Il Fatto 12.5.18
“L’intesa Lega-M5S è rischiosa. Il Pd ha puntato sul fallimento”
Giovanni
Floris. “Se manterranno tutte le promesse rischiamo la bancarotta: dire
‘avevamo ragione’ non sarà consolatorio per i dem”
di Silvia Truzzi
Merito,
competizione, solidarietà. Compiti in classe, gite, interrogazioni. È
la scuola, lodata o criticata (spesso a vanvera), di certo troppo spesso
riformata. Da un’inchiesta di un anno è nato Ultimo banco, ultimo libro
di Giovanni Floris e primo titolo della nuova casa editrice Solferino.
Con il conduttore di DiMartedì parliamo di politica – il difficile
accordo tra i partiti dopo le elezioni – e di politiche della scuola.
Che voto diamo alla crisi di governo?
Il
governo neutro che sembrava il risultato di una crisi irrisolvibile,
potrebbe rivelarsi l’elemento che la scioglie. E fortunatamente mi
sembra che il Quirinale segua con attenzione ogni passaggio di questa
crisi. Se si farà il governo Lega-5 Stelle vedremo scontrarsi con la
complessità del Paese chi ha vinto le elezioni semplificando. Io sono
molto critico sui programmi di questi due partiti: hanno costi
difficilmente sostenibili e non sono nemmeno tutti condivisibili. Non
amo il linguaggio della Lega, o l’approccio dei 5 Stelle alla
competizione politica. Gli ultimi segnali di Salvini all’estrema destra,
le parole di qualche giorno fa di Grillo sull’euro non lasciano ben
sperare. Su di loro pesa poi la ‘benevolenza’ di Silvio Berlusconi, che
non è cosa da poco per chi vuole governare. Bisogna però riconoscere che
la determinazione ad andare a governare di Lega e 5 Stelle è un segnale
di buona fede: se si andasse ora a nuove elezioni, avrebbero solo da
guadagnarci.
La crisi del Pd è anche una crisi di valori?
Il
Pd sconta la crisi di una leadership forte, che ha svuotato il partito.
La scelta di non dialogare con i 5 Stelle ha favorito l’alleanza del
Movimento con la Lega, e i soggetti che il Pd reputa il peggio che possa
capitare al Paese ora potrebbero governare. Non mi pare un gran
successo per il partito. Non credo che avrebbero dovuto fare per forza
il governo con Di Maio, ma che sarebbe stato utile avere una strategia,
saper dove guardare.
Il tanto meglio, tanto peggio.
È
sbagliato il punto di vista: non ci si può augurare un clamoroso
fallimento come se non costasse qualcosa al Paese. Non credo che
riusciranno ad abolire tout court la legge Fornero, né che faranno la
flat tax insieme al reddito di cittadinanza, ma mettiamo che riescano a
fare tutto ciò, tutto insieme: rischieremmo la bancarotta. Per il Pd
dire ‘avevamo ragione’ non sarebbe una gran consolazione.
La
scuola è l’argomento più politico che si possa immaginare. E non a caso
la politica se n’è occupata moltissimo, pur con risultati rivedibili.
Praticamente
ogni governo ha varato una riforma. Nessuna di queste però ha cambiato
il destino della scuola, perché al fondo non c’era mai una visione. Si
deve partire dall’idea che lo strumento culturale sia la bussola per
affrontare problemi sempre più complicati. Il mio professore diceva ‘non
c’è nulla di più pratico di una buona teoria’. Oggi in politica si
tende a semplificare i linguaggi e le chiavi di lettura: non so se
questo è l’effetto o la causa della situazione. Ma vedo un’aria di
famiglia tra il modo in cui la politica tratta i problemi e quello in
cui trattiamo la scuola.
E cioè?
Immaturità, superficialità,
impreparazione, improvvisazione. La sottovalutazione del ruolo che
l’approfondimento e lo studio dei problemi possono avere nella
soluzione. La tendenza a demonizzare quello che non ci fa comodo.
“La
classe dirigente che si è proposta alla guida del Paese negli ultimi
tempi rischia di essere ricordata come approssimativa, sempre a caccia
di una scorciatoia o di una battuta brillante che supplisca alla fatica
di farsi un’idea approfondita su un problema”. È un’autocritica
generazionale?
Mettiamola così: quelli della mia generazione che
hanno avuto la possibilità di governare il Paese hanno tradito i propri
tratti culturali. La formazione che hanno ricevuto avrebbe dovuto
renderli pragmatici ma rispettosi del ruolo della cultura e della
tecnica. Avrebbero dovuto distinguere tra percezione, desideri e realtà.
Tra politica e potere. Eppure questa generazione si è lasciata attrarre
dalla superficialità e dal populismo.
La riduzione di tutto a
slogan – uno dei tratti distintivi del dibattito pubblico di questi anni
– è un espediente vantaggioso: costa meno fatica.
La
semplificazione è utile se dietro c’è conoscenza, è una tragedia se
dietro non c’è nulla. Ci insegnavano il riassunto, esercizio in cui
l’abilità si manifesta nel sintetizzare tutte le circostanze importanti,
non eliminandone alcune a caso. La povertà di linguaggio veniva mal
giudicata, oggi è la caratteristica comune di gran parte delle
operazioni politiche e di molte operazioni culturali. La capacità di
comunicare è importante, ma non è esorcizzando la complessità che si
ottiene un buon risultato. Non si elimina il problema se si dà del
“gufo” (o del “componente della casta”, o del “servo di Berlino”…) a chi
lo individua. Dare autorevolezza alla scuola vuol dire restituire
valore alla competenza, alla responsabilità, al lavoro collettivo.
Quindi al Paese e alle sue istituzioni.
Di chi è la colpa?
Non
è più il tempo di parlare di responsabilità, urgono rimedi. Subito un
atto pratico e nel contempo simbolico: aumentare lo stipendio agli
insegnanti, perché sia evidente che si dà un alto valore alla funzione
che esercitano. A forza di provare ad abbassare gli stipendi a chi non
ci piace abbiamo dimenticato di alzarli a chi lo merita. Se una
collettività perde la capacità di governare il presente, bisogna
semplicemente rimettersi a studiare.