sabato 12 maggio 2018

Repubblica 12.5.18
Estetica e psicoanalisi
L’arte che guarisce la nostra ferita
È un lavoro che sa che il dolore, come la morte, è senza immagine, senza suono e senza nome
di Massimo Recalcati


Nel gennaio del 1968 un terremoto brutale cancella Gibellina nella valle del Belice. La nuova Gibellina verrà ricostruita a 20 chilometri di distanza. Architetti e artisti di tutto il mondo offrono i loro contributi alla ricostruzione.
L’invito verrà rivolto anche ad Alberto Burri che si reca sul luogo della tragedia, ma non trattiene le sue riserve: preferisce lavorare sulle macerie a cielo aperto della vecchia città piuttosto che donare un contributo per la ricostruzione di quella nuova. Di lì l’idea del grande Cretto: una enorme gettata di cemento bianco che avrebbe incorporato le macerie del terremoto. Scegliendo di non distanziarsi dall’orrore, di non retrocedere di fronte al luogo del dolore e della morte, Burri mostra la lezione più propria dell’arte: la sua dignità è tale solo se non evita l’incontro con il reale del trauma.
Per questa ragione Burri decise di costruire il suo Cretto proprio sul luogo dove l’orrore della morte aveva fatto la sua drammatica irruzione. Lo stesso si potrebbe dire, per fare un solo altro e notissimo esempio, di Guernica di Picasso che raffigura il terribile bombardamento nazifascista sulla città basca. Sono due esempi estremi: ci ricordano che l’evento dell’opera d’arte non può che commemorare la tragedia, non può che continuare ad evocarla. In questo senso non esiste arte spensierata. Perché il pensiero stesso nasce — come la psicoanalisi spiega — dalle prime esperienze di frustrazione, di incontro con l’assenza, con il vuoto. Per Schopenhauer il pensiero sorge, non tanto da un generico stupore rispetto alla manifestazione della vita, ma da un vero trauma, dal punctum pruriens del dolore e della morte, da una “spina nella carne” che non smette mai di pungere. E, tuttavia, se il lavoro dell’arte deve sapere tenere presso di sé il mortuum, la forza del negativo — come si esprimeva Hegel —, da questa vicinanza deve anche emergere con ostinazione talvolta ironica, se si pensa, per esempio, all’intensa opera di Maurizio Cattelan, che la morte non può essere l’ultima parola sulla vita. Il colmo del dolore non ha immagine, né suono e nemmeno può tradursi in parole; la sua esistenza è sempre nell’ordine dell’irrappresentabile.
Il trauma non si decifra simbolicamente come fosse una metafora ma tende a ripetersi silenziosamente. Per Freud il colmo del dolore consiste nell’irruzione di una quantità eccessiva di stimolazioni che offende e destabilizza l’equilibrio dell’apparato psichico e le sue povere difese. Non è vero che attraverso il lavoro del lutto possiamo liberarci — come credeva invece Freud — dal dolore della perdita. Ciascuno di noi porta con sé le cicatrici dei suoi dolori, dei suoi morti e delle sue molteplici separazioni.
Camminiamo nel mondo sempre circondati dalle assenze che hanno segnato la nostra vita e che continuano a essere presenti tra noi. Il lavoro del lutto non ci libera da queste assenze sempre presenti, ma ci permette di continuare a vivere, di resistere alla tentazione di scomparire insieme a chi abbiamo perduto. Se il dolore, come la morte, è senza immagine, senza suono e senza nome, la pratica dell’arte sorge come un possibile lavoro intorno a questo suo carattere inesprimibile. È questa la lezione di Burri con il suo Cretto, ma è questa altresì la lezione di tutta la grande arte: l’aspirazione alla forma sorge sempre da un confronto serrato con l’informe.
Ogni artista, come accade nel testo biblico a Giacobbe, lotta nella sua notte con un nemico mortale che non è altro che quella parte dell’esistenza che non può essere governata dall’ordine della ragione. Ogni artista si deve misurare col vuoto, con ciò che non ha forma, non ha limite, non ha un argine stabilito. Nell’arte contemporanea la barriera della bellezza come difesa fobico-ossessiva nei confronti del carattere ustionante di questo informe ha ceduto, i suoi veli sono stati strappati. Di qui l’emergenza dell’orrido, dell’abietto, del fondo informe della vita che rischia però di fondare una nuova retorica del brutto. Questa via dell’arte ha le gambe corte. Se la restaurazione della bellezza sull’informe del trauma non è più praticabile, allo stesso modo l’esibizione ostentata del brutto non sembra essere all’altezza del compito più proprio dell’arte. Piuttosto — come accade nei grandi artisti da Kounellis a Kiefer — si tratta di mettere in valore proprio lo strappo, lo squarcio del velo, il luogo da dove l’informe emerge. Con il rischio di sprofondare nel caos dell’informe, al di là del velo, di autodistruggersi, di rendere impossibile il sentimento estetico come tale. Il gusto per l’orrido che caratterizza le tendenze egemoni dell’arte contemporanea segue questa direzione destinata ad una seriale sterilità. L’evento della grande arte pulsa ancora quando lo strappo del velo non annichilisce l’evento della forma, ma la potenzia. Restare prossimi all’inesprimibile, all’eccedenza assoluta della vita e della morte.
Burri aveva visto bene il rischio di separarsi dal luogo della tragedia, di negare la presenza tra noi dello spettro della morte, dell’impossibile da governare.
Se, infatti, l’arte diventa puro divertissement, gioco linguistico, provocazione, essa perderà il suo rapporto particolare col dolore: non accontentarsi di celebrare il visibile e il suo ordine conformistico, ma discendere nell’abisso dell’informe, del Terrificante, dove incontriamo insieme alle macerie del mondo, le nostre. In questa discesa l’artista può indicarci la via in risalita della sublimazione: se la ferita non può essere curata, se nessun balsamo può guarirla, nessuna maceria, nessun dolore può essere l’ultima nota sulla vita. L’arte è all’altezza del suo compito quando, scriveva Beckett, ci ricorda che se è impossibile continuare è anche impossibile non continuare. È in questa forzatura che l’arte trova un passaggio stretto: se è impossibile dimenticare l’urto del trauma, il suo compito non è quello di ripetere il trauma, ma di elevare il suo urto alla dignità redentrice della poesia.