il manifesto 12.5.18
Prigionieri degli spiriti
Vite da
pazzi. Un libro raccoglie la testimonianza dell'opera a favore dei
malati di mente africani di Grégoire Ahongbonon (che sarà ospite al
Salone del libro). Ne pubblichiamo un estratto.
di Rodolfo Casadei
Grégoire
non è ingenuo, non è un idealista che vive fra le nuvole. Sa che a
volte i pazzi possono diventare pericolosi per sé e per gli altri, gli è
capitato di essere schiaffeggiato da qualcuno di loro o di finire fuori
strada con l’auto per l’azione irrazionale di un malato trasportato. Ma
sa anche quello che la psichiatria e la società moderne ci hanno messo
molti anni ad ammettere: che la contenzione del malato da ricorso
eccezionale passa ad essere facilmente prassi banale e continuativa, che
rassicura i sani mentre diventa un’oppressione permanente della
persona. Le catene non sono terapeutiche: peggiorano le condizioni
psicologiche e fisiche del malato. Permettono alla società di non
occuparsi di lui, alla famiglia di non vergognarsi davanti ai vicini e
ai conoscenti, e soprattutto tengono lontano qualcuno diventato qualcosa
che fa paura: lo rendono innocuo mentre lo reificano.
Grégoire Ahongbonon. Foto di Fabrizio Arrigossi
I
malati mentali fanno paura. Paura del contagio, della contaminazione,
prima ancora che paura di danni fisici o materiali da atti irrazionali
del demente. L’africana paura che gli spiriti che hanno colpito il
malato possano colpire chi lo avvicina e determinare anche in lui la
possessione e la malattia è la versione simbolica di una paura
universale: quella di diventare pazzi a propria volta, isolati e
inavvicinabili da tutti, trascinati nella follia dagli stessi malati
psichici a causa di contatti ravvicinati con essi.
Agli inizi
della loro storia, per quasi due anni Grégoire e la San Camillo si sono
occupati di malati mentali raccogliendoli dalle strade, senza avere
conoscenza che esistevano malati ridotti in catene o messi ai ceppi dai
loro stessi familiari, o da sedicenti guaritori. La vigilia della
domenica delle Palme del 1994, una donna telefona a Grégoire e lo
informa che in un villaggio a quaranta chilometri da Bouaké c’è un
malato immobilizzato da molto tempo dai suoi familiari, in condizioni di
salute deplorevoli. «Comincia già a fare buio quando mi arriva la
telefonata di una donna», racconta Grégoire. «Mi dice: ’So che lei ha
creato un centro per la cura dei malati mentali, mio fratello è
gravemente malato da anni, ma la sua famiglia non fa niente per lui. Lo
tengono legato e incatenato al suolo dentro a una capanna. Lei deve
venire ad aiutarlo’. Era la prima volta che qualcuno mi parlava di
malati incatenati, e sono rima- sto sorpreso. Non ho perduto tempo, sono
partito la sera stessa e sono arrivato al villaggio. Ho trovato la casa
e ho chiesto ai genitori del malato di poter vedere il loro ragazzo. Si
sono arrabbiati con la figlia che mi aveva chiamato e con me: ’Perché
hai fatto venire qui della gente? Il nostro malato è marcio, non si può
fare più niente’. Ho reagito: ’Un uomo marcio? Cosa vuol dire? Anche se è
marcio, voglio vederlo’.
Siccome continuavano a rifiutarsi di
mostrarmi il malato, li ho minacciati di chiamare la polizia e
denunciarli per sequestro di persona. Visto il trambusto, è intervenuto
anche il capovillaggio. Ha cercato di calmare gli animi e alla fine è
stato lui a convincere la famiglia a mostrarmi il loro malato. Avevo
visto tanti pazzi in pessime condizioni, in stato di abbandono per la
strada, ma la scena che mi si è presentata davanti, quella notte, è
stata sconvolgente. L’uomo era incatenato al suolo nella stessa
posizione di Gesù in croce, le braccia e le gambe bloccate dal fil di
ferro. Il ferro era entrato dentro la carne, si confondeva con la carne:
carne e ferro erano diventati una massa indistinguibile. Era veramente
marcio, coperto di ascessi. Ero deciso a portarlo via da lì, ma non
avevo con me strumenti adatti a liberarlo, e non potevo chiederli alla
famiglia. Tornai la mattina dopo, domenica delle Palme, insieme a una
suora infermiera e a un paio di cesoie, con cui tagliai il fil di ferro
facendo bene attenzione a non ferire il malato. Si chiamava Kouakou e
aveva 21 anni. Non si reggeva in piedi, dovevamo sorreggerlo noi. Mi
disse: ’Signore, non so come ringraziarvi. Non capisco perché i miei
genitori mi hanno fatto questo, io non sono cattivo’. Poche settimane
dopo è morto, perché le infezioni non erano più curabili, la setticemia
troppo avanzata. Ma almeno è morto con dignità, come un uomo. Da quel
giorno ho cominciato a viaggiare in lungo e in largo per la regione,
andando in tutti i villaggi da cui mi arrivavano notizie di malati
mentali incatenati o ai ceppi. Da allora porto sempre in auto gli
’attrezzi del lavoro’».
Gli attrezzi sono cesoie, sega, seghetto,
mazza e martello. Da quella domenica delle Palme sono passati più di
vent’anni, e Grégoire calcola di avere in tale lasso di tempo liberato
dalle catene un migliaio di persone, compresi alcuni che erano tenuti
prigionieri nei campi di preghiera dei sedicenti guaritori. Per alcuni
anni è stata un’attività che Grégoire ha condotto in prima persona, con
il supporto di qualche aiutante.
Negli ultimi tempi sono state
create équipe che operano su appuntamento, per quelle famiglie che
vogliono affidare il loro caro a un centro di accoglienza della San
Camillo, ma fino all’ultimo momento lo tengono bloccato in una stanza o
in una capanna perché non si fidano di quello che potrebbe fare. Quando
l’équipe arriva, alcune famiglie restano a guardare mentre gli
incaricati sciolgono l’infelice dalla sua prigionia, altre partecipano
attivamente alle operazioni di liberazione.
«Non ricordo tutte le
liberazioni che ho compiuto personalmente, sono state centinaia, e mi
capita di farne anche ai giorni nostri», spiega Grégoire. «Non ho più
dovuto litigare con le famiglie come mi successe la prima volta per
liberare Kouakou. Io capisco le famiglie: non sanno cosa fare, temono
che il loro congiunto faccia del male ad altri, e poi c’è la paura degli
spiriti. Ma se andate da loro dicendo che del loro caro vi occuperete
voi, che glielo riporterete guarito, non si oppongono, anzi vi
ringraziano». Alcuni di loro sono incatenati da poche settimane, altri
da anni che a volte si contano in doppia cifra. La persona che è rimasta
più tempo incatenata fra quelle che Grégoire ha liberato è una certa
Janine, tenuta fuori di casa per ben trentasei anni, prigioniera
all’aperto nei pressi di un immondezzaio ai bordi del villaggio, un
braccio bloccato in un tronco. «È morta di vecchiaia qualche anno fa. La
riportammo al villaggio dopo tre anni trascorsi in uno dei nostri
centri. Quando fece ritorno la accolsero con una grande festa, fu
commovente».