sabato 12 maggio 2018

Repubblica 12.5.18
I Robin Hood al contrario
di Massimo Giannini


Non prendiamoci in giro.
L’odierno Di Maio in versione Rumor può fare ogni sforzo per annunciare che il suo Frankenstein Grilloleghista eviterà «forzature» e userà tutto il «garbo» possibile con la Ue.
Ma le piccole astuzie dorotee del capo pentastellato non basteranno mai a nascondere o silenziare la ruspa del socio Salvini che avverte: «Stiamo lavorando per voi». Ogni ora che passa rafforza in Europa e nel mondo la preoccupazione per il caso Italia. Portatore di una doppia anomalia tra i Paesi fondatori dell’Unione: primo a essere governato da forze esplicitamente populiste, primo a essere orientato più verso la Madre Russia di Putin e l’Ungheria neo-fascista di Orbán che non verso l’Atlantico.
Qui, con la fusione fredda tra Cinque Stelle e Lega, si avvera la profezia di Steve Bannon.
«Una coalizione tra populisti in Italia sarebbe fantastica — aveva detto due mesi fa il “principe delle tenebre” della campagna elettorale di Trump — perché trafiggerebbe al cuore Bruxelles».
Qui, nella patria che fu di Altiero Spinelli, sul nascente governo Salvi- Maio mette il timbro anche Nigel Farage: «È il migliore scenario possibile — esulta il leader dei separatisti inglesi di Ukip — perché piaccia o no a Bruxelles l’Italia rappresenta ormai un trend che attraversa l’intero continente».
Difficile convincere del contrario noi stessi e l’intero Occidente che osserva stupito (dal Financial Times alla Faz, dal Washington Post a Bloomberg) il Paese più indebitato dell’Eurozona crollato di fronte “alle forze del nazionalismo e del protezionismo emerse negli ultimi due anni come la più grande minaccia all’ordine politico”. Dobbiamo ringraziare Sergio Mattarella, che pur nella profonda solitudine politica con cui affronta questa ennesima notte repubblicana ribadisce due principi non negoziabili. La « narrazione sovranista » è seducente ma inattuabile. Il premier “terzo” del governo nascente, così come i ministri che lo affiancheranno, saranno “nominati” dal presidente della Repubblica, come prevede la Costituzione.
Fare politica, accettando le regole del “sistema”. Un sano bagno di realismo, per due formazioni anti-politiche e anti-sistema cresciute libere e irresponsabili nelle praterie dell’opposizione (mentre i governi della sedicente “sinistra riformista” perdevano colpevolmente la connessione col Paese reale, dopo aver accusato la paleolitica “sinistra radicale” di “mettere il gettone nell’iPhone”). Ma quanto possono reggere, dentro questa “camicia di forza” che si chiama semplicemente democrazia rappresentativa, e che non ha nulla a che vedere con la famosa “ frattura tra il popolo e le élite”?
Possono ripagare la fiducia dei popoli con la moneta buona della prosperità, come chiede Draghi, e non tradirla con i trenta denari dell’irrealtà.
Il governo nasce grazie a un compromesso al ribasso, l’ossimoro moroteo della « astensione benevola » o « benevolenza critica » di Berlusconi, trasformato da “Male assoluto” a “Male astenuto” in virtù delle solite trattative sottobanco ( conflitto di interessi, nomine Cdp- Rai, affare Mediaset- Vivendi). Un’altra polizza per la vita di Salvini, garante dell’incolumità politica e finanziaria del Cavaliere almeno fino al compimento dell’opa amichevole sul suo elettorato. Ma un’altra minaccia per la verginità di Di Maio, già violata dalle troppe contaminazioni tollerate dal 4 marzo in poi e adesso denunciate con rabbia dai “ duri e puri” nello sfogatoio del web.
Ora sta ai due dioscuri del nuovo scegliere a quale destino condannare il Paese e se stessi. Governo del logoramento o «governo del cambiamento»? «Restaurazione » o « Rivoluzione » , usando l’epos millenaristico del capocomico genovese? La prima opzione implica il rispetto dei vincoli comunitari (bilancio europeo, Fiscal compact, disavanzo inferiore all’1,5% del Pil), il riconoscimento delle prerogative del Capo dello Stato (dicasteri di Economia, Esteri e Interni negoziati con il Quirinale) e il cedimento ai “ ricatti del delinquente” ( secondo la formula classica dei grillini da combattimento).
La seconda opzione significa fedeltà alle mirabolanti televendite pre- elettorali. Cioè un « contratto di governo » in cui, oltre alla legge sul conflitto di interessi e alla « espulsione immediata di 600 mila clandestini » , figurano la Flat tax al 15% di Salvini, il reddito di cittadinanza di Di Maio, e l’abolizione della legge Fornero di Salvini e Di Maio. Tutte allegramente finanziate in deficit, cioè ancora una volta scaricate sulle future generazioni. La “tassa piatta” leghista costa 60 miliardi di minor gettito ed è l’imposta dei Robin Hood al contrario che toglie ai poveri per dare ai ricchi (senza correttivi, una famiglia con 30 mila euro di reddito annuo passerebbe da 210 a 2.700 euro di prelievo). Il reddito di cittadinanza grillino costa 28 miliardi secondo le stime Inps. La cancellazione grilloleghista della Fornero costa 130 miliardi in cinque anni. Poi c’è il disinnesco degli aumenti automatici dell’Iva, che ne costa altri 12,4.
Questa è la posta in gioco di una legislatura che nasce, ma per sopravvivere non oltre le elezioni europee del 2019. Di Maio e Salvini incarnano due campi ideologici opposti uniti solo dalla comune natura populista. È questa stessa natura che li esalta, ma al tempo stesso li condanna. Se non fanno quello che hanno promesso, perdono i loro elettori. Se lo fanno, perdiamo tutti.