Corriere 10.5.18
Memoria
Einaudi pubblica il «Carteggio» del 1923, anno cruciale per l’intellettuale antifascista
Appunti di un giovane editore Piero Gobetti, militante delle idee
di Ernesto Galli della Loggia
Non
è necessario sottoscrivere le sue interpretazioni storiche, perlopiù
sommarie e spesso paradossali, né condividere le sue proposte e le sue
idee politiche ispirate a una visione delle cose quasi sempre lontana
dalla realtà: nulla di tutto ciò è necessario per restare stupefatti
dalla vita di Piero Gobetti e abbagliati dalla sua personalità. Uno
stupore e un fascino che si rinnovano leggendo questo nuovo volume del
suo carteggio (Carteggio 1923, Einaudi) anche questo, come il
precedente, curato con attenzione e competenza da Ersilia Alessandrone
Perona, che da tempo è la massima conoscitrice di cose gobettiane.
Il
1923 fu un anno di svolta nella vita di Gobetti: quello in cui dopo
neppure un anno dalla fondazione di «Rivoluzione Liberale», mentre
cercava di allargare sempre di più il pubblico della rivista, egli si
gettò pure nell’impresa non facile di dare vita a una casa editrice di
portata nazionale, la Piero Gobetti editore, il cui motto di copertina —
«Che ho io a che fare con gli schiavi?» — fu trovato da Augusto Monti.
Casa editrice il cui effettivo decollo fu reso possibile da un prestito
di 25 mila lire (restituito) concesso al ventiduenne (ventiduenne!)
editore dall’intelligente mecenatismo di Riccardo Gualino.
Il
carteggio rispecchia vividamente, giorno per giorno, lo sforzo frenetico
di Gobetti per tener dietro a tutti gli aspetti economici e
tecnico-amministrativi della nuova impresa, che si cimenterà perfino nel
tentativo, destinato a breve durata, di far uscire una rivista
teatrale, «Scene e Retroscene»: cercando di stabilire un circuito
virtuoso tra la rivista e la casa editrice, sollecitando giornali e
giornaletti della Penisola a pubblicare annunci pubblicitari dei suoi
libri, a ospitare finte recensioni dei medesimi scritte in realtà da lui
stesso. Ma naturalmente il massimo degli sforzi appare volto a trovare
autori e collaboratori.
Rifulgono qui, insieme al fiuto culturale e
all’intuito imprenditoriale, la stoffa, la curiosità e direi anche la
spregiudicatezza intellettuale del giovane editore. Gobetti, così come
si rivolge ad Amendola e a Sturzo per ospitarli nel suo catalogo fa lo
stesso con Curzio Malaparte, ma soprattutto non tralascia di allacciare
rapporti anche con tutta una serie di sconosciuti o semisconosciuti
intellettuali e studiosi della sterminata provincia italiana —
accogliendone o proponendone la collaborazione. Non di rado — come nel
caso di Tommaso Fiore o di Guido Dorso — scoprendo e contribuendo così a
lanciare quelle che sarebbero diventate figure di rilievo della vicenda
italiana. Le lettere raccolte in questo volume testimoniano per
l’appunto in modo speciale di questo instancabile lavoro di
organizzazione culturale attenta a tutto e curiosa di tutti, che resta
una delle gemme della biografia gobettiana. Di poco meno lucente di
quella rappresentata dalla sua tenacia di combattente politico che anche
in queste pagine lascia tracce numerose e significative.
A questo
proposito ha fatto bene la curatrice a ripubblicare i truci telegrammi
con cui in questo 1923 Mussolini presidente del Consiglio ordina al
prefetto di Torino di iniziare la persecuzione di Gobetti, disponendone
ben due volte il fermo con relative perquisizioni e sequestri. Sono un
esempio della vigliaccheria del potere fascista e del duce,
personalmente incapace di reggere (innanzitutto psicologicamente prima
che politicamente, mi avventuro a dire), la battaglia delle idee e dei
valori scatenatagli contro dal giovane torinese forte solo delle proprie
convinzioni e del proprio valore di polemista efficace quanto feroce.
Ma siamo ancora nei primi mesi del governo mussoliniano e la stima di
cui gode Gobetti è tale che le misure contro di lui sollevano un coro di
proteste, a cui non manca di unirsi perfino Giovanni Gentile. Avendone
in risposta un rispettoso e vagamente ironico ringraziamento in cui
Piero lo prega di credere al suo «affetto» pur se dimostrato, aggiunge,
«in forme… strane e difficili».
Spiace segnalare, infine, in
un’opera così curata, solo una piccola menda: non è vero, contrariamente
a quanto scritto a pagina 252, che nel 1931 Arturo Carlo Jemolo facesse
parte dei professori che si rifiutarono di giurare fedeltà al regime
fascista.