociati. Infatti la stimolazione di aree specifiche della corteccia fa sì che i pazienti abbiano l’impressione di compiere movimenti che in realtà non si verificano o, al contrario, che essi compiano movimenti senza provare la sensazione di stare effettuando un’azione.
Queste scoperte, le cui conclusioni teoriche restano controverse, tendono a ridimensionare e decostruire l’idea tradizionale per cui la mente causa coscientemente le azioni. In particolare, il mito cartesiano della separazione fra mente e corpo non trova posto in un resoconto scientificamente attendibile di come vengono attuate le azioni volontarie. Tuttavia, le scienze che investigano i processi volizionali non si limitano a decostruire il dualismo, ma affrontano altre domande. Come avvengono le scelte volontarie? E che relazione c’è fra i meccanismi neurali che regolano le scelte e l’esperienza soggettiva delle nostre azioni?
In genere, le neuroscienze definiscono le azioni volontarie come azioni che dipendono da una causa interna, differenziandole dai movimenti corporei che dipendono da cause esterne. Secondo la causa che lo determina, il medesimo movimento può essere classificato come volontario oppure no. Posso sbattere automaticamente le palpebre per eliminare un corpo estraneo dagli occhi o posso sbatterle per mandare un messaggio. Le azioni volontarie appaiono più spontanee, flessibili e imprevedibili dei movimenti in risposta all’ambiente. Tuttavia, spontaneità e imprevedibilità non devono essere scambiate per assenza di cause. Gli esseri umani e gli altri animali agiscono sulla base di obiettivi che riflettono motivazioni. Pianifichiamo, avviamo ed eseguiamo azioni funzionali al raggiungimento di fini. In particolare, generare mentalmente piani per raggiungere un certo fine è un elemento decisivo nei processi cognitivi che traducono le intenzioni in azioni. L’importanza di questo processo emerge anche nelle discussioni sulla responsabilità. Per esempio, nei casi di presunto terrorismo, si distingue fra il fanatico che ha una generica intenzione di compiere un attentato, ma nessun piano specifico, e il criminale che ha un progetto dettagliato.
Indagare scientificamente i processi volitivi è difficile, ma non impossibile. Di solito, gli esperimenti sugli atti motori cercano di evocare una risposta attraverso la somministrazione di uno stimolo: si pensi agli esperimenti di Pavlov sui riflessi condizionati nei cani. Tuttavia, poiché le azioni volontarie sono, per definizione, generate internamente, gli scienziati non possono indurle tramite stimoli esterni. Per aggirare il problema, ci si avvale di istruzioni con un elemento di indefinitezza («premi questo pulsante quando ne hai voglia» o «premi uno di questi due pulsanti quando senti un suono, ma scegli liberamente quale premere»). Questi metodi richiedono che i partecipanti generino internamente informazioni su che cosa fare o quando farlo, in assenza di ragioni per preferire una certa azione. Difficilmente questi paradigmi incorporano l’intuizione che le azioni rispondano a ragioni specifiche.
Recentemente, tuttavia, il lavoro di Aaron Schurger, un neuroscienziato dell’Inserm di Parigi, ha messo in discussione convinzioni radicate su come ragioni e motivazioni contribuiscano alle azioni. Negli esperimenti di Libet, ai partecipanti era chiesto di compiere un’azione volontaria, scegliendo liberamente quando farlo. Modificando lo schema di Libet, Schurger ha mostrato come sia il momento in cui l’azione si verifica, sia il precedente aumento di attività neurale inconscia nei lobi frontali potrebbero essere determinati da fluttuazioni casuali dell’attività elettrica del cervello. Se le azioni volontarie sono il risultato di processi casuali o stocastici, che sembrano avere poco a che fare con scelte consapevoli relative a quando agire, come possiamo definirle «nostre», e dirci responsabili per averle compiute?
I dibattiti neuroscientifici hanno importanti implicazioni normative. Responsabilità morale e punibilità delle azioni sono aspetti essenziali del nostro modo di vivere. La comprensione dei meccanismi che regolano le azioni è decisiva per salvaguardarlo e migliorarlo. Si pensi al fatto che i disturbi dei processi volizionali (cioè relativi all’atto della volontà) sono comuni in diverse patologie neurologiche e psichiatriche. In molti sistemi legali, esse possono giustificare o esonerare da responsabilità e sanzioni. Tuttavia, le azioni di individui adulti sani dipendono nello stesso modo da meccanismi neurali e circuiti cerebrali. Ci si potrebbe chiedere se punire un individuo per le conseguenze di processi neurali meccanicistici (e quindi per il fatto di avere un certo tipo di cervello) corrisponda alle nostra concezione di giustizia. La domanda resta aperta e di difficile soluzione. Tuttavia, in quanto animali capaci di controllare le proprie azioni in modo flessibile e di ricordarne le conseguenze, gli esseri umani sono nella posizione di apprendere norme sociali, legali, e morali, e di agire in base a esse. Una società in cui ogni individuo abbia le medesime opportunità di avere accesso e di apprendere questi codici di comportamento va probabilmente nella direzione giusta. E una società che basi questi codici su principi di equità e condivisione sarebbe ancora più rassicurante.