Repubblica 10.5.18
Il maggio ’68 disuguaglianze e insegnamenti
di Thomas Piketty
Dobbiamo
gettare al rogo il Maggio ’68? Secondo i suoi detrattori, lo spirito
del maggio avrebbe contribuito al trionfo dell’individualismo, per non
dire dell’ultraliberismo. Ma sono tesi che non reggono a un’analisi
attenta: il movimento del Maggio ’68, al contrario, è stato il calcio
d’avvio di un periodo storico di fortissima riduzione delle
disuguaglianze sociali in Francia, che in seguito ha perso slancio per
ragioni di tutt’altro genere. È una questione importante, perché
condiziona il futuro.
Per uscire dalla crisi, nel 1968 il Governo
de Gaulle firma gli accordi di Grenelle, che includono un aumento del
20% del salario minimo. Nel 1970 il salario minimo viene ufficialmente
indicizzato – parzialmente – al salario medio, e tutti i Governi che si
susseguono dal 1968 al 1983 si sentono in dovere di dargli una
“spintarella”, in un clima sociale e politico in piena ebollizione. È
così che il potere d’acquisto del salario minimo progredisce
complessivamente, fra il 1968 e il 1983, di oltre il 130%, mentre il
salario medio, nello stesso periodo, avanza solo del 50% circa,
determinando una compressione molto accentuata delle disuguaglianze
salariali.
La rottura con il periodo precedente è netta e di vasta
portata: il potere d’acquisto del salario minimo era progredito di
appena il 25% tra il 1950 e il 1968, mentre il salario medio era più che
raddoppiato. Trainato dal forte aumento dei salari bassi, il monte
salari nel suo insieme nel corso degli anni 1968-1983 avanza molto più
in fretta della produzione, determinando un forte calo della quota del
capitale sul reddito nazionale. Tutto questo riducendo l’orario di
lavoro e allungando le ferie retribuite. La tendenza si inverte di nuovo
nel 1982-1983. Per prolungare il movimento di riduzione delle
disuguaglianze sarebbe stato necessario inventare altri strumenti:
poteri reali per i dipendenti nelle imprese, investimenti su larga scala
e uguaglianza nel sistema di istruzione, istituzione di un sistema
universale di assicurazione sanitaria e pensioni, sviluppo di un’Europa
sociale e fiscale. Invece il Governo utilizza l’Europa come capro
espiatorio in occasione della svolta rigorista del 1983, anche se in
realtà Bruxelles non aveva avuto nessun ruolo nel blocco dei salari: il
salario minimo non può progredire in eterno a un ritmo tre volte più
veloce della produzione, sia nel caso di economie aperte sia nel caso di
economie chiuse. A partire dal 1988, i Governi francesi contribuiscono
fortemente al movimento di dumping fiscale europeo sull’imposta sulle
società; poi istituiscono, con il trattato di Maastricht del 1992,
un’unione monetaria e commerciale dura e pura. Una moneta senza Stato,
senza democrazia e senza sovranità: un modello che ha contribuito alla
recessione decennale da cui siamo appena usciti. Oggi la crisi della
socialdemocrazia europea è generale. È innanzitutto la conseguenza di un
internazionalismo incompiuto. Nel corso del XX secolo, e in particolare
dagli anni ’50 agli anni ’80, la creazione di un nuovo compromesso tra
capitale e lavoro è stata pensata e realizzata all’interno degli
Stati-nazione. Con innegabile successo, e al tempo stesso forti
fragilità, perché le politiche nazionali si sono ritrovate prese nella
morsa della concorrenza crescente fra Paesi. La soluzione non è voltare
le spalle allo spirito del Maggio ’68 e al movimento sociale: al
contrario, dobbiamo usarli come leva per sviluppare un nuovo programma
internazionalista di riduzione delle disuguaglianze.
Traduzione di Fabio Galimberti